Scarpata ferroviaria

” … quasi triste come i fiori e l’erba di scarpata ferroviaria”

Scarpata ferroviaria

Trigonella officinalis
Papaver rhoeas

In primavera accade che persino le scarpate ferroviarie non siano affatto tristi, ma coperte di sfavillanti colori. Qui siamo a Chiavari, non lontano dalla foce del fiume Entella, fra la strada statale Aurelia e i binari. Mi corre incontro una distesa di erbe e fiori, fra i quali all’inizio riconosco gli steli glabri di equiseto immaturo, le spighe invadenti dell’avena selvatica (Avena fatua) e di qualche forasacco rossiccio che non riesco a identificare.
Nel bel mezzo dell’erba alta, che presto diventerà sterpaglia, si alzano i cespi di meliloto giallo, Melilotus officinalis, recentemente rinominata Trigonella officinalis, pianta dalle accreditate virtù medicinali. Come suggerisce il nome originale, si tratta di una pianta mellifera e, come molte fabaceae, ottima foraggera. Utilizzata tradizionalmente come antiinfiammatorio, diuretico e sedativo, la pianta contiene cumarina, che le conferisce un odore tipico, ma la rende anche leggermente tossica e quindi deve essere somministrata con cautela perché può causare nausea e mal di testa. L’uso esterno invece non ho controindicazioni e l’estratto della pianta è utile per contrastare l’invecchiamento della pelle(1).
Sul limitare della ferrovia, il meliloto si sbraccia aperto e felice, con il suo pallido giallo, sovrastando il prorompente scarlatto dei papaveri.

Scarpata ferroviaria

Papaver rhoes
Echium vulgare

I papaveri sono dappertutto. Ma anche l’azzurro vuole la sua parte, l’azzurro cupo, quasi violaceo, dell’erba viperina (Echium vulgare). Il nome di questa pianta deriverebbe dalla forma del fiore, triangolare come la testa della vipera e per conseguenza la leggenda tramanda che essa contenga un antidoto al veleno della pericolosa serpe. Certamente è specie alimentare e officinale, anche se come al solito non sarebbe una buona idea raccoglierla in un territorio così urbanizzato.
E’ difficile immaginare una scarpata ferroviaria più colorata, ma non c’è da sorprendersi, perché questo miracolo si chiama primavera. Fra un mese o poco più, fra queste pietre e questo cemento rimarrà forse soltanto qualche ciuffo scomposto di erba secca e la scarpata tornerà alla tristezza che ci ha cantato il poeta. La sua sorte non è diversa da quella di qualsiasi giardino, bisogna goderla adesso, non lasciarsela sfuggire, anche se è soltanto un lurido bordo di strada.

(1) Pastorino G et al. (2017). Biological activities of the legume crops Melilotus officinalis and Lespedeza capitata for skin care and pharmaceutical applications. ICP, 96:158-164

Asfodelo alla riscossa

Asfodelo fistoloso

Asphodelus fistulosus

E’ passato solo un anno da quando l’avevo incontrato sul bordo di una strada in collina e ora l’asfodelo fistoloso è arrivato nel cuore della città. Non so quanto gli piaccia crescere i suoi steli sottili e aprire le candide corolle immerso nei miasmi del traffico urbano. Ma qui è germogliato e, da vegetale obbediente, qui è cresciuto. Affonda le sue radici nello spartitraffico di corso Europa, poco lontano dal pronto soccorso dell’ospedale San Martino e dalla sede regionale della RAI, fra due inarrestabili correnti di veicoli rumorosi e puzzolenti. Divide con i gialli e impudenti grespini un’insignificante striscia di terra che neppure i piedi umani osano calpestare.

Un po’ stupefatta, lo contemplo sfidare, eretto e rigoglioso, autobus e camion, le brusche sterzate delle motociclette e gli ingombranti pneumatici dei suv di passaggio. Ma le sue corolle stellate passano inosservate perché la città non lo vede e soprattutto non lo guarda. L’anno scorso ho già parlato delle infinite storie e tradizioni che circondano i fiori di asfodelo. La sua è una bellezza algida, tetra. Fiore degli inferi per Omero, il suo rigido stelo fiorito consacrò Giuseppe sposo di Maria e padre putativo di Cristo. Sfuggito ai campi e agli inferi, si riscopre, in questa calda primavera, novello fiore di città.

(Per vederlo un po’ meglio, aprite l’immagine qui sopra)

Anticipi di primavera

Mandorli

Prunus dulcis

Ormai divampa la fioritura dei mandorli di Borgoratti, sulle terrazze sopra la strada, via Cadighiara, nei pressi di una strettoia così angusta che ha richiesto l’installazione di un semaforo. Divampa a ridosso di uno scosceso pendio, da anni squarciato dalle ruspe e guardato a vista dalle gru, senza che i lavori per la costruzione di fantomatici garage avanzino ancora.  Divampa sotto il colossale viadotto dell’autostrada, le sue zampe grigie fanno sembrare il cielo ancora più lontano.

Via Cadighiara

mandorli

Prunus dulcis

Sono nuvole di rosa questi alberi, tanto che sospetto si tratti di una varietà da fiore, tipo Prunus triloba. Per averne la certezza bisognerebbe osservarli quando la stagione avanza e vedere che frutti producono. Il Prunus triloba produce piccole ciliegie non appetibili, mentre il vero mandorlo Prunus dulcis le note drupe con mandorla, cioè il seme con guscio legnoso ricoperto da un mallo verde. Essendo ormai un boschetto, può anche darsi che queste piante, che richiedono l’impollinazione incrociata, fruttifichino .

Bergenia cordifolia

Ma non solo solo i mandorli, da fiore o da frutto che siano, a riempire di luce e colore questo angolino dimenticato di città, infossato fra le ripide colline e i pilastri di cemento. Testarda fiorisce ancora l’euryops, macchie di giallo per tutte le stagioni, mentre dietro i mandorli fanno capolino i pomi dorati degli agrumi.
Alla base di una scaletta è fiorita la bergenia, una pianta che vive proprio in questo periodo dell’anno la sua breve, esuberante stagione. I fiori sono copiosi e di colore acceso, ma terminato lo spettacolo rimarranno, dopo, solo le larghe foglie grassocce, anonime e per lo più ignorate .

Oggi ho più immagini che parole, la primavera non si farà attendere.

Leccio di campagna e leccio di città

Leccio

Quercus ilex

Sul bordo del bosco ho incontrato un germoglio di foglie nuove e verdi che riconosco come un piccolo leccio. Quercus ilex, la più comune delle querce sempreverdi mediterranee, viene ampiamente utilizzato e sfruttato nel verde metropolitano. Qui dove la città finisce, ai confini di quel verde suburbano che non è più prigioniero ma neppure completamente libero, nel versante settentrionale che al mare volta le spalle, i lecci non vengono dal bosco, ma dalla città. Grandi lecci di fronte ad ogni chiesa, a Bavari, punta di valico, di fronte alla chiesa di San Giorgio, un albero possente fa ombra a tutto il sagrato, così come a Montesignano, quartiere popolare per niente campestre.

Leccio Bavari

Quercus ilex
chiesa di San Giorgio di Bavari

Scendendo più giù, verso il centro della città, nei giardini pubblici di piazza Martinez di fronte alla chiesa di San Fruttuoso, sono sempre i lecci a bordare i marciapiedi, più piccoli e dimessi perché probabilmente sottoposti a incessanti quanto impietose potature. Altri viali di lecci ornano le periferie, fra palazzoni e centri commerciali.
Albero solido, a volte imponente, severo, resiliente, coriaceo come la sue foglie, il leccio non è mai bello. La sua scorza è ruvida, il suo verde è oscuro e le sue foglie cadute sono polverose e rigide. Non potrebbe essere altrimenti per sopportare il nostro clima mediterraneo, asciutto e intensamente soleggiato, e anche l’aria pesante e torrida della città.

Leccio piazza Martinez

Quercus ilex
piazza Martinez

Un’altra quercia mediterranea, la sughera, sa farsi prediligere e desiderare per la sua unicità, perché ha sviluppato uno strato di corteccia di eccezionale porosità e leggerezza che si presta agli usi più disparati. Invece il leccio, che cosa ha da dare? Null’altro che quell’ombra opaca che  dona sollievo dalla calura, ma non vera e propria frescura. Vero è che le sue piccole ghiande appuntite sono più appetibili di quelle delle altre querce. Dice il poeta Virgilio che prima dell’avvento dell’agricoltura (prima che ‘Cerere insegnasse ai mortali a rivoltar la terra con l’aratro’), la sacra selva forniva corbezzoli e ghiande, che certo venivano usate per farne farina, soprattutto le ghiande del leccio più dolci e meno astringenti. Si dice che nella Spagna quest’uso continuò fino a tempi relativamente recenti, ma i nostri antenati, si sa, avevano esigenze alimentari meno sofisticate e più schiette delle nostre.

Leccio Piazzale Bligny

Quercus ilex
Piazzale Bligny

Ora che i boschi costieri sono stati sterminati, il leccio sopravvive come inevitabile compagno di strada, torvo signore dei marciapiedi, aggrovigliato testimone delle lordure urbane.

Però come tutte le creature, anche quelle meno attraenti, i giovani virgulti, come i cuccioli, sono teneri e nobili. Il loro verde è brillante e luminoso, la loro scorza più morbida. Chissà se questo piccolo germoglio cresciuto fra essenze diverse, allori, carpini, robinie e pioppi, diventerà mai un albero. Ad arricchire e impreziosire un bosco che potrebbe tornare alle sue origini più genuine.

leccio ghiande

Quecus ilex
ghiande (10 novembre 2008)

Leccio fiori

Quercus ilex
fiori (28 aprile 2010)

 

Fico rampante

Fico

Ficus carica

Su questi rami spogli, due piccoli frutti di fico commestibile (Ficus carica) resistono chissà come al freddo dell’inverno, che non è mai gelo, ma sempre fastidioso. L’albero certamente si trova lì per caso, come la maggior parte dei fichi commestibili, piante selvatiche e indomabili, scarsamente ornamentali.

Diversa la vocazione e diverso il destino di molti dei suoi parenti del genere Ficus (famiglia delle Moraceae, come il gelso). Molte sono le specie, per lo più tropicali,  spesso velenose, che, lontano dai loro luoghi di origine, vivono un’esistenza difficile, rinchiusi negli interni delle abitazioni, sacrificando la loro esuberanza in angusti contenitori e temperature artificiali.

Fico

Ficus pumilia

Temperamento rampicante, il furbo Ficus pumilia non cresce bene in appartamento, perchè preferisce non farsi rinchiudere, anche se si adatta con estrema disinvoltura alle circostanze. Si abbarbica voracemente ai muri con tenaci radici avventizie e li ricopre di piccole foglie persistenti, aderendo alla superficie delle pietre con rampante caparbietà. Ma quando decide di fruttificare, cambia portamento. Si alza in piedi, su piccoli fusti eretti, le foglie diventano più larghe, più separate, pur rimanendo coriacee come legno, e allora sembra un arbusto vero, libero e indipendente. Qui i suoi rami sempreverdi si allungano verso le signorili finestre di un edificio residenziale decorato di motivi art nouveau, in via Francesco Pozzo, a Genova.

Fico

Ficus pumilia

I fichi sono verdi, tendenti al blu scuro e al nero quando sono maturi, e non sono, è noto, veri frutti, ma sorta di contenitori, detti siconi, che racchiudono tanti piccoli fiori, soggetti, negli esemplari femminili, a una complicata impollinazione entomofila.
Rampicante o eretto, il F.pumilia si incontra molto frequentemente nei giardini, ricercato, gradito o mal tollerato. Foglie e fusti contengono un liquido, un lattice piuttosto velenoso, o comunque irritante, mentre quelli che chiamiamo frutti non sono veramente tossici, seppure scarsamente appetibili.

Verde balcone

Asparagus sprengeri

Asparagus sprengeri

Un balcone fiorito in maggio è un esercizio quasi obbligatorio per chi ama le piante, e non è difficile da realizzare per chiunque abbia voglia di frequentare con assiduità qualche vivaio e non dimenticare le innaffiature. Ma una cascata di verde lussureggiante nel cuore dell’inverno cittadino colpisce l’immaginazione e fa correre  la fantasia a qualche nobildonna che con  attenzione e cura si preoccupa del rispetto delle tradizioni. Ma anche se non è così, certo è che queste piante non sono capitate e si sono mantenute qui così per caso.  La protagonista del primo balcone è un asparago ornamentale,  spesso chiamata asparagina, con i suoi lunghi fusti flessuosi, le minuscole foglie a squama e i piccoli e verdissimi cladodi, che sono rametti trasformati. Talvolta il verde si punteggia di bacche rosse arancio, e qualcuna occhieggia in mezzo alla cascata di rami, come si vede ingrandendo l’immagine (selezionandola con un click si apre in un’altra pagina) e osservando con attenzione. In questo luogo e in questo tempo, non si può davvero pretendere di più. Dove si trova di preciso questo balcone non lo so. L’ho fotografato fra piazza Santa Caterina della Rota e piazza de’ Ricci, forse lungo la via di Monserrato che le unisce.

Balcone fiorito

Nephrolepis cordifolia – Hedera helix – Trachelospermum jasminoides

Certa è invece la localizzazione del secondo balcone verdeggiante, immortalato sempre in un pomeriggio d’inverno, nella stessa zona. Siamo in piazza Farnese, che si raggiunge percorrendo fino in fondo quella stessa via di Monserrato, e questo edificio è dirimpetto all’immacolato  palazzo omonimo, che è sede dell’Ambasciata di Francia. Non so quanto nobile sia questa costruzione, che si fregia di reggere la targa del luogo, ma da nobili è circondato, ad angolo con il convento e la chiesa di Santa Brigida e con alla destra, oltre il vicolo dei Baullari, il palazzo del Gallo di Roccagiovane.  Fra le piante si riconoscono i cespi dalle lunghe fronde della felce Nephrolepis cordifolia, che spuntano a frange direttamente dal rizoma sotterraneo,  l’edera maculata (Hedera helix) dalle sfumature bianche, e perfino un falso gelsomino (Trachelospermum jasminoides) con le sue foglie persistenti e coriacee, e i fusti che si arrampicano sul muro. Ne avrà tempo per fiorire e inebriarci con i suoi effluvi più o meno gradevoli. Per ora verdeggia.
A quando un concorso per balconi lussureggianti nel cuore dell’inverno?

Paulownia, solitaria regina

Paulownia tomentosa
piazza della Chiesa Nuova

Gli alberi in città sono spesso individui solitari, condannati all’isolamento austero e talvolta negletto all’ombra di monumenti ed edifici che essi nobilitano con la loro discreta ed elegante presenza.

In questa piazza, nelle vicinanze di corso Vittorio Emanuele a Roma, magnificenza e bellezza non mancano, fra la chiesa di santa Maria in Vallicella, fatta edificare a metà del 16° secolo da San Filippo Neri e l’oratorio dei Filippini, in stile barocco, opera di circa cent’anni dopo dell’architetto Francesco Borromini.

Paulownia tomentosa

Paulownia tomentosa
d’inverno

La paulownia, a volte chiamata pawlonia o volgarmente paulonia, è un grande albero originario dell’Oriente, con ampie, larghissime foglie e straordinari fiori dal colore azzurro e lilla. Il  nome stesso suggerisce la sua natura aristocratica perché deriva da Anna Paulowna (o Pavlovna), la figlia dello zar di Russia Paolo I. Naturalmente fu battezzata così in onore dello sponsor, perché con la Russia non ha nulla a che fare, essendo originaria del Giappone e laggiù scoperta da Carl Thunberg, discepolo di Linneo.

Paulownia tomentosa

Paulownia tomentosa
frutti estivi

Pianta attraente, ma anche resiliente e tollerante dell’aria malsana delle metropoli, viene largamente utilizzata nel verde urbano. Scoprirne la fioritura in città è affascinante, ma questa purtroppo dura molto poco e questi che rimangono sugli invernali rami spogli sono i frutti, anzi gli involucri dei frutti, che già hanno rilasciato i semi. Scarno e nobile ornamento dell’inverno.
I vasti rami carichi lasciano immaginare quale macchia di verde generoso quest’albero sarà nella bella stagione, nella piazza inondata di sole.

 

Gigaro

Gigaro

Arum italicum
parco di Villa Serra Comago
Serrà Riccò (Genova)
gennaio 2009

Il gigaro è una calla selvatica, una piantaccia velenosa ed infestante con foglie a forma di freccia, di un bel verde intenso, spesso maculate di bianco.  Il mio giardino è costellato dei suoi tuberi, di ogni dimensione e profondità.  Ogni inverno mi impegno molto ad estirparli, scavando alla ricerca del rizoma senza grande successo; nella maggior parte dei casi strappo la foglia, e il suo gambo, senza riuscire a sradicare un bel niente. Così, a primavera, qualche fiore di gigaro spunta fuori, non privo di un fascino un po’ inquietante.

Gigaro Spadice e spata

Arum italicum
spadice e spata

I fiori veri e propri sono molto piccoli e crescono alla base di una colonna, detta spadice, di color giallo arancio parzialmente racchiusa in un cappuccio. Questo è la spata, la parte appariscente del fiore, lunga fino a 40 centimetri. La magia di questa composizione floreale sta nel fatto che certi insetti, principalmente ditteri, cioè mosche, vengono intrappolati alla base della spata e si riempiono di polline; più tardi sfuggono, permettendo così l’impollinazione incrociata quando resteranno intrappolati in un altro fiore. Maturano così i frutti, bacche disposte a spiga, prima verdi, poi rosso arancio.

Gigaro bacche

Arum italicum
bacche

 

E’ tutto velenoso. Le lucide foglie astate, le infiorescenze, i bianchi cappucci, e naturalmente le bacche. Ci mette in guardia Primo Boni1, che lo chiama anche pan di serpe, e non manca di indulgere in particolari abbastanza agghiaccianti sugli effetti dell’intossicazione, nel caso un ignaro bambino, tentato da forme e colori così seducenti, se ne metta in bocca qualche pezzetto.
Il gigaro cresce dappertutto e le sue foglie alla fine dell’autunno formano cespi lucenti nei giardinetti sui prati spogli.

Primo Boni, Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche, Edizioni Paoline, 1977

Liriodendro o albero dei tulipani

Liriodendron tulipifera
parco di Villa Serra Comago
Serrà Riccò (Genova)
gennaio 2009

Il liriodendro, o albero dei tulipani, nome che gli deriva dalla forma dei fiori, è una pianta originaria del Nord america. Gli indigeni (indiani d’America) lo chiamavano l’albero canoa perchè i tronchi massicci venivano utilizzati tutti interi per costruire le canoe. E’ un albero di una bellezza esagerata, e questa volta parlo sul serio, non soltanto in ragione del mio amore per il mondo vegetale. Si tratta di bellezza reale, quella stessa che si trova sul volto di una donna, e a volte anche di un uomo, che non possiede espressione che non sia attraente. Il liriodendro ha un portamento regale, con un tronco diritto e una chioma folta e regolare, foglie dalla forma aggraziata, morbidamente quadrangolari, verde tenero nella bella stagione e di affascinanti colori dal giallo all’arancione in autunno.

Liriodendron tulipifera
parco Burcina (Biella)
maggio 2011

I fiori, come quasi sempre nella famiglia delle magnolie, sono assai appariscenti, a sei petali giallo verdi solcati da nervature viola e arancio. E d’inverno, quando ormai si è spogliato di quasi tutte le sue attrattive, restano sui rami i calici dei fiori, rigidi ed essiccati, teatrali, spiccano come stelle o gioielli.
L’albero della fotografia in alto si trova nel parco storico di Villa Serra a Comago, in val Polcevera, nelle vicinanze di Genova.
I liriodendri sono molto comuni come specie ornamentale nei viali e parchi cittadini, come si vede in un’immagine di qualche anno fa, via Felice Cavallotti, zona Foce di Genova in questa pagina.
Ripropongo ancora questo post da un’idea del 4 gennaio 2009.

Bambina d’inverno

Mi guarda sempre imbronciata e severa la bambina sul muro delle case popolari di Tor Marancia.Tor Marancia
L’inverno ha spogliato la robinia e la pioggia lucidato la yucca. Più sfavillante e nitida l’avevo ammirata sei anni fa in un ottobre tiepido e traballante (era l’anno del terremoto di Amatrice). Ora nuove rughe giocano con i tratti del dipinto, il tempo scava sull’intonaco nuove storie impreviste.
Il nome Tor Marancia deriva probabilmente dalla deformazione medioevale di Amaranthus, il nome di un liberto a cui nel II secolo DC era stata data in gestione la tenuta e la villa di proprietà della nobile famiglia Numisia Procula. Con l’editto di Costantino del 313 d.C. il cristianesimo era diventato religione dell’impero e la chiesa assunse un enorme potere politico ed economico che investì anche la campagna romana. Nacquero così le Domuscultae vere e proprie aziende agricole e vinicole facenti capo alla diocesi. Accanto ad esse furono innalzate per tutta la campagna romana centinaia di torri che avevano il compito di avvisare l’urbe in caso di minaccia dei pirati. Infatti erano frequenti le incursioni dal mare da parte dei saraceni. Memorabili nell’830 e nell’842 i saccheggi della basilica di San Pietro, di San Paolo e dell’abbazia della tre fontane.

Torre San Tommaso - Tor Marancia

Torre San Tommaso

Fra le antiche torri, l’unica sopravvissuta fino ai giorni nostri è la torre di San Tommaso che da oltre ottocento anni svetta in cima a una collinetta, poco prima che viale Tor Marancia incroci la via Cristoforo Colombo.

Trovo queste informazioni, e altre più recenti e importanti, su due pannelli in bella mostra ai piedi della torre. Questi pannelli sono una risorsa per il viandante indagatore di curiosità locali. Alcuni abbandonati e negletti bisogna sbrigarsi a fotografarli, altri per fortuna ancora pienamente leggibili e accurati. Questi, curati dall’Associazione Parco della Torre di Tor Marancia, sono datati 30 novembre 2019 e sono ancora in buono stato. Il font utilizzato per la scrittura è stato realizzato per agevolare la lettura ai dislessici e casi di disturbi specifici dell’apprendimento. E anche agli stranieri aggiungerei io, tutti quelli che chiedono, per favore, di scrivere sempre  in stampatello.
Nel maggio del 1933, sotto il regime fascista, cominciò la costruzione della borgata Tor Marancia (conosciuta anche come Tormarancio) affidati alla ditta Giovannetti. Erano gli anni della grande disoccupazione e della liberalizzazione degli affitti, anni in cui l’urbe e il suo centro subirono opere di trasformazione profonda, veri e propri sventramenti con l’allontanamento dal centro di tutte quelle persone che vivevano in condizioni precarie e di povertà, disagio da nascondere, lontano dagli occhi che dovevano osservare la grandezza di una città e di un regime, quello fascista che preferiva deportare i suoi cittadini in borgate fatiscenti pur di mostrare un’illusoria e falsa potenza. Roma era grande, o almeno doveva sembrarlo.

Tor Marancia
ottobre 2016

Trasferiti in massa in queste borgate erette frettolosamente, fatte di case tutte uguali, con materiali di poca durata e di scarto, furono abbandonati a loro stessi, senza i servizi minimi come strade, fogne, scuole, pronto soccorso e mezzi pubblici. Tor Marancia nacque per accogliere alcuni di questi disperati e tutte le loro tragedie. La borgata fu edificata all’interno di una buca vicino alla “Marrana” e ad ogni pioggia di allagava proprio come al passaggio di un monsone asiatico e per questo soprannominata Sciangai.

Tor Marancia

“Ebbene io vivo a Tor Marancia con mia moglie e sei figli, in una stanza che è tutta una distesa di materassi e quando piove l’acqua ci va e viene come sulle banchine di Ripetta,” lamentava il protagonista di una dei racconti romani di Alberto Moravia (Il Pupo 1954), mentre Ugo Zatterin nel suo romanzo Rivolta a Sciangai nel 1948 descriveva così la borgata:
“Nessuno saprà dire quale caratteristiche di Sciangai abbia particolarmente ispirato l’ignoto che battezzò con questo nomignolo esotico un rifiuto periferico di metropoli incastrato in un valloncello, tolto alla vista dei civili. Se la guardate dall’alto, appena fuori dalle siepi di more e rose selvatiche, Sciangai ha l’aspetto di una fabbrica di esplosivi, fatta razionalmente di casupole leggere, che sembrano pronte ad andarsene con il vento di marzo, allineate militarmente simmetriche; e i tetti sono tutti rossi quando c’è il sole…”

Tor Marancia
ottobre 2016

La costruzione delle attuali case popolari iniziò nel 1947 per intercessione di due senatori del PCI Edoardo D’Onofrio e Emilio Sereni, a seguito della legge De Gasperi sul risanamento delle borgate, conclusasi nel 1960.
Ma dal 2015 un’altra città è cresciuta a Tor Marancia, la città dell’arte di strada e dei murales più straordinari del mondo. Dopo sei anni, i segni del tempo cominciano a mostrarsi sui muri dipinti e consumati dalle intemperie. Sarebbe bello poter sperare in un restauro, chissà se in questi tempi difficili spunterà ancora una volta la primavera.