Ailanto

Ailanto

Ailanthus altissima

L’ailanto (Ailanthus altissima) viene dalla Cina ed è uno dei più esuberanti colonizzatore dei piccoli spazi verdi urbani e suburbani. Chiamato albero del Paradiso, forse perché sale così in alto, è anche noto come l’albero di Brooklin, dal fortunato romanzo di Betty Smith, che citavo in questa pagina.
Spunta e cresce ovunque con grande facilità, nei cortili, ai bordi delle strade di grande traffico, nelle zone poco curate, fra gli edifici abbandonati e fra le macerie. Si riproduce velocemente grazie ai rizomi che corrono sottoterra e ai semi che sono racchiusi in
samare alate. E’ considerata una pianta esotica invasiva, e quindi addirittura un pericolo per l’ambiente naturale.
Fu importato in Europa, certo contro la sua volontà, per ragioni economiche (lo si voleva impiegare per l’allevamento di un baco simile al filugello della seta, ma l’esperimento non ebbe fortuna) e la sua unica colpa è quella di avere successo nella lotta per l’esistenza. Da decenni ormai è un ricercato speciale, vituperato, odiato, insultato, braccato, sterminato, distrutto. Lo si accusa di impedire la crescita delle specie autoctone a causa dell’ampia ombra delle sue foglie; di avere un cattivo odore e di contenere sostanze irritanti. Ma successo continua ad averne davvero molto, perché nonostante la persecuzioni insistere a prosperare, sempre più rigoglioso. La sua crescita è veloce e inarrestabile, tanto che in brevissimo tempo sorgono boschetti di ailanti praticamente dappertutto.

Ailanto

Ailanthus altissima

Come albero non è per niente brutto. Ha un portamento snello e lunghissime foglie composte, morbide e affusolate. In questa stagione, sfoggia gruppi di frutti giallo rossicci (vedi foto a destra) che si muovono graziosamente alla brezza. Certo, a volte, preferirei vedere altri alberi al suo posto, un magico tiglio o un solido ippocastano. Ma quale di loro sopravviverebbe in uno spazio angusto, fra inferriate arrugginite e copertoni di camion, fra fumi di scappamenti e rifiuti speciali? Vedo soffrire i platani urbani, grigi di malattia; piegarsi persino i pittospori, neri di catrame.
Tutto sommato sto dalla parte dell’ailanto, della sua rozza bellezza e spavalderia, un albero che tutto può sopportare, rimanendo verde e continuando a fiorire e a riprodursi.

Questo post è riproposto dall’originale del 25 agosto 2008

Valeriana rossa

Valeriana rossa <em>Centranthus ruber</em>

Valeriana rossa a Apparizione

La valeriana rossa (vedi un mio vecchio post del 15 agosto 2008) è una delle grandi protagoniste delle fioriture urbane. Le basta un fosso, una breve scarpata, soltanto un muro, per attecchire con coraggio e far esplodere i suoi folti cespi rosa acceso o rosso porpora, fiorellini piccoli, ma numerosi e raggruppati in densi corimbi. La sua fioritura è lunghissima, dalla primavera all’autunno inoltrato e sono queste caratteristiche di tenacia e longevità a farne una presenza straordinaria nel verde dei palazzi di collina. Le sue foglie, verde carico, lucide, sembrano sempre giovani e fresche, anche in mezzo ai detriti. Mi ricorda quelle fanciulle delle favole, come Cenerentola, belle e pure e gioiose, nonostante le angherie e gli stenti a cui erano sottoposte. Bella nel fango e sempre nobile e liscia.

Santa Maria Assunta di Apparizione

Sulla scarpata affacciata sul mare della collina di Apparizione, proprio di fronte alla chiesa di Santa Maria Assunta (nella foto a destra)  e a pochi passi dal capolinea dell’autobus n.87, qualcuno ha scritto su una ringhiera un verso poetico e provocatorio.
“Scateniamo tempeste ma ci piace il sole”
La valeriana, forte come il vento e rossa come il fuoco, approva.

Bocche di leone della Malapaga

Antirrhinum majus

Antirrhinum majus

Le mura della Malapaga a Genova corrono da piazza Cavour alla magnifica porta del Molo progettata dall’architetto Galeazzo Alessi e conosciuta come Porta Siberia. I nomi raccontano storie. Il palazzo della Malapaga, dove le mura cominciavano, era una prigione dove venivano incarcerati coloro che non riuscivano a pagare i debiti, mentre il nome Siberia deriva da cibaria, in genovese pronunciato più o meno “sibaria”, perchè adiacente ai magazzini del grano. Per la generazione dei miei genitori, le Mura della Malapaga ricordavano inevitabilmente Jean Gabin e un celebre film italo francese che nel 1951 vinse l’oscar per migliore film straniero.
Portate dal vento negli anfratti della muraglia, fra le pietre e il cemento, le bocche di leone non hanno avuto bisogno di molto per germogliare e fiorire. Tanto sofisticate sono le variopinte corolle, concresciute a labbra per offrire accoglienza sensuale a devoti impollinatori, tanto modeste sono le pretese di questo fiore, che fra le macerie e la ghiaia trova l’ambiente naturale più congeniale. Selvaggio come l’ailanto che cresce alto e scarmigliato oltre la cancellata del porto, nomade per destino, invasivo per vocazione.

Mura della Malapaga

Mura della Malapaga

vedi anche per l’ailanto, 25 agosto 2008
per le bocche di leone, 26 settembre 2009