Storie di piante non illustri

Piante non illustri

Verbena officinalis

Da settimane la vedo lungo la mia passeggiata del mattino, eretta e sottile sul bordo della strada, con i suoi microscopici fiori quasi invisibili. Pianta nobilissima nei tempi antichi, celebrata per le virtù afrodisiache, protagonista di decotti e pozioni essenziali, erba magica e sacra, oggi la verbena cresce soprattutto in zone antropizzate e vive praticamente sconosciuta. Non è veramente commestibile, perché ha solo piccole foglie amare, ma incontrarla è un’emozione, perché la sua semplicità evoca rispetto. Le sue forme sono così esili e sfuggenti che fotografarla è difficile  (vedi anche 11 agosto 2009). A dispetto dell’apparenza, è una pianta robusta e molto tenace. I vivai vendono vasi variopinti delle sue sorelle ornamentali, ma è solo lei, la piccola verbena selvatica, la responsabile della fama millenaria.

Piante non illustri

Silene alba

Poco lontano, in mezzo all’erba lucida di pioggia, i fiori bianchi della silene, sbrindellati, ma ancora saldi, sbocciano incuranti di essere fuori stagione. Più tardiva, ma molto simile alla silene rigonfia (Silene vulgaris), anche questa pianta ha calici a forma di piccoli otri, che si sgonfiano con un piccolo fischio.  Erba commestibile ed ingrediente frequente delle zuppe tradizionali, no, non è un’erba illustre, decisamente popolare direi.

Piante non illustri

Diplotaxis tenuifolia
Malva sylvestris

Intanto la rucola selvatica e le malve del prato non sembrano avvilirsi nel fresco di novembre, nel parco urbano dell’Appia Antica (Roma). Piante non illustri, ma preziose, più  verdi del verde, si godono l’aria ricca di umidità. La rughetta selvatica (Diplotaxis tenuifolia) è una specie perenne e comune quasi dappertutto, fresca e piccante, saporitissima se piace, da consumare cruda per chi ama le insalate aromatiche. I suoi sgargianti fiorellini gialli rallegrano il pallido sole. Non ha bisogno di presentazioni la malva, commestibile in insalate e zuppe, le cui foglie e fiori hanno innumerevoli utilizzi medicinali.

Viene da lontano la galinsoga, nativa delle zone montagnose del centro America e deve il suo nome al medico botanico spagnolo del 18° secolo Martinez de Galinsoga. E’ una margheritina poco appariscente, ormai naturalizzata quasi in ogni regione d’Italia e spesso disprezzata come infestante.

Piante non illustri

Galinsoga parviflora

Di erbaccia fastidiosa, in campagna e città, ha davvero tutte le caratteristiche, produce moltissimi semi, sempre pronti a germogliare nelle circostanze più varie, si riproduce facilmente anche per propagazione vegetativa, e poi cresce velocemente, fiorisce sempre e per diverse stagioni(1).
Ma non è vero che non serva a niente, e se raramente si trova nei manuali di fitoterapia, è perché è poco conosciuta, e snobbata, nel vecchio continente. Nei suoi luoghi di origine e habitat più congeniali, cioè le zone tropicali, viene impiegata come pianta medicinale per vari malanni, oltre che come cicatrizzante sulle ferite. Infatti contiene principi attivi che le conferiscono proprietà antibatteriche,antimicotiche, antiossidanti, antinfiammatorie e vermifughe (2). Non è tossica, anzi è un’erba alimentare sia per gli animali che per le persone. In città si trova soprattutto nei giardinetti, in qualche piccola aiuola rugiadosa, ma per le insalate la preferirei campestre.

Piante non illustri, ma ricche di storia, che per caso incrociano il mio cammino in un giorno di fine autunno.

(1) Damalas CA (2008) Distribution, biology, and agricultural importance of Galinsoga parviflora (Asteraceae)-  Weed Biology and Management 8:147-153.
(2) Ali S et al. (2017) Ethnobotanical, phytochemical and pharmacological properties of Galinsoga parviflora (Asteraceae) – Tropical Journal of Pharmaceutical Research 16:3023-3033.

Portulaca al Testaccio

TestaccioL’area dismessa dell’Ex Mattatoio del Testaccio a Roma, dove fino al 1970 venivano macellate le carni per il fabbisogno della capitale, è stata in anni recenti parzialmente ristrutturata e accoglie realtà culturali di grande importanza, come l’Accademia di Belle Arti, la Facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre e una delle sedi del museo di arte contemporanea MACRO.

Testaccio

Plumbago capensis
Senecio angulatus

Sul lato opposto, verso Campo Boario, là dove  la carne veniva mercanteggiata, sono invece alloggiate associazioni e aggregazioni sociali le più disparate, dalla Casa della Pace, a gruppi etnici di liberazione nazionale, come YPG. In queste terre di tutti e di nessuno, le erbe selvagge prosperano indisturbate, accanto a fioriture massicce di floride piante da giardino abbandonate.

Portulaca oleracea

Portulaca oleracea

La portulaca (Portulaca oleracea), detta anche porcellana, erba da porci, sportellacchia, e chi più ne ha più ne metta, è una delle erbette più comuni e diffuse negli incolti o ai bordi delle strade. Le sue parenti nobili si possono acquistare in vaso nei vivai e producono fiori sgargianti e variopinti. Però non è vero che lei, la piccola impudente, abbia fiori insignificanti; viceversa le sue piccole corolle gialle hanno un’aggraziata eleganza, fra le foglie carnosette, spesse e lucide, di forma ovale. I fusti prostrati, rosseggianti, morbidi, si allungano perfettamente a loro agio in mezzo alla spazzatura. La portulaca, che, come tutte le erbacce, viene sistematicamente estirpata, è in realtà un’insalata prelibata, se raccolta pulita e fresca, e può essere consumata cruda, con pomodori e cipolla, o lessata come gli spinaci, o fritta con le uova, come sempre ottimamente suggerisce Primo Boni nel suo insostituibile manuale “Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche” (Ed. Paoline 1977). Selvatiche, appunto, non urbane, perchè seppure questa pianticella ci sorprende e allieta con la sua esuberanza, non credo che cibarsi di questi esemplari cittadini sia poi così salutare.

Fitolacca a Ravecca beach

Fitolacca, cremesina uva turca e persino amaranto(1), quanti nomi per quest’erba, irruente e robusta, che cresce con grande velocità, infesta campi e fossati, ruderi e cortili, rivi e scarpate, con travolgente esuberanza.

Phytolacca americana

Neofita invasiva, ormai naturalizzata ovunque (ma da dove viene si capisce dal nome specifico), ha fiori, disposti in sorta di pannocchiette (tecnicamente racemi) bianchi verdastri (ma non sono petali, piuttosto elementi sepaloidi) che si traformano in lucide bacche verdi, poi porpora e infine nero-purpureo. Tutti i nomi di questa pianta ne richiamano l’uso come colorante, anche alimentare(2) e, seppur certamente tossica, è specie officinale, usata dagli indiani d’America per vari usi medicamentosi, e oggetto di studio per possibili proprietà antivirali e antitumorali. Commestibili sarebbero i germogli, se si fanno a lungo bollire (coglieteli lontano da traffico e fumi e provateli a vostro rischio) e le bacche, se opportunamente trattate (come spero lo siano quando vengono usate per colorare il vino). Per crescere non chiede davvero permesso e si trova nei luoghi più inaspettati.

Fitolacca

Phytolacca americana

Eccola prosperare indisturbata nelle aiuole incolte, padrona dell’improbabile ‘Ravecca beach’, ai margini di quella storica, antica direttrice che va dalla porta Soprana o di Sant’Andrea a piazza Sarzano, nel cuore del centro antico di Genova. Via di Ravecca, toponimo di origine sconosciuta, era popolata fin dal medioevo, prima da nobili (Embriaci e Fieschi) poi da ceti sempre più popolari. Le vicissitudini delle guerre l’hanno ferita più volte, dalle bombe francesi del 1648, a quelle anglo americane dell’ultima guerra mondiale, che rasero al suolo la vicina via Madre di Dio, oggi totalmente ricostruita. Negli ultimi decenni del XX secolo, la zona era ancora ingombra di macerie e piuttosto degradata e fu una delle ultime ad essere rinnovata. Oggi brulica di vita e commercio; ma anche di erbacce. Come la fitolacca, che in fondo mi è simpatica, come tutte le piante, belle, che crescono in mezzo a pietre e rovine, riconquistando con leggerezza e noncuranza lo spazio che era stato loro strappato dalle effimere costruzioni umane.

Sua sorella, Phytolacca dioica, maggiore perchè è un albero alto, imponente e decorativo, viene spesso piantata nei giardini e nei viali.

(1) L’amaranto, quello vero, è una pianta differente.
(2) Il nome americano è pokeweed, e deriva da come la chiamavano gli algonchini, gli indiani di Pocahontas; ma viene usato anche inkberry, che richiama nuovamente le sue proprietà coloranti.

Il giardino abbandonato

Non ho talento con le rose. Sono fiori che mi mettono sempre alla prova, riluttanti alle mie cure e premure. “Le rose sono i fiori della maturità, perchè soltanto la pazienza e l’esperienza sono in grado di badare alle pretese di questa pianta difficile”(1).
Oppure facilissima. Se si osserva come splendide tanto spesso sboccino, rigogliose e tenaci, nei giardini abbandonati. Le erbacce non le turbano, contemplano dall’alto della loro incommensurabile bellezza i cespi selvaggi di parietaria che nessuno riuscirà mai ad estirpare e confondono il loro giallo sublime, screziato d’oro e di miele, con le corolle volgari di qualche grespino di passaggio. Sembrano felici di essere lasciate in pace, felici del luogo in cui si trovano, sia esso un sofisticato roseto o l’angolo di una scala in periferia.
Mi trovo a passare di frequente sul limitare di questo piccolo giardino. Fino a poche settimane fa era costantemente presidiato da due grigi cani riottosi la cui vigile attenzione era impossibile eludere. Oggi invece è silenzioso, nel suo disordine ridondante, e, come si conviene alla stagione, ricco di fiori meravigliosi.

Salvia elegans

Salvia elegans

Lungo la staccionata in basso, fanno capolino le corolle smaglianti della Salvia elegans, detta salvia ananas per quel profumo esotico che amana dalle sue foglie. L’avevo coltivata anch’io, per un tempo breve, stroncata poi da un inverno troppo rigido. Qui cresce rigogliosa ed alta, intrecciata alla siepe di fotinia, alla ricerca della sua luce.

Poco più su, la ringhiera arruggunita non riesce a contenere l’esuberanza di un “verde melograno dai bei vermigli fior” (Punica granatum). E fra la mirabile rosa gialla e un’altra, rossa a corolla semplice, al riparo di un lucido e puntuto cespuglio di agrifoglio (Ilex aquifolium), un’ortensia (Hydrangea macrophylla) già prepara un’abbondante fioritura.

Come devo chiamare questo giardinetto? E’ verde urbano o terzo paesaggio? E quanti giardinetti più o meno abbandonati si incontrano lungo la strada, intricati e oscuri, sudici e vagamente inquietanti, ma pronti a ricoprirsi di fiori inaspettati nel mese più ricco e generoso dell’anno? In fondo anche il mio giardino, a cui pure dedico tanto del mio tempo libero, può, da certe angolazioni, sembrare un incolto. Se lasciata a prosperare da sola, la vita verde trova la sua strada e gli espedienti migliori per sopravvivere, fra acqua e sole, l’unico cibo di cui ha bisogno, e se riesce a mantenersi al riparo dai veleni più insidiosi dell’attività umana, per riprodursi, tanti e tanti anni ancora.

(1)Eliana Bouchard – Louise. Canzone senza pause, Bollati Boringhieri, 2007

Violacciocca allo sbaraglio

Violacciocca Matthiola incana

Violacciocca (Matthiola incana)
ponte di Carignano

Ho coltivato la violacciocca (Matthiola incana) per diversi anni nel mio giardino, ed è pianta semplice e  generosa, di colore intenso e attecchimento prepotente. In città la trovo in posizioni impervie, come si addice al suo habitat, pianta da rupi marittime e vecchi muri.

Sulle rovine di via Madre di Dio, storico quartiere della Genova anteguerra, è cresciuto un universo di cemento noto come Giardini Baltimora, o meglio giardini di plastica. Tutto sovrasta l’antico ponte, oggi via Eugenia Ravasco, che unisce le due colline di Sarzano e Carignano, dove si eleva uno dei gioielli della Genova rinascimentale, la basilica di Santa Maria Assunta disegnata da Galeazzo Alessi. Ponte di CarignanoIl ponte fu costruito intorno al 1720 su progetto di Gherardo de Langlade e  finanziato  dalla nobile famiglia Sauli, perchè, si dice,  l’aristocratica signora aveva espresso il desiderio di raggiungere più agevolmente la chiesa dai suoi palazzi. Nel 1878 fu provvisto di altissime inferriate perchè “non passi in consuetudine l’esempio antico e recente di gettare disperatamente la vita dai ponti di Carignano”, come ricorda un’iscrizione sul muro. In questo caso il benefattore, e protettore di aspiranti suicidi, fu  Giulio Cesare Drago, che volle rimanere anonimo fino alla morte.
Sprezzante dello strapiombo, si affaccia senza ritegno, ancorata a falde di cemento, il cespuglio di violacciocca che allunga le corolle violacee dal ponte verso i giardini Baltimora.

Violacciocca Matthiola incana

Matthiola incana
Strada Aldo Moro

Altrettanto disdegnoso del pericolo  un altro grande cespo di violacciocca è fiorito sul ciglio della famosa strada a scorrimento veloce, strada Aldo Moro, meglio nota come sopraelevata. Per giorni ne ho visto sfrecciare il colore acceso sul bordo dell’asfalto, stupefatta come di un’apparizione. Fiori che si possono veder passare, ma osservare e fotografare soltanto da molto molto lontano.

Andar per agli

Allium triquetrum

Allium triquetrum

Gli agli sono abbondantemente fioriti in questa stagione sui bordi e negli angoli delle strade. Il genere  Allium, famiglia della Amaryllidaceae, è rinomato perchè molte specie sono usate in cucina come verdure aromatiche, per esempio A.cepa, cipolla, A. sativum, aglio propriamente detto, A.porrum, porro e A.ascalonicum, scalogno. Siccome se ne consumano i bulbi, occorre evitare che vadano in fiore. Così non siamo abituati a vedere i fiori dell’aglio e quando si incontrano sul bordo della via e nelle aiuole in aprile magari neppure si riconoscono. Eppure alcuni agli hanno fiori così vistosi da essere coltivati nei giardini.

Allium neapolitanum

Allium neapolitanum

I fiori degli agli da strada sono aggraziati, candidi o appena rosati, disposti in dense ombrelle,  inizialmente avvolte da spire papiracee dette spate. Ecco per esempio qui sopra Allium triquetrum che sfoggia bianche campanelle, e poi il comune, ma nobile, Allium neapolitanum, e  Allium roseum, che ho visto in fioritura nella splendente aiuola spartitraffico della sopraelevata strada Aldo Moro(1).

Mi guardo intorno e ne vedo ovunque, ovunque c’è un incolto e un pezzetto di terra verde, in qualche scampolo di terzo paesaggio a cui non si fa caso quasi mai, tranne quando lo si scopre coperto di fiori bianchi.  Il terzo paesaggio non è solo fatto di grandi areee abbandonate dall’uomo, ma anche di piccoli spazi dimenticati, insignificanti per la disordinata attività umana, vitali per piccole piantine coraggiose.

Allium roseum

Allium roseum

Tutti gli agli sono specie commestibili e officinali dalle molteplici proprietà salutari, tutti hanno odore e sapore pungente, non gradito a molti. Così si racconta che chi si cibava di aglio per sfruttarne le virtù terapeutiche (si diceva curasse perfino la lebbra) era mantenuto a debita distanza per tutto il periodo della terapia. Ma le proprietà medicinali dell’aglio sono inconfutabili e mentre Allium sativum  è certamente il più ricco di componenti officinali, anche tutti gli altri agli grandi e piccini contengono le stesse sostanze benefiche.

Allium ampeloprasum

Allium ampeloprasum o A. polyanthum

Il porro selvatico, Allium ampeloprasum, che avevo incontrato lungo la strada circa un anno fa, è molto usato nei paesi asiatici e noto nelle Filippine con il nome di “Sibujing”. Ricco di micro e macronutrienti, viene considerato una medicina contro febbre, infezioni e infiammazioni, dolori della dentizione, gastrite, cancro e affezioni gastroduodenali e ne è stato proposto l’impiego  come ingrediente attivo di una bevanda salutare.
Un toccasana dall’odore acre non poteva che rappresentare un importante deterrente per persone ed eventi nocivi, così nasce la leggenda dell’aglio che allontana il malocchio, le invidie e la malasorte, e naturalmente anche i vampiri.
Se non avete a disposizione Allium sativum, forse basta un fiorellino  in tasca, è un buon talismano certamente a buon mercato e a disponibilità immediata, almeno in primavera.

(1)Nel tratto più a levante di questa strada, in prossimità della Foce, l’aiuola spartitraffico presenta moltissime crescite spettacolari;  purtroppo è molto complicato fotografarle perchè si tratta di una strada a scorrimento veloce che non offre spazio nè tregua. Le uniche immagini che per ora sono riuscita a fermare, di sfuggita e dall’alto, sono di piante che crescono ai margini o sui muraglioni; tuttavia danno l’idea della bizzarra ricchezza di un’area area vietata al pedone e regno incontrastato degli pneumatici.
Piante intorno alla sopraelevata:
Melia azedarach
Capparis spinosa
Ficus carica

Margherite dei muri

Erigeron karvinskianus

Erigeron karvinskianus
Lungotevere della Farnesina

Sono neofite invasive, più o meno naturalizzate  in varie regioni italiane. Se non le ho ricordate, qualche giorno fa, fra le erbe da muro tipiche cittadine, è perchè credo che meritino una collocazione di riguardo. Generose e aggraziate, quando sbocciano in cespi ricadenti di corolle bianco rosate, senza curarsi di intemperie e inquinamenti, a loro i muri devono molto.
Qui crescono sull’alto muraglione di Lungotevere della Farnesina, non lontano da ponte Sisto, e da via delle Mantellate. Siamo vicino a Trastevere, a due passi dall’orto botanico di Roma, uno dei giardini incantati da visitare una volta nella vita.

Erigeron karvinskianus

Erigeron karvinskianus
Genova Borgoratti

Il loro nome è cèspica, o meglio Erigeron, che significa più o meno ‘presto vecchio’, ed è il nome greco del senecio, perchè anche questa pianta ha pappi bianchissimi che maturano velocemente dagli effimeri fiori ed è un genere di asteracee americane che ha colonizzato anche il nostro continente. Non tutte sono altrettanto graziose; per esempio, non è molto bella la seppola, Erigeron canadiensis, particolarmente aggressiva negli ambienti degradati, anche se nota per i suoi utilizzi medicinali come antidiarroico nei paesi di origine. L’epiteto specifico di questa specie, karvinskianus, è dedicato all’esploratore e botanico Karwinski von Karwin (1780 -1855), che studiò la flora tropicale dell’America Centrale.

Queste margherite si trovano proprio su tutti i muri, resistente anche nella brutta stagione, come la sorella Erigeron annuus, come lei importata dall’America nel 18° secolo per adornare i giardini e similmente sfuggita alla coltivazione.

Asfodelo metropolitano

Asfodelo

Asphodelus fistulosus

Sul bordo della strada,  oltre una fitta recinzione, in un terrapieno abbandonato e addossati a un cancello industriale, mi sorprendono questi cespi di asfodelo, ormai sfioriti, gravidi di semi.
Il portale della flora di Roma dice che l’asfodelo fistoloso (Asphodelus fistulosus), specie che cresce in prati e pascoli aridi nella fascia mediterranea fino al mare, è presente nell’area metropolitana di Roma, rara, ma in rapida espansione. Quindi non c’è da stupirsi se la incontro anche qui, a Genova, lungo una via di collina periferica. L’asfodelo sta colonizzando le città.

Poco distante lo ritrovo in piena fioritura, con le corolle rivolte al pendio, che si negano al mio occhio fotografico. Se ne sta così addossato a una ringhiera arrugginita, sul ciglio di un piccolo parcheggio, sullo sfondo di modesti edifici al limite fra campagna e ciittà.  Pochi gli presteranno attenzione, nella sua breve stagione di fioritura.

Asfodelo

Asphodelus fistulosus

Non saprei come e quando sia arrivato fin qui, ma non ne sono stupita. In fondo si tratta di una pianta di poche pretese. Difficile che sia ‘sfuggita alla coltivazione’ perchè, benchè gli asfodeli siano utilizzati nei giardini, la loro fama maggiore è nei paesi che non li vedono crescere spontaneamente, cioè non nelle nostre regioni (1).

L’asfodelo è una pianta arcana. Il suo nome ci viene tramandato pari pari dal greco ἀσϕοδελος e sul significato gli esperti non sono affatto concordi. Tutti riconoscono nella “a” iniziale una “α” alfa privativa, ovvero una negazione. Secondo alcuni, dopo la negazione ci sarebbe la parola “σφάλλω sphállo” cadere, vacillare: che non vacilla che perdura, riferito alla sua resistenza. Etimologia che si può intepretare come ‘fiore che non si può rimpiazzare’ (1), definizione alquanto impegnativa per un esponente della famiglia della Liliaceae (oggi Asphodelaceae) tutto sommato modesto rispetto ad altri suoi parenti prossimi più blasonati. Poi ancora c’è l’etimologia proposta da Pignatti (e chi potrebbe smentire una personalità di tal fama), da “σποδός spodós” cenere e “ἔλος elos” valle, bassura ovvero “valle di ciò che non è stato ridotto in cenere”, che si riferirebbe alla particolare ecologia di queste piante. Secondo actaplantarum tuttavia, non sembra convincente il passaggio della consonante “p” (π pi greco) alla “ph” (φ fi). Insomma il vero significato di questo nome rimane avvolto dal mistero.

Asfodelo

Asphodelus fistulosus

L’asfodelo è una pianta magica, la pianta dei morti sacra a Demetra, la sposa di Plutone che gli antichi ponevano a ornamento e sollievo sulle tombe. Pianta dalle arcane virtù le sue radici bulbose dalla forma irregolare tenute in tasca si diceva facessero innamorare chi si desiderava.
Pianta dai forti contrasti, veleno e antiveleno, alcuni asfodeli hanno applicazioni medicinali, ma tutte le loro foglie vengono risparmiate dagli animali erbivori. Così delicato il fiore, eppure così grossolano l’aspetto dei cespi spogli e ruvidi, gravidi di capsule nere. Finita la fioritura, ben poca memoria rimane della sua algida bellezza.

Ho già incontrato questo fiore in città, o meglio la sua cuginetta gialla Asphodelina lutea.
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(1)Nicolini e Moreschi – Fiori di Liguria – SIAG – ca 1982

Erbe da muri

Muro a Borgoratti

Muro in via Borgoratti

Muro Ceterach officinarum

Ceterach officinarum

Umbiculus rupestris

Umbiculus rupestris

Che cosa cresce, si arrampica e fiorisce sui muri di città in primavera? Un po’ di tutto, per caso o per scelta, come su questo muro proprio sul ciglio di una trafficata strada cittadina. Fra le larghe foglie di malva e l’insopportabile parietaria, accanto a un ciuffo di ortica e a qualche magro grespino fiorito, scivola un Parthenocissus (vite americana), forse ricadente da qualche giardino.
I moderni progettisti di giardini verticali, costruiti mediante ingegnose impalcature e complicati congegni irriganti, si sono certamente ispirati alla stupefacente capacità di tutte le piante di ancorarsi e crescere con agilità sulle pareti.

Ci sono piante che vivono solo sui muri, come questa piccola felce della famiglia della Aspleniaceae, la cedracca (Ceterach officinarum, sinonimo di  Asplenium ceterach), che sporifica durante tutti i dodici mesi dell’anno e si incontra ovunque, sui muretti a secco che delimitano le ormai celebri “creuze”. E’ chiamata anche felce della ruggine (rustyback in inglese) o spaccapietre; ma questo nomignolo non si riferisce tanto alla sua predilizione per  connessioni e fessure dei sassi calcarei, dove il suo corto rizoma facilmente si accomoda, ma piuttosto alla sua efficacia  come rimedio contro i calcoli renali e per contrastare l’eccesso di ossalato che li provoca. Modesta pianticella dalle molte virtù, le sue parti aeree vengono usate anche per preparare tisane per curare l’pertensione e le infiammazioni del fegato.

Un’altra instancabile scalatrice, che ben si adatta anche sul cemento moderno, è una piccola crassulacea nota come ombelico di Venere (Umbilicus rupestris), nome che deriva certo dalla fossetta centrale che presentano le sue foglie proprio sopra l’attaccatura del picciolo. Però in dialetto savonese questa pianta si chiama ‘gobetto’, come dire che le forme della natura possono suggerire immagini contrastanti. All’inizio della primavera, l’ombelico mette in scena i suoi fiori, disposti a fitto grappolo lungo lo stelo.  E’ curioso, sugli stessi muri, se più umidi, cresce anche il capelvenere (Adiantum capillus-veneris), un’altro attributo della divina bellezza.

Hyoseris radiata

Hyoseris radiata

Fumaria capreolata

Fumaria capreolata

Fra pietra e pietra si incontrano anche piante inaspettate, erbe da prato, per intenderci.  Come questo radicchio (Hyoseris radiata), ottimo nelle insalate e nelle zuppe, che in Toscana si chiama trinette, e non occorre spiegare perchè. Le foglie sono inconfondibili, stracciate in segmenti a dente, che tendono a sovrapporsi. Radicchio, ma non cicoria (Cichoria intybus), che il fiore ce l’ha azzurro, o molto raramente rosa. Anche se i fiori non contano perché quando la pianta è fiorita, le foglie non sono più buone a nulla. Questo radicchio ha un fiore giallo, singolo sullo stelo come il tarassaco, ma più esile di quello.

Ecco la fumaria bianca (Fumaria capreolata), insolita papaveracea dai fiori delicati e dalle foglie grigiaste (da cui il nome). I fiori, solo apparentemente fragili e impalpabili, in alcuni dialetti sono chiamati ‘chicchi di riso’ o addirittura ‘panetti’. Come sua sorella, Fumaria  officinalis, che ha fiori  più scuri di una bel rosa carico, era una pianta molto ricercata per le sue  virtù curative (da usare tuttavia con prudenza perchè entrambe contengono un velenoso alcaloide, la fumarina). Insieme a tante altre piante ‘magiche’, è ormai finita fra le erbe spazzatura.

Ci sono fiori vistosi che i muri li scelgono per vocazione, prima fra tutte la generosa bocca di leone, che è difficile convincere a crescere in campo aperto. Così per estro o per necessità,  si compongono composizioni floreali degne dei giardinieri più attenti.

Muro

Antirrhinum majus
Sedum palmeri
Sedum dasyphyllum

Nobile ed eretta la florida bocca di leone ha conquistato anche qui il suo pugno di terriccio per vivere, contornandosi di borracine coltivate e spontanee. Esuberante nel giallo, la classica borraccina di Palmer (Sedum palmeri) è una pianta che non manca mai su balconi e terrazzini, capitata certo per caso anche su queste pietre incostudite. Quasi invisibile perchè non è ancora fiorita, la timida borracina cinerea (Sedum dasyphyllum); ancora un poco e mostrerà i suoi deliziosi fiorellini bianchi a forma di stella con graziose antere che sporgono sulla sommità degli stami come perle rossicce. Questa borracina ha davvero abitudini assai frugali e vegeta tranquilla e tappezzante anche sui muri aridi, nelle fessure delle rocce, nutrendosi di qualche granello di terra e conservando gelosa tutta l’acqua che le serve nelle grigie foglie carnosette.

Centranthus ruber

Centranthus ruber

Tante e varie sono le piante che crescono sui muri, giardini verticali naturali. Ma nella mia città ce n’è una che domina tutto e colonizza ogni sasso e ogni parete e niente può fermare la sua esuberanza.

Centranthus ruber

Centranthus ruber

Fiorita da aprile a ottobre, la valeriana rossa. ha fiorellini piccoli, ma numerosi e raggruppati in densi corimbi, rosa acceso o rosso porpora, raramente anche bianchi.  Le sue foglie, verde carico, lucide, sembrano sempre giovani e fresche, anche in mezzo ai detriti. Mi ricorda quelle fanciulle delle favole, come Cenerentola, belle e pure e gioiose, nonostante le angherie e gli stenti a cui erano sottoposte. Bella nel fango e sempre nobile e liscia.

E’ una specie di ‘parente povera’ della più celebre valeriana officinale, di cui possiede tutte le proprietà. Più inselvatichita che spontanea, questa pianta viene utilizzata come ornamentale e ciò ne ha certamente aumentato la diffusione, grazie a una straordinaria resistenza e adattabilità. Cresce sui muri nuovi come sui ruderi, spunta sull’alto dei contrafforti di una strada scoscesa e incornicia il portone di un palazzo elegante, la nostra strada sarebbe assai meno colorata senza di lei. Anche se ne ho già parlato altrove, non potevo certo dimenticarla.

Passeggiando per Lucca

Mura di Lucca

Mura di Lucca
(Ornithogalum unbellatum)

Ornithogalum umbellatum

Ornithogalum umbellatum
Bellis perennis

In altri tempi e altre primavere, questa sarebbe stata la stagione per una piacevole visita alla città di Lucca e alle sue mura, in occasione dell’usuale mostra mercato di piante e fiori. Qualche anno fa passeggiavamo sui bastioni, sotto tigli e bagolari ancora spogli, stupiti di contemplare la semplice bellezza dei fiori di campo che sbocciano sul pendio erboso. Tanto comuni e modeste quanto ammirevoli sono le pratoline, Bellis perennis, che in nessun luogo e da nessuna parte si fanno mai desiderare. Accanto, a cespi generosi, sbocciano gruppi compatti di piccoli gigli bianchi, dal curioso nome di latte di gallina (proprio così) o meglio Ornithogalum umbellatum.

Proprio gigli non sono, essendo la famiglia quella delle Asparagaceae, che comprende anche monocotiledoni commestibili, e non sono certo fioriture rare, anche se la stagione e l’habitat è più ristretto di quello delle pratoline.
Passeggiando per Lucca, in una mattina di aprile, gli incontri botanici sono tanti e diversi, ma è ancora un’altra asparagacea a incrociare la mia strada, Muscari neglectum (o forse botroydes).
Il suo vistoso ciuffo di corolle azzurre, dalla singolare forma a cilindretto ovale segnava, secondo la tradizione, e ovviamente insieme a molti altri fiori, l’inizio della primavera. Qui sbocciava slanciata, circondata dai verdi trifogli di Medicago lupolina.

Muscari neglectum

Muscari neglectum


Anche il Muscari è un genere commestibile. Il più celebre è il Muscari comosum, spesso riferito come Leopoldia comosa, che tuttavia sembra essere sinonimo, e più conosciuto come lampascione o cipollaccio, uno dei più antichi bulbi ad essere consumati fin dall’antichità. Certamente anche questa falsa cipolla, negletta o ignorata per antonomasia, può essere mangiata (previa cottura, talvolta si legge), certamente non quando è in fiore, certamente non estirpandola da un’aiuola urbana.