Datura vagabonda

Datura wrightii

Datura wrightii

La Datura wrightii , pianta immacolata e suggestiva, faceva capolino ogni anno in un angolo del mio giardino. Nata in vaso da semi recuperati in qualche orto botanico, ogni anno rispuntava immancabilmente con abbondanti fioriture. Perenne, forse, o più probabilmente annuale, negli ultimi tempi cresceva al margine di un’aiuola sopra la strada, con le grandi campane bianche che penzolavano coraggiosamente dal muraglione. Per molto tempo è tornata, ma poi è sparita, e da alcuni anni non si era più fatta viva.  Gli alberi, un grosso ginepro e due forsizie, erano cresciuti ancora e l’angolo che si era scelto forse era diventato troppo angusto ed oscuro. Perduta, pensavo, e progettavo di riseminarla. Finché ieri, quasi per caso, la scopro sul bordo della strada, ai margini di un piccolo terrapieno di cemento dove alcuni vicini parcheggiano le auto. Fierissima e in piena fioritura, cresce alla base di un palo di sostegno, incurante della vicinanza invadente delle invasive più comuni, la morella (Solanum chenopodioides) e l’inula (Dittrichia viscosa).

Morella & Inula

Solanum chenopodioides
Dittrichia viscosa

Datura wrightii, stramonio di Wright, viene dall’America e certamente è stata introdotta come pianta ornamentale. In inglese le piante del genere Datura vengono dette devil’s trumpets, tromba del diavolo, mentre il più angelico nome di angel’s trumpet (tromba dell’angelo) è riservato, chissà perché, a una pianta molto simile, la Brugmansia, che con Datura ha veramente molto in comune, compresa la forma dei fiori e la tossicità, ma ha fusti legnosi e aspetto arbustivo.

Questa pianta mi ha mostrato in modo semplice il significato della definizione ‘alloctona naturalizzata perché sfuggita alla coltivazione’ e questa volta devo ammettere che ho contribuito anch’io a diffondere una specie estranea alla nostra flora. Ora so che Datura wrightii è una pianta annuale e quindi ricrescerà, se ne avrà voglia, dai semi sparsi dai rigidi frutti, capsule con aculei sporgenti, vere spine quando si seccano. E magari, chissà, ne crescerà un gruppetto.

Datura wrightii

Datura wrightii

Il nome Datura deriva dal sanscrito e  significa appunto ‘mela spinosa’, come spiegato da Linneo (vedi questa pagina), con riferimento alla curiosa forma dei frutti  e come indica uno dei nomignoli inglesi di questa pianta, thornapple. La specie D. wrightii, dedicata al famoso esploratore botanico americano  Charles Wright, si distingue perché le antere sono visivamente più corte dello stilo (vedi foto ravvicinata), mentre dovrebbero essere della stessa lunghezza nella specie simile D.innoxia.

Leccio di campagna e leccio di città

Leccio

Quercus ilex

Sul bordo del bosco ho incontrato un germoglio di foglie nuove e verdi che riconosco come un piccolo leccio. Quercus ilex, la più comune delle querce sempreverdi mediterranee, viene ampiamente utilizzato e sfruttato nel verde metropolitano. Qui dove la città finisce, ai confini di quel verde suburbano che non è più prigioniero ma neppure completamente libero, nel versante settentrionale che al mare volta le spalle, i lecci non vengono dal bosco, ma dalla città. Grandi lecci di fronte ad ogni chiesa, a Bavari, punta di valico, di fronte alla chiesa di San Giorgio, un albero possente fa ombra a tutto il sagrato, così come a Montesignano, quartiere popolare per niente campestre.

Leccio Bavari

Quercus ilex
chiesa di San Giorgio di Bavari

Scendendo più giù, verso il centro della città, nei giardini pubblici di piazza Martinez di fronte alla chiesa di San Fruttuoso, sono sempre i lecci a bordare i marciapiedi, più piccoli e dimessi perché probabilmente sottoposti a incessanti quanto impietose potature. Altri viali di lecci ornano le periferie, fra palazzoni e centri commerciali.
Albero solido, a volte imponente, severo, resiliente, coriaceo come la sue foglie, il leccio non è mai bello. La sua scorza è ruvida, il suo verde è oscuro e le sue foglie cadute sono polverose e rigide. Non potrebbe essere altrimenti per sopportare il nostro clima mediterraneo, asciutto e intensamente soleggiato, e anche l’aria pesante e torrida della città.

Leccio piazza Martinez

Quercus ilex
piazza Martinez

Un’altra quercia mediterranea, la sughera, sa farsi prediligere e desiderare per la sua unicità, perché ha sviluppato uno strato di corteccia di eccezionale porosità e leggerezza che si presta agli usi più disparati. Invece il leccio, che cosa ha da dare? Null’altro che quell’ombra opaca che  dona sollievo dalla calura, ma non vera e propria frescura. Vero è che le sue piccole ghiande appuntite sono più appetibili di quelle delle altre querce. Dice il poeta Virgilio che prima dell’avvento dell’agricoltura (prima che ‘Cerere insegnasse ai mortali a rivoltar la terra con l’aratro’), la sacra selva forniva corbezzoli e ghiande, che certo venivano usate per farne farina, soprattutto le ghiande del leccio più dolci e meno astringenti. Si dice che nella Spagna quest’uso continuò fino a tempi relativamente recenti, ma i nostri antenati, si sa, avevano esigenze alimentari meno sofisticate e più schiette delle nostre.

Leccio Piazzale Bligny

Quercus ilex
Piazzale Bligny

Ora che i boschi costieri sono stati sterminati, il leccio sopravvive come inevitabile compagno di strada, torvo signore dei marciapiedi, aggrovigliato testimone delle lordure urbane.

Però come tutte le creature, anche quelle meno attraenti, i giovani virgulti, come i cuccioli, sono teneri e nobili. Il loro verde è brillante e luminoso, la loro scorza più morbida. Chissà se questo piccolo germoglio cresciuto fra essenze diverse, allori, carpini, robinie e pioppi, diventerà mai un albero. Ad arricchire e impreziosire un bosco che potrebbe tornare alle sue origini più genuine.

leccio ghiande

Quecus ilex
ghiande (10 novembre 2008)

Leccio fiori

Quercus ilex
fiori (28 aprile 2010)

 

Dell’olivo e l’orniello

Gennaio . l'olivo e l'orniello

Olea europea-
Fraxinus ornus

E’ nuovamente gennaio e, fra incertezze e speranza, comincia un nuovo anno, almeno così si usa dire. Oggi è una giornata grigia e nebbiosa, nonostante l’alta pressione. Con un fenomeno bizzarro, e vagamente inquietante, l’anticiclone subtropicale riscalda l’aria in quota, ma l’aria fredda, più pesante, si accumula nel fondovalle immerso nell’umidità nebbiosa.

roverella

Quercus pubescens

Limpido e terso invece era il cielo nei primi giorni di gennaio del 2015,  quando ho scattato questa fotografia, durante una breve passeggiata lungo il percorso dell’acquedotto storico genovese. Spogli sono gli ornielli e le roverelle, mentre brillano argentate al sole le foglie degli olivi sempreverdi. La ricchezza del paesaggio mediterraneo è anche questo, la coesistenza serena di essenze così diverse, quelle che si difendono dal freddo liberandosi delle foglie e quelle che scommettono nell’inverno mite e le foglie se le tengono strette.
Diversi anni fa avevo creato una piccola animazione(che si può vedere cliccando sull’immagine qui sotto), che mostra come un albero, un carpino bianco che si trovava in un giardino sotto casa mia, muta nel corso di un anno, da verde a giallo e poi spoglio e poi di nuovo verde.

Carpinus betulus
viale Bernabò Brea

Quando mostrai il mio piccolo lavoro alla mia amica Cheryl, che abita in Suriname, la cosiddetta Guyana olandese, poco a Nord dell’equatore, lei si mostrò molto perplessa. Dalle sue parti non esistono alberi che perdono le foglie d’inverno, forse perché da quelle parti non esiste l’inverno. Ma i suoi dubbi non riguardavano il fatto che gli alberi perdessero le foglie.  Mi disse invece che le mie immagini erano certamente ritoccate, perché si vedevano altri alberi che non cambiavano aspetto per niente.  Evidentemente lei era convinta che alle nostre latitudini tutti gli alberi perdano le foglie, o meglio che non è possibile che esistano nelle stesso giardino alberi spoglianti e alberi sempreverdi. Le ho spiegato naturalmente come stanno le cose, ma non sono veramente sicura di averla convinta, cioè di aver fugato ogni suo dubbio sul fatto che io avessi creato le immagini della sequenza in qualche modo fittizio. La serena coesistenza di piante dalle esigenze così diverse non pare così scontata neppure a me e mi sembra quasi un indizio di una precisa vulnerabilità del nostro ambiente naturale, dopo convive chi ha bisogno del freddo invernale e chi un po’ lo teme. Così gli inverni molto rigidi rappresentano una seria minaccia per gli olivi e gli agrumi, ma gli inverni troppo miti, queste temperature primaverili anche in gennaio, complicano la vita agli alberi dei boschi decidui. Comunque vada, sembra inevitabile che a lungo andare le bizzarrie del clima modifichino in modo irreversibile il verde che circonda.

Storie di piante non illustri

Piante non illustri

Verbena officinalis

Da settimane la vedo lungo la mia passeggiata del mattino, eretta e sottile sul bordo della strada, con i suoi microscopici fiori quasi invisibili. Pianta nobilissima nei tempi antichi, celebrata per le virtù afrodisiache, protagonista di decotti e pozioni essenziali, erba magica e sacra, oggi la verbena cresce soprattutto in zone antropizzate e vive praticamente sconosciuta. Non è veramente commestibile, perché ha solo piccole foglie amare, ma incontrarla è un’emozione, perché la sua semplicità evoca rispetto. Le sue forme sono così esili e sfuggenti che fotografarla è difficile  (vedi anche 11 agosto 2009). A dispetto dell’apparenza, è una pianta robusta e molto tenace. I vivai vendono vasi variopinti delle sue sorelle ornamentali, ma è solo lei, la piccola verbena selvatica, la responsabile della fama millenaria.

Piante non illustri

Silene alba

Poco lontano, in mezzo all’erba lucida di pioggia, i fiori bianchi della silene, sbrindellati, ma ancora saldi, sbocciano incuranti di essere fuori stagione. Più tardiva, ma molto simile alla silene rigonfia (Silene vulgaris), anche questa pianta ha calici a forma di piccoli otri, che si sgonfiano con un piccolo fischio.  Erba commestibile ed ingrediente frequente delle zuppe tradizionali, no, non è un’erba illustre, decisamente popolare direi.

Piante non illustri

Diplotaxis tenuifolia
Malva sylvestris

Intanto la rucola selvatica e le malve del prato non sembrano avvilirsi nel fresco di novembre, nel parco urbano dell’Appia Antica (Roma). Piante non illustri, ma preziose, più  verdi del verde, si godono l’aria ricca di umidità. La rughetta selvatica (Diplotaxis tenuifolia) è una specie perenne e comune quasi dappertutto, fresca e piccante, saporitissima se piace, da consumare cruda per chi ama le insalate aromatiche. I suoi sgargianti fiorellini gialli rallegrano il pallido sole. Non ha bisogno di presentazioni la malva, commestibile in insalate e zuppe, le cui foglie e fiori hanno innumerevoli utilizzi medicinali.

Viene da lontano la galinsoga, nativa delle zone montagnose del centro America e deve il suo nome al medico botanico spagnolo del 18° secolo Martinez de Galinsoga. E’ una margheritina poco appariscente, ormai naturalizzata quasi in ogni regione d’Italia e spesso disprezzata come infestante.

Piante non illustri

Galinsoga parviflora

Di erbaccia fastidiosa, in campagna e città, ha davvero tutte le caratteristiche, produce moltissimi semi, sempre pronti a germogliare nelle circostanze più varie, si riproduce facilmente anche per propagazione vegetativa, e poi cresce velocemente, fiorisce sempre e per diverse stagioni(1).
Ma non è vero che non serva a niente, e se raramente si trova nei manuali di fitoterapia, è perché è poco conosciuta, e snobbata, nel vecchio continente. Nei suoi luoghi di origine e habitat più congeniali, cioè le zone tropicali, viene impiegata come pianta medicinale per vari malanni, oltre che come cicatrizzante sulle ferite. Infatti contiene principi attivi che le conferiscono proprietà antibatteriche,antimicotiche, antiossidanti, antinfiammatorie e vermifughe (2). Non è tossica, anzi è un’erba alimentare sia per gli animali che per le persone. In città si trova soprattutto nei giardinetti, in qualche piccola aiuola rugiadosa, ma per le insalate la preferirei campestre.

Piante non illustri, ma ricche di storia, che per caso incrociano il mio cammino in un giorno di fine autunno.

(1) Damalas CA (2008) Distribution, biology, and agricultural importance of Galinsoga parviflora (Asteraceae)-  Weed Biology and Management 8:147-153.
(2) Ali S et al. (2017) Ethnobotanical, phytochemical and pharmacological properties of Galinsoga parviflora (Asteraceae) – Tropical Journal of Pharmaceutical Research 16:3023-3033.

Ancora Chaenomeles

Chaenomeles

Chaenomeles, via Struppa 250

Nel quartiere di Struppa, in una qualsiasi mattina di fine inverno, un po’ più grigia e lenta del solito, le persone si tengono a distanza, ma esplodono (c’è chi li chiama fuochi di artificio) le nuvole rosse dei cotogni da fiore. Ne scopro uno all’ingresso di un cortile, un parcheggio con basse costruzioni coperte di timidi murales colorati, dove forse in tempi migliori si svolgevano feste di quartiere. Siamo quasi a Prato, l’estremità più interna della val Bisagno genovese e nel vicino campo da tennis qualcuno si sta esercitando (il tennis è uno sport quasi individuale). Il cielo è irregolarmente nuvoloso, ma il sole dolcemente caldo. Sono cespugli quasi anonimi, tranne per la loro breve stagione di fioritura; ma molti si riscattano producendo anche frutti profumati, simili a mele cotogne, commestibili soltanto dopo la cottura (proprio come le mele cotogne). Sono uno degli altri appuntamenti che la primavera riserva, anche in città, e davvero bisogna stare attenti a non lasciarselo sfuggire.

Vedi anche :
Primavera in gabbia
Cotogno da fiore

Quando fiorisce la mimosa

 

Mimosa in val Bisagno

Acacia dealbata
val Bisagno

Non è certo una pianta originale, ma passa inosservata per la maggior parte dell’anno, finchè, fra gennaio e marzo, le sue nuvole gialle esplodono ad ogni angolo di strada. Febbraio è sempre stata la sua stagione. Qui sul bordo del Mediterraneo, molto prima di primavera, appar dovunque la mimosa effimera(1).

Ci sorprende quanto ne abbiamo bisogno, proprio adesso, di questo colore caldo, spesso, dolciastro. In quest’inverno fradicio e nebbioso, sono sempre i fiori a salvarci.

Mimosa in via San Vincenzo

Acacia dealbata
via San Vincenzo

Si incontra dappertutto, nella crosa che corre alta sulla val Bisagno, sopra il cimitero di Staglieno, come nel campo Rom della val Polcevera, e poi di fronte all’arco di ingresso di una corte nella centrale via San Vincenzo. Pronto a sbocciare perfino un gracile alberello,  alloggiato in una giara di coccio, sul retro di un palazzo di edilizia popolare. Effimera, ma resiliente, già poco dopo Natale, i rami verdolini cominciavano ad impallidire verso il paglierino. Sopporta grandine e vento, talvolta anche la neve, e il suo colore brilla.

Mimosa

Acacia dealbata

Spesso viene accusata di essere arrivata troppo presto, di essere, con la sua fioritura anticipata, uno scherzo del clima impazzito. Ma a torto, perchè non è vero. Da gennaio fiorirà fino a marzo per poi andarsene, in sordina, tornarsene in un anonimo letargo per dieci lunghi mesi. Oggi è il suo tempo e il suo colore è oro.

(1)Vincenzo Cardarelli ‘Liguria

Bagolari

Li conosciamo come grandi alberi dal fusto diritto e la corteccia liscia, così come appaiono in filari maestosi sulle mura di Lucca (7 settembre 2009) e infinite volte fotografati, rigogliosi o barbaramente mutilati, verdi e folti o colorati d’autunno, anche loro abitanti della città in tutte le stagioni.

Celtis australis

Celtis australis a villa Croce

Un piccolo virgulto è cresciuto vicino alla grata di una cantina, nella nobile villa Croce, che fu donata, con l’annesso giardino, da Andrea Croce nel 1951 alla città di Genova perchè ospitasse un museo, oggi il museo di arte contemporanea. Il piccolo rametto si allunga, illudendosi forse di raggiungere i giganti che lo sovrastano, il maestoso canforo e gli aerei pini domestici. O forse non si illude affatto, esiste e basta, piccolo o grande che sia. Senza presunzione e aspettative, per lui la vita è semplicemente esserci, respirare, o meglio convertire nel sole anidride carbonica in ossigeno.

Celtis australis

Celtis australis sul greto del Bisagno

Celtis australis

Celtis australis sul greto del Bisagno

Il bagolaro è  specie frugale e pioniera, che ha meritato addirittura il nome di spaccasassi, e non serve spiegare perchè. Più divertente è pensare che Linneo lo chiamò australis e non perchè provenga all’altro emisfero, ma soltanto perchè abitava le regioni del sud. Il nome comune invece deriva dalle sue bacche, piccole drupe gialline che virano al nero.
Eccole quasi mature su questo esemplare che cresce  nel greto del torrente Bisagno, già appetibili per gli uccellini di passaggio. Il greto è ancora piuttosto asciutto, anche se la minaccia delle sue piene già incombe, e l’albero allunga nel sole le sue lucide, libere fronde. Finalmente un bagolaro felice.

 

Il Bisagno, prima della pioggia

In attesa delle rovinose piene che sempre contraddistinguono la stagione autunnale e non solo, il greto del Bisagno viene sistematicamente ripulito non solo di carcasse e rifiuti della civiltà, ma anche di ciò che vi cresce, libero e spontaneo, un po’ troppo esuberante. Senza acqua diventa una strada grigia, ma velocemente ripopolata dalle frasche. Con il passare degli anni però, e gli studiosi di erbe pioniere potranno spiegarci perchè, le varietà di piante che crescono e prosperano nella ghiaia appena inumidita sono sempre meno diversificate.

All’inizio dell’autunno, l’inula, Dittrichia viscosa, la fa da padrona e colora di giallo intenso ogni angolo, arrivando anche a oscurare il morbido violetto della Buddleja. Ci sono altri fiori nascosti nel fogliame disordinato, saponaria (vedi 1 agosto 2009) certamente, e qualche malcapitata bella di notte (Mirabilis jalapa, vedi 18 settembre 2009), sfuggita da qualche giardino.

Xanthium strumarium

Xanthium strumarium

Ha larghe foglie palmate la nappola minore (Xanthium strumarium), cosidetta perchè i suoi frutti spinosi sono di dimensioni più piccole di quelli di Xanthium italicum, nappola italiana. E’ una pianta ruderale, pioniera, di nessuna utilità, nè avvenenza. Solo una bella macchia di verde sul grigiore polveroso del pietrisco. (Ma in Sardegna, nel distretto di Sarrubus, una specie affine, Xanthium spinosum, veniva impiegata dalla medicina tradizionale per curare la diarrea).

Persicaria maculosa

Persicaria maculosa

Poco più in là è fiorita la persicaria (Persicaria maculosa, vedi 13 agosto 2009), con le sue spighe rosa. Lei infestante irriducibile, abitatrice dei bassifondi, parente povera e sfrontata di specie nobili come la bistorta (Bistorta officinalis) e appetitose come il grano saraceno (Fagopyrum esculentum).

L’altra strada di casa

La strada da casa a Genova Prato è una ripida discesa di qualche chilometro su un dislivello di circa 200 metri. Cammino sulla via asfaltata, dedicata a San Colombano, il leggendario vescovo paleocristiano di Bobbio.

altra strada di casa Allium ampeloprasum

Allium ampeloprasum  ( A. polyanthum)

Sul ciglio della carreggiata è fiorito un porraccio (Allium ampeloprasum(1)). Le sue ingombranti teste rosate dondolano al vento, mentre cimici nere e gialle lo pascolano instancabili. Il porraccio è pianta commestibile, come tutto il genere Allium, si può raccogliere tutto l’anno, tranne che d’estate e se ne consuma la pianta intera sia cruda in insalata che cotta. Sconsiglio gli esemplari che crescono troppo vicini agli scappamenti delle auto.

Jasminum officinale

Jasminum officinale

Dall’altra parte della strada, nel canneto di Arundo donax, spunta un gelsomino, uno di quelli veri (Jasminum officinalis, 18 maggio 2009). Ormai sono rari, quasi preziosi, soppiantati dal sosia asiatico, Trachelospermum jasminoides, a foglia coriacea sempreverde, con la sua prorompente e inebriante fioritura (vedi 13 giugno 2009). Il gelsomino, quello vero, mi ricorda l’infanzia, quando cresceva rigoglioso lungo una scaletta di campagna, delicato, con una fioritura meno aggressiva e un profumo gentile. Che nostalgia.

Viburnum odoratissimum

Nei pressi della chiesa di San Pietro di Fontanegli, nel giardino dove d’estate si radunano i soci SOMS per raviolate e tombole, scopro un arbusto che non avevo mai notato e mi sorprende per le foglie robuste e lucide, ancora inumidite dal violento acquazzone di questa notte. E’ un viburno (Viburnum odoratissimum), ma ormai è tardi per verificare se il suo attributo specifico sia ben meritato. I fiori, forse odorosissimi, sono ormai sfioriti per lasciar posto a grappoli di bacche, verdi, poi rosse, e infine nere.
Questa volta nella discesa evito la parte più scoscesa della creuza, via alla Chiesa di Fontanegli, che dopo la pioggia è insidiosamente scivolosa. Scelgo la strada lunga, via Giovanni da Verrazzano, esploratore del 15° secolo.

Centaurea calcitrapa

Di fronte alla scuola materna, nei pressi della villa Ferretto, cresce in mezzo alle cancellate arrugunite una pianta spinosissima, coperta di rustici fiori. E’ la calcatreppola stellata, ovvero Centaurea calcitrapa, un fiordaliso molto spinoso, il cui nome significa qualche cosa come ‘trappola per il calcagno’, perchè le lunghe spine del capolino possono ferire le zampe o i piedi di chi la calpesta.

Da queste parti, al confine fra città e campagna, ogni fazzoletto di terra può diventare un orto casalingo. Proprio sull’orlo della strada, fra un nespolo del Giappone e un campetto di ortaggi, un buffo spaventapasseri difende il raccolto; ma forse è stato costruito più per divertire i bambini più che per scacciare gli uccelli.

Solanum tuberosum

Bisagno

 

Lungo la discesa più ripida, che avevo già mostrato in un post di tanti anni fa, accanto a costruzioni anonime, con curati e freddi giardini all’inglese, ecco una casupola con l’aria familiare di cascina, e davanti un rigoglioso campo di patate. Il cane avvisa la padrona che, come al solito, si informa preoccupata di perchè stia fotografando la sua casa.
“Perchè sa, di questi tempi, se ne sentono tante. ..”
No, non so. Ma penso sia tutta colpa della D90, un cellulare avrebbe dato meno nell’occhio.

Ed eccomi a fondo valle, dove scorre il torrente Bisagno, ingrossato dalle piogge, ma sempre molto molto diverso da un vero fiume. Sulle sponde, dragate e pulite alla bell’e meglio, crescono salici e pioppi e fiorisce lo sparzio.

E io sono arrivata in città.

(1)Secondo altri autori, questa specie sarebbe Allium polyanthum, mentre il vero Allium ampeloprasum sarebbe presente in Italia solo in Emilia Romagna e Lombardia come alloctona casuale o naturalizzata. Le due specie sono molto simili e l’attribuzione è controversav. Vedi scheda IPFI di actaplantarum.

I papaveri di palazzo Molinari

palazzo Molinari

palazzo Molinari di salita Mermi

Lungo la via Mogadiscio, poco sopra la scuola elementare Andersen, si incontra questo bel palazzo di nobile impianto, la villa Odetti, costruita nel 17° secolo, affiancato da un’imponente torre a pianta quadrata, la torre Molinari, che è invece di origini ottocentesche. L’intero complesso, noto come palazzo Molinari, è ristrutturato e mantenuto con cura. Sull’angolo dell’edificio, una piccola strada taglia la via principale e si inerpica per qualche decina di metri oltre al tornante. La targa ci dice che si chiama salita Mermi. Questa antica mulattiera fa parte di un tracciato molto antico che conduceva dal ponte Carrega sul Bisagno fino a Sant’Eusebio, località collinare dove si trova un’antica chiesa. Di Mermi già si parla in un editto del 1142, ove si chiedeva alla gente di Terpi, Mermi e Lugo (così si chiamava allora Sant’Eusebio) di contribuire a turno personale per la guardia del castelluccio di Molassana, costruito nel 935(1).  Il toponimo deriverebbe, secondo testimonianze medioevali, dal latino ‘Insula melmi’ (da melma, fango). E davvero la zona doveva essere paludosa, come testimonia la storia travagliata della chiesa di Mermi abbandonata, dopo vari tentativi di restauro e non senza litigi con le borgate vicine, perchè sempre soggetta a frane e smottamenti a causa dei numerosi corsi d’acqua.

Papaveri di palazzo Molinari

Papaveri di palazzo Molinari

Fra il palazzo e la torre, alle spalle di un piccolo posteggio, mi viene incontro un breve pendio erboso cosparso di papaveri scarlatti. Il colore inconfondibile, le dimensioni, le macchie scure alla base dei petali, i verdi frutti a capsula, questa volta sono proprio loro, i rosolacci, Papaver rhoes.

Papaveri

Papaver rhoeas
sullo sfondo Carduus pycnocephalus

Talvolta, sui bordi della strada, si incontrano gruppetti di papaveri aranciati, più piccoli e scarmigliati, con frutti a forma di piccole clave; si tratta di una specie diversa, dal nome che è un’onesta dichiarazione di incertezza Papaver dubium.

Un po’ tutti i papaveri si portano dietro la loro dose di mistero. I botanici li classificano come specie ‘criptogeniche’, cioè specie di cui si ignora la provenienza e la causa della comparsa. Come dire, da dove e come sono arrivati i papaveri a Sant’Eusebio, e peraltro in tutta la Liguria, non si sa. Ma arrivano, e, nel cuore della primavera, sbocciano, sgargianti ed effimeri, pronti a farsi stracciare dal vento. Tanto è fragile il fiore, tanto è robusto e indomito il frutto, con il suo succo stregato. Il rosolaccio non contiene l’oppio del Papaver somniferum, che ne ha fatto strumento di potere e dolore, ma più innocui alcaloidi blandamente sedativi e narcotici, che lo rendono ingrediente importante della medicina popolare.

(1) Queste informazioni si leggono su una targa nei pressi della torre, a cura degli scolari della classe III della limitrofa scuola elementare Andersen, durante l’anno scolastico 2000-2001. Questa targa era ancora leggibile nel 2013 quando l’ho fotografata per ricordarla, anche se non so quanto tempo ancora resisterà alle ingiurie del tempo, prima di scomparire per sempre, come è accaduto alla targa che a Bavari descriveva le ville di Fontanegli. Ora quei ragazzini saranno adulti, e chissà se si ricordano ancora di quelle storie che hanno contribuito a tramandare.