Senecio galpinii

Senecio galpinii

Senecio galpinii

 

I fiori di questa stagione non abbondano, anche se non sono così rari come si vorrebbe pensare. A volte però occorre cercare qualche pianticella singolare, di origine oscura, per allietare di colore una stagione che l’iconografia tradizionale vuole soprattutto bianca.

Questa pianta non è una crassulacea, anche se potrebbe davvero sembrarla, con fiori di forma e colore somiglianti a quelli della stupenda Crassula falcata.  Ma quando i fiori appassiscono, la pianta si fa riconoscere. I fiori diventano ciuffi quasi sferici di peli bianchi, i pappi dei semi, così simili alla testa di un anziano, aspetto questo che caratterizza tutte le specie del genere Senecio (dal latino sénex vecchio).  Notevole è il contrasto fra il grigio azzurro delle foglie carnosette e la tinta accesa dei fiori.

Per trovare dei fiori in questa stagione bisogna andare a cercarli lontano. Non so con certezza di dove sia originario questo senecio,  ma è abbastanza simile al S. cephalophorus, che è originario del Sudafrica, precisamente della provincia del Capo, come mi informa il forum Cactofili, che credo fonte abbastanza affidabile.  Non saprei neppure definire bene la differenza fra i due,  S. cephalophorus e S. galpinii, anche se dalle immagini  il secondo mi pare più somigliante.  Entrambe le piante sono talvolta classificate nel genere Kleinia, nome dedicato al prussiano Jacob Theodor Klein (Plinius Gedanensium, 1685-1759) che fu giurista, storico, zoologo, botanico, matematico e diplomatico, e ammirato da Linneo.

Assenzio, un’artemisia come tante

Assenzio

Artemisia absinthium

L’assenzio selvatico (Artemisia absinthium) è una pianta dalle innumerevoli virtù officinali. Anche se il nome richiama soprattutto quello del liquore, stupefacente bevanda, la fata verde dei poeti maledetti, l’assenzio è prima di tutto una pianta medicamentosa. Il nome dialettale in genovese è mêgo, che significa medico, oppure magiô, cioè mago, guaritore. Non c’è nulla che l’assenzio non curi, dai calcoli biliari alle contusioni, dai vermi ai reumatismi, l’inappetenza e la stitichezza, l’ipertensione e la febbre. Naturalmente occorre sapere come e quanto utilizzarne. Per l’ipertensione un infuso di foglie molto diluito o decotto di foglie e fiori, per contrastare il senso di vomito decotto per 5 minuti nella dose di un bicchiere al mattino e uno la sera, contro le febbri malariche, occorre un decotto nel vino, da assumere filtrato. Perchè l’assenzio contiene tujone, sostanza tossica, ad azione epilettogenica, che per uso prolungato provoca degenerazione irreversibile delle cellule cerebrali. Dottor Jeckill e mister Hyde, il medico guaritore si trasforma in avvelenatore. Ma questo, che piaccia o no, è principio basilare di tutta la fitoterapia, e anche della farmacologia intera.

Artemisia verlotiorum

Artemisia verlotiorum

L’assenzio non è che una delle tante artemisie che popolano i prati. La più comune è Artemisia vulgaris, usata per alleviare i dolori del parto, ma anche come abortivo. L’artemisia comune è simile come una goccia d’acqua a un’altra artemisia, esotica invasiva, Artemisia verlotiorum, nome che gli assegnò il botanico Lamotte per ricordare i due fratelli Verlot, botanici di Grenoble, che l’avevano studiata. Questo tipo di artemisia si è prepotentemente insediata nei campi e ai margini delle strade dove prima cresceva la A.vulgaris,ma nel mese di agosto si può facilmente distinguere perchè non porta ancora i fiori, che sono già abbondanti sulla A.vulgaris. Le foglie delle due specie sono leggermente diverse e la neofita è meno aromatica. Essendo una delle ultime arrivate, non se ne conoscono utilizzi curativi, ma soltanto come arotimatizzante di liquori.

Delle varie artemisie ho già parlato in precedenza, 27 luglio 2008
Artemisia campestris
Artemisia canforata

Tussilago, tussilagine o farfara piede d’asino

Tussilago farfara

Tussilago farfara

Il nome, Tussilago, volgarmente tussilagine, è già un programma. Si capisce subito che si tratta di un’altra erba della tossa, quelle piante che la medicina tradizionale, ma anche la moderna fitoterapia, impiegano per le affezioni respiratorie. Questa pianta presenta una particolarità, che tuttavia non è così straordinaria. I fiori, bei capolini gialli all’apice di fusti squamosi, sbocciano all’inizio della primavera e precedono le foglie di parecchie settimane. Forse a ragione di questo bizzarro comportamento, i fiori mi erano sempre sfuggiti e facilmente confondevo le grandi foglie a forma di cuore, lanuginose sulla pagina inferiore, con quelle di altre asteracee, del genere Petasites. La tussilagine è pianta in realtà assai comune, e molto conosciuta, anche con l’antico nomignolo “filius antepatrem”, dovuto appunto all’apparizione tardiva delle foglie, oppure con nomi dialettali che significano piede d’asino, a causa della forma degli steli. Il suo comportamento non è, dicevo, poi tanto straordinario, esistono molte altre piante che fioriscono prima di mettere le foglie, per esempio moltissimi alberi, tutti i pruni da frutto, mandorlo, ciliegio, albicocco, pesco e via dicendo, e alberi grandi come i noci e noccioli, ma anche arbusti come la ginestra maggiore (Spartium junceum, 27 maggio 2008).  Anche se le foglie sono in ritardo, le virtù officinali della pianta si ritrovano già nei capolini, da cogliere quando ancora semichiusi perchè se maturano in soffioni, come può accadere anche durante l’essiccamento, perdono le sostanze terapeutiche. Come spiega con precisione Bruna Bianca Accame (in ‘Piante di casa nostra’, De Ferrari  editore, 2001), per l’uso officinale i fiori vanno sempre raccolti ancora in boccio. Sia i fiori che le foglie hanno altri molteplici utilizzi nella medicina popolare, dalla cura della distorsioni a quella della crosta lattea, fino ad applicazioni cosmetiche per prevenire le rughe.

La tussillagine cresce rigogliosa su suoli argillosi ed è per questo considerata infestante dei coltivi. Ma essendo una pianta perenne, questa sua caratteristica può anche essere utilizzata per creare coperture dove non cresce quasi nulla, o dove si vuole evitare la crescita selvaggia di altre erbe infestanti. Con il vantaggio che all’inizio della primavera il tappeto si coprirà di capolini gialli. La fioritura è molto precoce. Nella foto di questa pagina l’ho incontrata nei primi giorni di aprile in provincia di Alessandria, nel comune di Costa Vescovato, presso la cooperativa agricola Valli Unite.

Santolina

Santolina chamaecyparissus

Santolina chamaecyparissus

La santolina è un arrivo recente in giardino. E’ una pianta mediterranea, asciutta, argentea, profumata. Le foglie sono sottili e frastagliate, o meglio laciniate, i giovani steli coperti di peluria grigia. Il suo nome specifico, chamaecyparissus, significa ‘simile a un cipresso nano’, da cui il nome comune di santolina o crespolina cipressina. Ha un odore discreto,intenso, ma meno penetrante dell’elicriso (Helicrisum italicum, 5 giugno 2008) che le cresce vicino. E’ pianta officinale, probabilmente tossica, ora soprattutto essenza decorativa da giardino, dove dà il meglio nella primavera inoltrata e prima estate quando si adorna di capolini giallo brillante, tondi gruppi di fiori tubulosi.

Santolina ligustica

Santolina ligustica


Una sua parente un po’ speciale, Santolina ligustica Arrigoni, di cui già avevo scritto (vedi crespolina ligure, 3 giugno 2009 ) cresce solo in una piccola area dell’entroterra della Liguria di levante, fra Deiva Marina e Monterosso al mare. Ma non diciamolo troppo in giro, le specie tipiche di un areale così ridotto sono sempre a rischio di sparire. Questa fotografia è del giugno 2005, speriamo di ritrovarla ancora.

Radicchio

Radicchio Hyoseris radiata

Radicchio
Hyoseris radiata

 

Ecco un’altra pianta alimurgica, usata nella zuppa lucchese di magro e certamente anche nel preboggion ligure. Riprendo per lei un post antico del mio vecchio blog (11 marzo 2010), a cui voglio dare una nuova visibilità.

Siamo nella stagione della raccolta delle erbette di campo, per chi ha tempo e fantasia per dedicarsi a questa occupazione e ai suoi sapori. Con il nome di radicchio sono conosciute erbe anche parecchio differenti fra loro, composite dai bei fiori colorati, non necessariamente gialli, come per esempio Cichoria intybus che il fiore ce l’ha azzurro. E’ sempre naturalmente il nome scientifico che fa testo, mentre i fiori non contano perché per lo più quando la pianta è fiorita le foglie non sono più buone a nulla.  Nel caso di questa pianticella, le foglie sono inconfondibili, stracciate in segmenti a dente, che tendono a sovrapporsi. Per il resto è un’altra margherita gialla, la corolla luminosa, solare, singola sullo stelo come il tarassaco, ma più esile di quello.

Reichardia grattalingua

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Lattughino, insalatina di monte, grattalingua, caccialepre, caccialebbra, latticino, terracrepoli, latticrepolo, paparrastello, più un centinaio di nomi dialettali, è una delle erbette spontanee più ricercate per l’impiego alimentare. Regina del prebogiòn, la mescolanza di erbe selvatiche commestibili usata in Liguria per minestre e ripieni, ingrediente del mazzo delle erbe spontanee della zuppa lucchese di magro, consumata fresca, ma più frequentemente lessa, è apprezzata per il sapore particolare di ‘olive nere’. Ha inoltre proprietà officinali, depurative e lassative.

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Eppure ne ho cercato inutilmente informazioni e notizie su testi commerciali per il riconoscimento delle piante che, forse perchè il suo aspetto è così ordinario, frequentemente la ignorano. I testi più competenti, invece, ricordano che di questo genere esistono in Italia due specie, la R.picroides, pianta perenne, comune e diffusa quasi ovunque nella penisola, e la R.tingitana, grattalingua marocchina, endemica delle isole pelagie di Linosa e Lampedusa, oltre a una varietà intermedia, annuale e apparentemente davvero simile a quella più comune. Come pianta alimentare, stranamente, persinoPrimo Boni nel suo “Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche” non la menziona. Credo che sia una svista, invece nei testi di etnobotanica locale ha inevitabilmente un posto di rilievo. E se lo merita. Qui a destra, alla mostra di erbe commestibili dell’Accademia della Zuppa Lucchese di magro, Mura infiore, Lucca marzo 2015

Cardo saettone

Carduus pycnocephalus

Carduus pycnocephalus

Lungo tutte le  strade, locali,  provinciali,  statali e autostrade,  c’è una terra di nessuno, un ciglio, un bordo, una spalliera da nulla dove sbocciano in primavera moltissimi fiori.  Liberi e spavaldi,  incuranti del traffico e delle miriadi di automobili, che, affannate e distratte, sfrecciano loro accanto.  E a me piace l’idea di scendere dal mio cavallo di latta,  e percorrere un poco quella strada inesistente per guardare i fiori.

Ecco un cardo proprio comune, bello e inavvicinabile.  Lungo fino a 80 cm, esile, cresce dovunque in questa stagione, sui ciglii e negli incolti, punteggiandoli del rosa violaceo dei suoi densi capolini.   Il cardo saettone è un fiore che non teme nulla, armato come è di difese, lucide, acuminate, spine che lo attraversano, orlano i suoi steli sottili, sormontano le foglie lanuginose. Non credo che nessuno, a mani nude, potrebbe mai pensare di coglierlo. Eppure anche questa pianta è nell’elenco delle foglie commestibili, medicinali, da foraggio, nei tempi quando la spazzatura era l’ultimo dei problemi della famiglia, perchè davvero non si buttava via nulla.

Il termine cardo, dal latino carduus,  è probabilmente derivato dal greco κάρδος cárdos, essere duro o forseἄρδις árdis pungiglione, punta dello strale.  Quando l’involucro secco, così irto di adunchi pungenti, diventava un attrezzo  utile per districare la lana, nacque il verbo cardare.

Col nome comune di cardo si indicano moltissimi generi pungenti di disparate famiglie botaniche.  Alle asteracee appartiene  Carduus, ma anche Cirsus, Echinops,  Carlina, Galactites (30 aprile 2010),  Scolymus (1 luglio 2009) e molti altri ancora. Invece il più importante cardo dei lanaioli  (Dipsacus fullonum, vedi 30 luglio 2009),  è della famiglia delle Dipsacaceae (oggi peraltro confluita nelle Caprifoliaceae) e vi sono cardi perfino fra le ombrellifere (Apiaceae)  come la calcatreppola (Eryngium campestre – 12 settembre 2009). Come dire, di cattivi soggetti il mondo è veramente pieno.

 

Cosmea per sempre

Cosmos bipinnatus

Cosmos bipinnatus

La cosmea o astro del Messico, da dove proviene, è una magnifica margherita annuale, sempre generosa, sempre a suo agio. I semi me li ha regalati la mia amica Irena, che la fa crescere d’estate nel suo giardino in Polonia, ma la pianta l’vevo già incontrata qui, nei giardini della Venaria Reale. Come molte altre piante, ha sofferto della calura esagerata dell’estate. Ma adesso, d’autunno, si è rifatta il look, spuntando tutt’intorno a dove l’avevo inizialmente seminata e conquistandosi una posizione di tutto rispetto. Gilles Clement, il grande architetto paesaggista, profeta del giardino planetario e maestro del terzo paesaggio, la annovera fra le erbe vagabonde alla conquista del mondo. Si potrebbe ben dire che è una vagabonda cosmica. Cosmos in greco significa ornamento, ma il cosmo è diventato l’universo, il visibile, il tutto. Dove l’astro messicano fiorisce, dai prati polacchi fino alle savane.

Artemisia canforata

Artemisia camphorata

Artemisia camphorata

Questa artemisia non è molto diversa per aspetto e portamento da molte altre artemisie (assenzio e dragoncello, vedi 27 luglio 2008, artemisia di campo e artemisia selvatica), ma ha un’odore così intenso di canfora che mi è venuto in mente di usarla negli armadi come efficace antitarme. Secondo i trattati di botanica si chiama Artemisa alba (Artemisia camphorata è un sinonimo) ed è una piccola pianta erbacea, spontanea in tutto il territorio italiano. Questo esemplare, che ho acquistato per curiosità a una fiera, è diventato immenso e sovrasta pericolosamente non soltanto il rinato aneto e le nuove timide piantine di prezzemolo autunnale, ma perfino due grossi cavoli broccoli che ho messo a dimora nell’aiuola poco sotto.

Artemisia camphorata

Artemisia camphorata