Olivo, albero immortale

Olivo

Olivo Olea europea

Olivo di Paestum

Olivo Olea europea
Paestum – 29 settembre 2016

 

La pianta dell’olivo non cessa mai di stupirmi. Longeva, ai limiti dell’immortalità, sembra incarnare tutti i simboli della civiltà mediterranea.  Forse, in questi nostri giorni, anche i suoi limiti. Una tenacia atavica e tanti nuovi nemici.

Contro il cielo terso delle colline liguri, si stagliano argentee le chiome dei piccoli olivi di Borzone, così esili e fragili a confronto dei loro fratelli millenari incontrati presso le rovine di Paestum.

Siamo nell’entrotrera di Chiavari, comune di Borzonasca, presso l’abbazia di Borzone, una chiesa monastica antichissima, le cui origini si perdono veramente nella notte dei tempi.  Oggi, soprattutto d’inverno, questo luogo appare romito e strano, e  per raggiungerlo bisogna seguire una piccola strada tortuosa verso il niente. Ma nei tempi passati, quando la vita si svolgeva in altitudine e gli inutili e scoscesi fondovalle non interessavano nessuno, questa chiesa era probabilmente un punto di riferimento sicuro per viandanti e pellegrini.

L’inverno non è certo la stagione delle foglie, ma sono tanti sono gli alberi che non se ne liberano e invece le conservano tenacemente anche nelle temperature rigide e nella bufera.  Certo, le temperature non devono essere troppo rigide, nè il vento troppo cattivo, poichè nessun essere vivente è veramente invincibile contro la forza degli elementi. Oltre le mosche e i crudeli parassiti stranieri, l’atavico nemico dell’olivo è il gelo. Come racconta Gavino Ledda,  nel suo splendido libro “Padre padrone”,  l’olivo rischia soprattutto alla fine dell’inverno, a causa delle gelate tardive. Il padre di Gavino aveva appena messo a dimora giovani olivi di radiose speranze, quando verso la metà di marzo il gelo improvviso glieli uccise tutti. E piena di pathos e poesia è la descrizione dell’agricoltore disperato che si aggira fra i suoi alberi spezzandone i rametti ormai disseccati. Così, nel mio piccolo, è capitato anche a me, quando l’olivo del mio giardino (17 giugno 2009), colpito dal gelo di un febbraio rabbioso, si era fatto nero e secco, prosciugato. Ridotto quasi a un moncone, cominciò a riprendersi lentamente durante l’estate, buttando fuori foglie un po’ dappertutto, dal tronco, dai rami, come un animale peloso. Ma i frutti hanno tardato a tornare, quattro o cinque anni almeno perchè le prime olive tonde e sode rifacessero capolino fra le foglie. Ora è risorto, un alberello più forte e sereno di prima. Fino alla prossima gelata,  sempre che non arrivi prima qualche infida malattia esotica.

Un albero monumentale: il rovere di Tiglieto

Rovere monumentale

Il rovere monumentale  di Tiglieto

Incontro questo rovere (Quercus petraea) centenario oltre lo splendido ponte di pietra sul torrente Orba nel paese di Tiglieto, sull’Appennino genovese. Ma che cosa si intende per albero monumentale? Anche se leggende ed anedotti giocano spesso un ruolo importante nel costruire la fama di un albero, quello che conta in realtà sono le dimensioni. La misura principale riguarda la circonferenza del tronco ‘a petto d’uomo’ cioè più o meno a 130 cm di altezza. Le dimensioni del tronco sono una misura dell’età di un albero, naturalmente in modo dipendente dalla specie. Un larice di 5.50 m può avere mille anni, mentre un castagno della stessa dimensione soltanto due secoli(1).

Il ponte del rovere

Ponte seicentesco sull’Orba a Tiglieto (500 m slm)

Il rovere di Tiglieto cresce sul dirupo del torrente e io non riesco a cingere con la corda il suo vasto tronco. Mi abbraccio all’umida corteccia muschiosa e mi accontento di una stima del diametro, metri 1.4,  da cui ricavo una circonferenza  oltre i 4 metri.  In questa pagina, trovo che il rovere di Tiglieto ha una circonferenza di 460 cm e la sua età è stimata in 300 anni. Su quest’albero esistono variee leggende. Lo si narra piantato dalle truppe napoleoniche che da queste parti scorrazzarono assai negli ultimi anni del 18° secolo e si racconta di  una N in metallo conficcata nel legno, che tuttavia nessuno in tempi recenti ha mai visto.
L’albero è imponente, ma la chioma, alquanto rovinata, è stata sottoposta a una potatura nel 2015 che ne ha eliminato le parti disseccate, lasciandolo un po’ spellacchiato.
Il ponte invece resiste, assai più di quelli moderni, dall’anno ‘partu virginis’ 1667.

(1)Tiziano Fratus “Manuale del perfetto cercatore d’alberi” UEFeltrinelli 2017 pg. 66

Clerodendro cinese, piccolo albero della buona sorte

Clerodendro cinese

Clerodendro cinese  – Clerodendrum bungei

 

Tempo fa mi chiedevo perchè il clerodendro ha questo nome, albero o pianta del destino o della buona sorte. Si tratta, è facile intuirlo, di una pianta sacra, usata in oriente, di dove è originaria, nelle cerimonie religiose. Mi convince assai meno l’interpretazione che farebbe risalire il nome all’azzardo che c’era nell’utilizzare questa pianta, dato che alcune specie sono tossiche ed altre officinali. Questa circostanza peraltro è vera per molti generi di piante, commestibili e nutrienti, o indigeste e tossiche a seconda della dose di certi componenti (vedi per esempio la patata).
Il genere Clerodendrum comprende alberi d’alto fusto, ma anche arbusti più modesti, come questa specie ornamentale,  che è assai esuberante e robusta, anche se sensibile alle gelate. Tutte le specie hanno fiori a forma di piccole stelle, prepotentemente profumati e riuniti in infiorescenze a ombrello rotondeggianti. Fiori che attirano le farfalle e anche, dove ci sono, i colibrì.  Clerodendrum bungei, ovvero clerodendro di Bunge (insigne botanico russo-germanico), ma volgarmente detto clerodendro cinese, non fa eccezione, anche se, a differenza dei fiori, le foglie sprigionano al contatto un odore pungente e sgradevole e la pianta è conosciuta anche come C. foetidus.
Clerodendrum appartiene alla famiglia delle Lamiaceae, ma talvolta viene assegnato alle Verbenaceae, tanto che nel dubbio io le ho indicate entrambe.

Fotografato nell’agosto di qualche anno fa, vicino a San Desiderio, Genova.

Il falso canforo di Tribogna

Falso canforo di Tribogna
Falso canforo di TribognaAndavo per paesi, tutti i paesi della provincia di Genova. Mi piacerebbe dire che facevo della paesologia come Franco Arminio, ma non è vero. Cercavo cartoline di tutti i comuni, se ancora ne esistono. Ne ho trovate poche e non ne ho trovate a Tribogna (condizione necessaria, anche se non sufficiente, per trovare una cartolina è che ci sia un negozio, tabaccheria o alimentari tuttofare, ma a Tribogna non ho trovato neanche quello).
Ho incontrato però una chiesa magnifica, San Martino, e vicino alla chiesa un piccolo parco, per giochi e incontri, dominato da un grande albero, il cosidetto falso canforo. Il Cinnamomum glanduliferum è stato scelto come albero ornamentale in un po’ tutto il Nord Italia, dove a volte si è spontaneizzato (pare non in Liguria però). Viene dall’Asia ed è parente sia dell’albero della canfora (Cinnamomum canphora , vedi 15 settembre 2008) che di quello della cannella (Cinnamomum verum).

 

Falso canforo - Nervi

Cinnamomum glanduliferum
Falso canforo

Canforo - Nervi

Cinnamomum canphora
Canforo

Distinguere i due canfori più diffusi nei nostri giardini (quello ‘vero’ e quello ‘falso’) non è molto semplice, anzi secondo gli ultimi aggiornamenti forse sono la stessa pianta.
Io sono andata a scuola di canfori nei parchi di Nervi, straordinari giardini che sono una fonte inesauribile di scoperte, e sopravvivono impavidi alla furia degli elementi e dell’incuria umana. Dal confronto delle due fotografie, mi pare di avere imparato che il falso canforo ha foglie più lucide con margini più netti, ma è una caratteristica sfuggente.

Falso canforo di Tribogna di Villa Durazzo Pallavicini (Pegli - Ge)

Falso canforo del parco di Villa Durazzo Pallavicini (Pegli – Ge)

Però, oggi ne sono certa e spiegherò perchè, il canforo più famoso dei giardini genovesi  è un falso. Si trova vicino al lago grande, nella stupenda villa Pallavicini di Pegli (Ge). Stretto com’è nella folta vegetazione, l’immagine non ne rende la prestanza. Ma lo celebra come spettacolare anche Tiziano Fratus(1) fra i grandi alberi di città. E ne descrive ‘la corteccia aranciata’, in contrasto con quella dei canfori veri, Cinnamomum canphora, che hanno tronchi grigiastri e cerulei, fugando così tutti i miei dubbi sull’identificazione. Questa caratteristica mi appare davvero interessante e già scorgo riflessi arancio anche sulla corteccia del falso canforo di Tribogna.

(1)Tiziano Fratus “Manuale del perfetto cercatore d’alberi” UEFeltrinelli 2017 pg. 187

La magia dei fiori di corniolo

Corniolo

Cornus mas

Il corniolo, albero schivo e tenace, fiorisce precocemente a partire dal mese di febbraio. Nel bosco spoglio di fine inverno, il sottobosco regala gioielli di inaspettata bellezza, come i crochi e le epatiche e, fra qualche giorno ancora, primule e scille (7 e 11 marzo 2009).
Sembra che gli alberi non abbiano niente da dire, gravidi di gemme marroncine, ma ancora addormentati. Finchè non ci si imbatte in una romantica (oggi è San Valentino) fioritura gialla. Queste corolle sono così microscopiche che bisogna davvero mettercisi d’impegno per ottenere una messa a fuoco decente. Per oggi mi accontento di quello che ho.

Del corniolo ho già detto e  molto ancora si potrebbe dire, pianta alimurgica e officinale, con proprietà tintorie, legno lucente, insostituibile. C.mas, corniolo maschio, è protagonista di leggende agli albori della civiltà mediterranea, dal cavallo di Troia alla fondazione di Roma.

Ippocastano

Aesculus hippocastanumAesculus hippocastanumQuesto è un post vagamente “ot” per un blog che si chiama fiori e foglie. Dove sono i fiori, o per lo meno le foglie? L’albero è nudo e benchè le sue forme siano ancora nette e solide, occorre riconoscerlo dalla sue spoglie, detto alla dantesca, le foglie secche dimenticate dal vento sul selciato. L’ho riconosciuto, è un ippocastano, albero di cui ho già parlato numerose volte(1). Albero imponente e tranquillo, la leggenda vuole che i suoi frutti siano graditi ai cavalli e altre leggende ne suggeriscono l’utilizzo negli armadi per tenere lontane le tarme. Di quest’ultima proprietà, ho testimonianze contrastanti.  Nell’infanzia ricordo quel soprannome, castagne matte (matto in Liguria significa fasullo, e quindi non commestibile e si dice dei tanti funghi del sottobosco che non hanno nessun utilizzo), tuttavia affascinanti, così levigate e splendenti. Sulle colline della mia infanzia, terra del castagno, quello vero, non c’erano tanti ippocastani e quest’albero mi richiama piuttosto qualche borgo del vicino Piemonte, dove si erge sempre a sentinella di castelli e chiese. Ma avrei potuto incontrarlo anche in un viale di città, come lo celebra Primo Levi.Damasco di Lorsica

Qui siamo a Lorsica, città metropolitana di Genova, bassa altitudine, ma dirupi estremi. Quest’albero si trova di fronte alla chiesa, eretta sul ciglio di un tornante. Le chiese di Liguria, diceva il poeta Vincenzo Cardarelli, sono “come navi che stanno per salpare”.
Lorsica è un comune sparso,  una manciata di frazioni anche molto lontane fra di loro. L’emigrazione del secolo scorso e la fuga verso la città ha decimato la popolazione, oggi ridotta a meno di 500 residenti. Ma tante sono le testimonianze del lavoro e dell’indomabile volontà della gente, le nobili sete damascate, la resistenza partigiana.

 
(1) le foglie prima che cadano (10 dicembre 2008 );
germoglio;
fiori;
un parente

Abete di Douglas

Abete di Douglas

Pseudotsuga menziesii
Kirk nel dicembre 2014

Molto ci sarebbe da dire su quest’albero, uno dei più maestosi della terra, secondo per altezza solo alle sequoie della California. Riprendo allora oggi quello che scrivevo di lui il 9 gennaio 2009, subito dopo un’abbondante nevicata.

– Sul retro della mia casetta cresce un abete di Douglas, o Douglasia, che chiamiamo familiarmente Kirk.  E’ un albero molto alto e imponente e, come gli altri abeti, non teme la neve. Ha pigne rosse, pendule, con caratteristiche brattee chiare, a tre denti, che sporgono tra le squame brune. Quando sono mature lasciano cadere i semi, pallette rossicce, a forma ovoidale, e poi si staccano intere dal ramo. Ai piedi dell’abete di Douglas c’é uno strato perenne di aghi, pigne e semi, una lettiera ricca di humus. Con buona pace di chi è ancora convinto che ‘gli alberi sempreverdi non perdono mai le foglie’.

Abete di Douglas

Pseudotsuga menziesii
sotto la nevicata del gennaio 2009

Il nome volgare di ‘abete’ è ricco di ambiguità. Le pigne della Douglasia sono più piccole di quelle dell’abete rosso e non si sfogliano come quelle dell’abete bianco. Quindi non è né Picea, né Abies, né tantomeno Pinus. Non è neppure una Tsuga, o pino canadese, anche se a quest’ultima deve forse assomigliare se il genere si chiama Pseudotsuga. Il nome di quest’albero è rimasto indissolubilmente legato a quello di un botanico scozzese del primo ‘800 ( si chiama anche Pseudotsuga douglasii) che lo riportò in Europa dal Nord America. Dico lo riportò perchè pare che prima dell’ultima era glaciale, la Douglasia crescesse anche da questa parte del mondo (ma actaplantarum non prende in considerazione quest’ipotesi e la definisce’esotica neofita casuale’).

Anche Kirk è oggetto di qualche contestazione familiare. E’ decisamente sproporzionato per la posizione in cui è stato costretto a crescere. E’ alto, ingombrante, e fa ombra ai pannelli solari. Gli aghi, i semi e le pigne intasano gli scarichi delle gronde. Ma vederlo così, tutto intero, immensamente alto, e diritto, e perfettamente conico, certo incute un reverente rispetto. E un timido affetto. E un po’ di magone pensando a una decisione che potrebbe essere presa, prima o poi. –

Abete di Douglas

Pseudotsuga menziesii
Coni vecchi e nuovi

Oggi, nove anni dopo, Kirk è ancora lì. E’ decisamente cresciuto, si è alzato di almeno cinque metri, anche se il suo tronco è rimasto assai snello. La sua altezza incombe sulla mia casa e su quella dei miei vicini, ma le tempeste di vento sembrano appena accarezzargli la sommità. A primavera, i suoi morbidi coni sono teneri e verdi. E la passiflora si arrampica sulle sue chiome, su sempre più su.

Foliage

Gli affascinanti colori delle foglie autunnali sono un enigma. Perchè mai le foglie proprio poco prima di andarsene, quando è già avviato l’inesorabile processo che le conduce alla morte programmata si vestono di tinte sgargianti e sfumature ricercate? Ma chi glielo fa fare?

Foglie autunnali di Ulmus minor

Ulmus minor

I fiori primaverili sono variopinti, ma per un ottimo motivo, devono attirare gli impollinatori, blandirli, talvolta ingannarli. Altrimenti non si scomoderebbero a farsi così belli e si limiterebbero a tutelarsi e proteggersi, come i fiori di paglia delle graminacee, piante che per riprodursi si fanno aiutare soltanto dal vento.

Foglie autunnali di Castanea sativa

Castanea sativa

Ma i colori dell’autunno a che servono? Soltanto alla tavolozza dei pittori? Certamente ne conosciamo l’origine, sono dovuti a flavonoidi, carotenoidi e antocianine,  sostanze che quando la clorofilla indietreggia prendono il sopravvento ed escono dall’ombra. Le foglie si preparano a una metamorfosi che non solo muta il loro aspetto, ma le rende progressivamente meno aderenti al ramo che presto abbandoneranno.

Foglie autunnali di Diospyros kaki

Diospyros kaki

Le sostanze che danno il colore alle foglie d’autunno hanno una serie di effetti benefici sulla pianta che si appresta al meritato riposo. Tuttavia una ragione semplice per tinte così accese non si trova facilmente.

Il colore più sorprendente di tutti è il rosso. E non solo perchè è così scenografico, ma perchè mentre il giallo e l’arancione derivano da flavonoidi e carotenoidi che la pianta produce in tutte le stagioni, il rosso deriva dalle antocianine che molte foglie cominciano a fabbricare proprio nella stagione autunnale. Ma perché?

Phytolacca americana

Phytolacca americana

Sono state fatte le ipotesi più disparate. Servono a proteggere le foglie senescenti da qualcosa? Forse a ritardarne la caduta?  Oppure a proteggerle dai parassiti? Ma ora che le foglie non stanno più nutrendo la pianta attraverso la fotosintesi, perchè sprecare preziosa energia per accudirle? Alcuni  scienziati hanno proposto che viceversa la produzione di antocianine serva a facilitare l’accumulo  di sostanze tossiche sulle foglie, che presto lasceranno la pianta aiutandola a disintossicarsi. Altri preferiscono accontentarsi della soluzione banale: le antocianine non verrebbero prodotte per motivi funzionali, ma sono semplicemente una sorta di sotto-prodotto dell’invecchiamento.

Foglie autunnali di Celtis australis

Celtis australis

Ma si può anche immaginare qualche spiegazione un po’ più soddisfacente. Ci sono piante che hanno foglie rosse in tutte le stagioni e chi le cresce sa che l’intensità del colore aumenta quando la luce è più forte; sembra quasi che le foglie si abbronzino e le antocianine agiscono da fotoprotettore.  In modo simile, l’intensità del colore rosso nelle foglie autunnali aumenta con la luce, ma anche con le temperature fresche (ma non gelide) e lieve siccità. Quindi anche durante la senescenza le antocianine contribuiscono alla schermatura dei cloroplasti fogliari dall’eccessiva luce solare (1); ma non solo, contribuiscono anche ad accrescere le capacità antiossidanti e la tolleranza alle basse temperature(2).

Ceriana (IM)

Ceriana (IM)

Però non tutte le foglie autunnali sono rosse, ed evidentemente la produzione di antocianine non è l’unico meccanismo di difesa. Piante diverse in condizioni ambientali differenti utilizzano altri meccanismi e altre molecole per rispondere alla rigidità della stagione. Può essere proprio questa varietà di comportamenti a creare tutte le sfumature di colore che rendono così affascinante il bosco d’autunno.

(1) Feild et al. (2001) Why Leaves Turn Red in Autumn. The Role of Anthocyanins in Senescing Leaves of Red-Osier Dogwood. Plant Physiology 127:566–574, https://doi.org/10.1104/pp.010063

(2)Zhang et al. (2019) Accumulation of Anthocyanins: An Adaptation Strategy of Mikania micrantha to Low Temperature in Winter Front Plant Sci10:1049. doi:10.3389/fpls.2019.01049

Sorbo torminale

Questo post è una rielaborazione di quello originariamente pubblicato sul mio vecchio blog il giorno 16 ottobre 2008, con il titolo Sorbo selvatico. Continuo a riprendere i post più anziani, un po’ per rinfrescarmi le idee, magari talvolta correggendo qualche inesattezza (ma gli errori gravi rimarranno tutti) e un po’ per averli più accessibili, su pagine giornaliere invece che mensili. Le foto originali sono più piccole, e anche aprendole non si ingrandiscono granchè; quella più recente si apre 800×600-

Sorbo torminale

Sorbus torminalis

 

L’autunno ci sovrasta, anche se la temperatura è ancora più che gradevole e la pioggia si fa ancora desiderare. Ma le foglie, già affaticate dall’arsura di questa estate, sono ormai sfrangiate e disperse. Ancora di più ai bordi delle strade, là dove le piante lottano ogni giorno per conquistarsi spazio e aria e fluidi vitali. Stropicciate e scolorite sono le foglie nella foto a sinistra, tanto che a stento le riconosco. Ma alla fine sì, è proprio lui, non un acero, ma una rosacea, del genere Sorbus, il sorbo torminale o sorbo selvatico, in contrapposizione al sorbo domestico.
Chiamato anche sorbo montano, o ciavardello, talvolta addirittura corbezzolo (anche se certo non in Liguria dove il corbezzoolo è il ben più celebre Arbutus unedo), quest’albero dal nome curioso si incontra nei boschetti di mezza montagna.

Sorbo torminale

L’esemplare della foto qui a destra cresceva  (ottobre 2002) proprio sulla sommità della Rocca dell’Adelasia, nell’entrotera di Savona, un bel punto panoramico da cui si contempla l’imponente e placida cerchia delle Alpi dominata dal Monviso. Tutt’intorno circondano la rocca splendidi boschi di castagni e faggi. Più fortunato del fratello cittadino, era carico dei piccoli frutti, oggi ignirati e negletti, ma in passato graditi e consumati per alimento e medicina, perchè ricchi di vitamine.
Sorbus torminalis è uno dei primi alberi che tinge il bosco di rosso. Appartiene al genere Sorbus, come il sorbo domestico (Sorbus domestica), il sorbo montano (Sorbus aria e 8 settembre 2008), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia, 2 agosto 2008) o l’esotico sorbo del Cashmire. Tutti questi alberi, assai comuni nei nostri boschi, si assomigliano non tanto per la forma delle foglie, che sono al contrario di fogge assai diverse, composte e sottili, lisce o dentellate, oppure ovali ed ampie, o profondamente lobate, come quelle del ciavardello; piuttosto sono simili nella caratteristica dei frutti, bacche che crescono a grappoli, commestibili, ma solo a maturazione avanzata, anche se certo non prelibate. Cibo per poveri e uccelli. Bacche medicinali. Le sorbe del ciavardello venivano impiegate per curare le coliche e la dissenteria, e dal latino tormìna, che significa colica, deriverebbe il nome scientifico della pianta.

Jaca, frutto esagerato

Jaca

Frutto di jaca – Ilhabela, stato di São Paulo, Brasile

La jaca,  Artocarpus heterophyllus, a volte chiamata giaca in italiano, è conosciuto come il più grande frutto commestibile che cresce su un albero.  L’albero, che può essere alto fino a 20 metri, è originario dell’India, del  Sud Himalaya o forse  Gati occidentali, la catena montuosa della penisola indiana, ma è diffuso in tutte le aree tropicali e ha trovato casa e fortuna anche in Brasile, sulla costa atlantica.
A causa della sue dimensioni, il frutto si sviluppa sui rami più grandi, talvolta persino sulle radici scoperte, ma soprattutto sul tronco; infatti i rami più esili non potrebbero sorreggerne il peso che può raggiungere qualche decina di chilogrammi. Per questo la pianta viene detta cauliflora che significa appunto che porta i fiori lungo il tronco.  E’ anche monoica, con fiori maschili, inseminatori, e femminili, che danno origine ai frutti, sulla stessa pianta.

La jaca, preferisco chiamarla così, con il suo nome portoghese con cui l’ho conosciuta, è un frutto dai molteplici usi e qualità. Il  sapore varia a seconda della maturazione, conservazione e cottura, ma è sempre gradevole.  Zuccherino come il fico (appartiene alla stessa famiglia, le moracee),  ha sapore di mela e ananas quando è  fresco, ma cambia sapore e diventa una pietanza se cucinato opportunamente. Se ne mangiano anche i semi, simili per gusto alle castagne. Facilmente deperibile, è meno apprezzato il suo odore che può talvolta in ambienti con scarso ricambio d’aria risultare nauseabondo.

Pastel de palmito de jaca

Vale do Capão – Chapada Diamantina

Una delle ricette più singolari a base di questo frutto gigante sono le frittelle di jaca (“pastel de palmito de jaca”), piatto tipico del Nord Est brasiliano, in particolare di quella zona dello stato di Bahia che si chiama Chapada Diamantina.  Si tratta di vere e proprie focaccette  fritte, ripiene delle ‘palma di jaca’, una parte appiccicosa che si trova dentro il frutto e potrebbe rappresentare uno scarto, cucinata come fosse carne di pollo.

Questo frutto ha anche utilizzi medicinali.   I frutti, ma anche la corteccia e le foglie di questa pianta sono utilizzati dalle  popolazioni del Vietnam, Tailandia e Laos per le proprieta galattagoghe, cioè perchè aumenta la secrezione di latte di donne e animali, mentre  il popolo Van Kieu, indigeni del Vietnam, la utilizza come antidoto alla depressione postparto, ma anche per i disturbi della lattazione, la febbre e i dolori addominali.

Il nome del genere,  Artocarpus, significa frutto pane e il genere comprende anche Artocarpus altilis, specie nota appunto come albero del pane, detto in sanscrito panasa, da cui il genovese panissa.

 

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