Boschi suburbani

Bosco suburbanoSono sempre alla ricerca di qualche brandello di bosco non troppo lontano da casa e poiché abito veramente in periferia, qualcuno la definirebbe perfino ‘campagna’, nei boschi mi immergo non appena possibile. Ma lungo le stradine secondarie e i tratturi che si allontanano, ma non troppo, dall’attività umana, a volte faccio incontri singolari. Mi chiedo quale messaggi comunichi un frigorifero abbandonato in mezzo al sentiero, all’ombra di carpini e castagni. Pigrizia? Sciatteria? Disprezzo per la natura? Sono stupita, è certamente più faticoso portarlo fino a qui che a uno dei civici punti di ritiro per i rifiuti ingombranti. Sembra invece che, costi quello che costi, l’uomo debba lasciare sempre la traccia, sporca, pesante, del suo passaggio.

Bosco suburbano

Ruscus aculeatus

La natura resiste e contrattacca con la sua fiera bellezza. Anche nel cuore dell’inverno contrappone le sue nitide forme pulite allo scempio della spazzatura. Il pungitopo (Ruscus aculeatus) ha punteggiato il bosco spoglio di lucide perle rosse e non si lascia certamente intimidire da questo sordido resto della cosiddetta civiltà umana. Perché se è indubbio che le latrine rappresentino un importante conquista per l’organizzazione sociale, abbandonare la ceramica usata nel magico sottobosco semi dormiente di gennaio non è propriamente un gesto di grande eleganza. Che bel contrasto quelle bacche scarlatte con l’insipido candore di un vecchio manufatto umano.

Per piacere, non fotografate gli epilobi

Sul margine delle creuze vicino a casa, fra campagna e città, sbocciano caparbi fiorellini tardivi, o forse solo in ritardo. Creuze molto asfaltate, ma pur sempre creuze, costellate di cancelli chiusi e presidiate da cani molto solerti. Il cane non sa tacere e denuncia la mia presenza sempre. Faccio finta di niente, accelero il passo.

Epilobium hirsutum

Epilobium hirsutum

Ma poi invariabilmente c’è un fiore che attira la mia attenzione. In fondo sono qui per questo, per osservare e immortalare i fiori, anche e soprattutto quelli semplici e randagi. La macchina fotografica è ancora nello zaino, forse l’ho appena riposta, ma eccola di nuovo pronta all’inquadratura migliore, o almeno la meno peggio.

L’epilobio irsuto è una pianticella slanciata e modesta, presente dappertutto in Italia, vicino ai fossati e ai ruscelli, ovunque dove scorre una vena d’acqua. Non ha nulla della sfacciata eleganza di altri epilobi, l’epilobio a foglie sottili, l’epilobio di Dodonaeus o a foglie di rosmarino e l’alpino epilobio di Fleischer, specie protetta. Tutti e tre questi nobili parenti sono stati trasferiti nel genere Chamaenerion, diventando rispettivamente Chamaenerion angustifolium, C.dodonaei e C. fleischeri. L’irsuto no, è rimasto Epilobium, nome che deriva dalla fusione di tre radici greche e significa che il fiore (violetta) sta sopra al frutto e credo derivi dal fatto che questo fiore, come tutte le onogranaceae, ha ovario infero.

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Il cane continua ad abbaiare, anzi ora sono due, si rincorrono oltre la cancellata, saltano e mi puntano con aggressività. Anche loro sono qui per questo. Al terzo scatto, la cagnara allerta la padrona che si affaccia guardinga dalla porta di casa e poi esce decisa verso il cancello. Dapprima sembra scusarsi, si sorprende che io stia fotografando i fiori, neppure i fiori di casa sua, dei volgarissimi fiori di strada. Cerco di essere cordiale, di renderla partecipe dei miei interessi. Ma niente da fare. Mi liquida con un “Beh sa, quando si vede una macchina fotografica, uno si allarma un po’ “. Allora sbotto “E’ una macchina fotografica, mica una mitragliatrice.” Che di questi tempi non sarebbe neppure tanto esotica.

E mi allontano, non senza bofonchiare qualche inutile rimostranza sul fatto che quando uso con il cellulare nessuno si scompone o preoccupa. Per fortuna la Reichardia, esuberante colonizzatrice di sterrati e orli di muretti, l’avevo già fotografata.

Leccio di campagna e leccio di città

Leccio

Quercus ilex

Sul bordo del bosco ho incontrato un germoglio di foglie nuove e verdi che riconosco come un piccolo leccio. Quercus ilex, la più comune delle querce sempreverdi mediterranee, viene ampiamente utilizzato e sfruttato nel verde metropolitano. Qui dove la città finisce, ai confini di quel verde suburbano che non è più prigioniero ma neppure completamente libero, nel versante settentrionale che al mare volta le spalle, i lecci non vengono dal bosco, ma dalla città. Grandi lecci di fronte ad ogni chiesa, a Bavari, punta di valico, di fronte alla chiesa di San Giorgio, un albero possente fa ombra a tutto il sagrato, così come a Montesignano, quartiere popolare per niente campestre.

Leccio Bavari

Quercus ilex
chiesa di San Giorgio di Bavari

Scendendo più giù, verso il centro della città, nei giardini pubblici di piazza Martinez di fronte alla chiesa di San Fruttuoso, sono sempre i lecci a bordare i marciapiedi, più piccoli e dimessi perché probabilmente sottoposti a incessanti quanto impietose potature. Altri viali di lecci ornano le periferie, fra palazzoni e centri commerciali.
Albero solido, a volte imponente, severo, resiliente, coriaceo come la sue foglie, il leccio non è mai bello. La sua scorza è ruvida, il suo verde è oscuro e le sue foglie cadute sono polverose e rigide. Non potrebbe essere altrimenti per sopportare il nostro clima mediterraneo, asciutto e intensamente soleggiato, e anche l’aria pesante e torrida della città.

Leccio piazza Martinez

Quercus ilex
piazza Martinez

Un’altra quercia mediterranea, la sughera, sa farsi prediligere e desiderare per la sua unicità, perché ha sviluppato uno strato di corteccia di eccezionale porosità e leggerezza che si presta agli usi più disparati. Invece il leccio, che cosa ha da dare? Null’altro che quell’ombra opaca che  dona sollievo dalla calura, ma non vera e propria frescura. Vero è che le sue piccole ghiande appuntite sono più appetibili di quelle delle altre querce. Dice il poeta Virgilio che prima dell’avvento dell’agricoltura (prima che ‘Cerere insegnasse ai mortali a rivoltar la terra con l’aratro’), la sacra selva forniva corbezzoli e ghiande, che certo venivano usate per farne farina, soprattutto le ghiande del leccio più dolci e meno astringenti. Si dice che nella Spagna quest’uso continuò fino a tempi relativamente recenti, ma i nostri antenati, si sa, avevano esigenze alimentari meno sofisticate e più schiette delle nostre.

Leccio Piazzale Bligny

Quercus ilex
Piazzale Bligny

Ora che i boschi costieri sono stati sterminati, il leccio sopravvive come inevitabile compagno di strada, torvo signore dei marciapiedi, aggrovigliato testimone delle lordure urbane.

Però come tutte le creature, anche quelle meno attraenti, i giovani virgulti, come i cuccioli, sono teneri e nobili. Il loro verde è brillante e luminoso, la loro scorza più morbida. Chissà se questo piccolo germoglio cresciuto fra essenze diverse, allori, carpini, robinie e pioppi, diventerà mai un albero. Ad arricchire e impreziosire un bosco che potrebbe tornare alle sue origini più genuine.

leccio ghiande

Quecus ilex
ghiande (10 novembre 2008)

Leccio fiori

Quercus ilex
fiori (28 aprile 2010)

 

Asfodelo metropolitano

Asfodelo

Asphodelus fistulosus

Sul bordo della strada,  oltre una fitta recinzione, in un terrapieno abbandonato e addossati a un cancello industriale, mi sorprendono questi cespi di asfodelo, ormai sfioriti, gravidi di semi.
Il portale della flora di Roma dice che l’asfodelo fistoloso (Asphodelus fistulosus), specie che cresce in prati e pascoli aridi nella fascia mediterranea fino al mare, è presente nell’area metropolitana di Roma, rara, ma in rapida espansione. Quindi non c’è da stupirsi se la incontro anche qui, a Genova, lungo una via di collina periferica. L’asfodelo sta colonizzando le città.

Poco distante lo ritrovo in piena fioritura, con le corolle rivolte al pendio, che si negano al mio occhio fotografico. Se ne sta così addossato a una ringhiera arrugginita, sul ciglio di un piccolo parcheggio, sullo sfondo di modesti edifici al limite fra campagna e ciittà.  Pochi gli presteranno attenzione, nella sua breve stagione di fioritura.

Asfodelo

Asphodelus fistulosus

Non saprei come e quando sia arrivato fin qui, ma non ne sono stupita. In fondo si tratta di una pianta di poche pretese. Difficile che sia ‘sfuggita alla coltivazione’ perchè, benchè gli asfodeli siano utilizzati nei giardini, la loro fama maggiore è nei paesi che non li vedono crescere spontaneamente, cioè non nelle nostre regioni (1).

L’asfodelo è una pianta arcana. Il suo nome ci viene tramandato pari pari dal greco ἀσϕοδελος e sul significato gli esperti non sono affatto concordi. Tutti riconoscono nella “a” iniziale una “α” alfa privativa, ovvero una negazione. Secondo alcuni, dopo la negazione ci sarebbe la parola “σφάλλω sphállo” cadere, vacillare: che non vacilla che perdura, riferito alla sua resistenza. Etimologia che si può intepretare come ‘fiore che non si può rimpiazzare’ (1), definizione alquanto impegnativa per un esponente della famiglia della Liliaceae (oggi Asphodelaceae) tutto sommato modesto rispetto ad altri suoi parenti prossimi più blasonati. Poi ancora c’è l’etimologia proposta da Pignatti (e chi potrebbe smentire una personalità di tal fama), da “σποδός spodós” cenere e “ἔλος elos” valle, bassura ovvero “valle di ciò che non è stato ridotto in cenere”, che si riferirebbe alla particolare ecologia di queste piante. Secondo actaplantarum tuttavia, non sembra convincente il passaggio della consonante “p” (π pi greco) alla “ph” (φ fi). Insomma il vero significato di questo nome rimane avvolto dal mistero.

Asfodelo

Asphodelus fistulosus

L’asfodelo è una pianta magica, la pianta dei morti sacra a Demetra, la sposa di Plutone che gli antichi ponevano a ornamento e sollievo sulle tombe. Pianta dalle arcane virtù le sue radici bulbose dalla forma irregolare tenute in tasca si diceva facessero innamorare chi si desiderava.
Pianta dai forti contrasti, veleno e antiveleno, alcuni asfodeli hanno applicazioni medicinali, ma tutte le loro foglie vengono risparmiate dagli animali erbivori. Così delicato il fiore, eppure così grossolano l’aspetto dei cespi spogli e ruvidi, gravidi di capsule nere. Finita la fioritura, ben poca memoria rimane della sua algida bellezza.

Ho già incontrato questo fiore in città, o meglio la sua cuginetta gialla Asphodelina lutea.
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(1)Nicolini e Moreschi – Fiori di Liguria – SIAG – ca 1982

Erbe da muri

Muro a Borgoratti

Muro in via Borgoratti

Muro Ceterach officinarum

Ceterach officinarum

Umbiculus rupestris

Umbiculus rupestris

Che cosa cresce, si arrampica e fiorisce sui muri di città in primavera? Un po’ di tutto, per caso o per scelta, come su questo muro proprio sul ciglio di una trafficata strada cittadina. Fra le larghe foglie di malva e l’insopportabile parietaria, accanto a un ciuffo di ortica e a qualche magro grespino fiorito, scivola un Parthenocissus (vite americana), forse ricadente da qualche giardino.
I moderni progettisti di giardini verticali, costruiti mediante ingegnose impalcature e complicati congegni irriganti, si sono certamente ispirati alla stupefacente capacità di tutte le piante di ancorarsi e crescere con agilità sulle pareti.

Ci sono piante che vivono solo sui muri, come questa piccola felce della famiglia della Aspleniaceae, la cedracca (Ceterach officinarum, sinonimo di  Asplenium ceterach), che sporifica durante tutti i dodici mesi dell’anno e si incontra ovunque, sui muretti a secco che delimitano le ormai celebri “creuze”. E’ chiamata anche felce della ruggine (rustyback in inglese) o spaccapietre; ma questo nomignolo non si riferisce tanto alla sua predilizione per  connessioni e fessure dei sassi calcarei, dove il suo corto rizoma facilmente si accomoda, ma piuttosto alla sua efficacia  come rimedio contro i calcoli renali e per contrastare l’eccesso di ossalato che li provoca. Modesta pianticella dalle molte virtù, le sue parti aeree vengono usate anche per preparare tisane per curare l’pertensione e le infiammazioni del fegato.

Un’altra instancabile scalatrice, che ben si adatta anche sul cemento moderno, è una piccola crassulacea nota come ombelico di Venere (Umbilicus rupestris), nome che deriva certo dalla fossetta centrale che presentano le sue foglie proprio sopra l’attaccatura del picciolo. Però in dialetto savonese questa pianta si chiama ‘gobetto’, come dire che le forme della natura possono suggerire immagini contrastanti. All’inizio della primavera, l’ombelico mette in scena i suoi fiori, disposti a fitto grappolo lungo lo stelo.  E’ curioso, sugli stessi muri, se più umidi, cresce anche il capelvenere (Adiantum capillus-veneris), un’altro attributo della divina bellezza.

Hyoseris radiata

Hyoseris radiata

Fumaria capreolata

Fumaria capreolata

Fra pietra e pietra si incontrano anche piante inaspettate, erbe da prato, per intenderci.  Come questo radicchio (Hyoseris radiata), ottimo nelle insalate e nelle zuppe, che in Toscana si chiama trinette, e non occorre spiegare perchè. Le foglie sono inconfondibili, stracciate in segmenti a dente, che tendono a sovrapporsi. Radicchio, ma non cicoria (Cichoria intybus), che il fiore ce l’ha azzurro, o molto raramente rosa. Anche se i fiori non contano perché quando la pianta è fiorita, le foglie non sono più buone a nulla. Questo radicchio ha un fiore giallo, singolo sullo stelo come il tarassaco, ma più esile di quello.

Ecco la fumaria bianca (Fumaria capreolata), insolita papaveracea dai fiori delicati e dalle foglie grigiaste (da cui il nome). I fiori, solo apparentemente fragili e impalpabili, in alcuni dialetti sono chiamati ‘chicchi di riso’ o addirittura ‘panetti’. Come sua sorella, Fumaria  officinalis, che ha fiori  più scuri di una bel rosa carico, era una pianta molto ricercata per le sue  virtù curative (da usare tuttavia con prudenza perchè entrambe contengono un velenoso alcaloide, la fumarina). Insieme a tante altre piante ‘magiche’, è ormai finita fra le erbe spazzatura.

Ci sono fiori vistosi che i muri li scelgono per vocazione, prima fra tutte la generosa bocca di leone, che è difficile convincere a crescere in campo aperto. Così per estro o per necessità,  si compongono composizioni floreali degne dei giardinieri più attenti.

Muro

Antirrhinum majus
Sedum palmeri
Sedum dasyphyllum

Nobile ed eretta la florida bocca di leone ha conquistato anche qui il suo pugno di terriccio per vivere, contornandosi di borracine coltivate e spontanee. Esuberante nel giallo, la classica borraccina di Palmer (Sedum palmeri) è una pianta che non manca mai su balconi e terrazzini, capitata certo per caso anche su queste pietre incostudite. Quasi invisibile perchè non è ancora fiorita, la timida borracina cinerea (Sedum dasyphyllum); ancora un poco e mostrerà i suoi deliziosi fiorellini bianchi a forma di stella con graziose antere che sporgono sulla sommità degli stami come perle rossicce. Questa borracina ha davvero abitudini assai frugali e vegeta tranquilla e tappezzante anche sui muri aridi, nelle fessure delle rocce, nutrendosi di qualche granello di terra e conservando gelosa tutta l’acqua che le serve nelle grigie foglie carnosette.

Centranthus ruber

Centranthus ruber

Tante e varie sono le piante che crescono sui muri, giardini verticali naturali. Ma nella mia città ce n’è una che domina tutto e colonizza ogni sasso e ogni parete e niente può fermare la sua esuberanza.

Centranthus ruber

Centranthus ruber

Fiorita da aprile a ottobre, la valeriana rossa. ha fiorellini piccoli, ma numerosi e raggruppati in densi corimbi, rosa acceso o rosso porpora, raramente anche bianchi.  Le sue foglie, verde carico, lucide, sembrano sempre giovani e fresche, anche in mezzo ai detriti. Mi ricorda quelle fanciulle delle favole, come Cenerentola, belle e pure e gioiose, nonostante le angherie e gli stenti a cui erano sottoposte. Bella nel fango e sempre nobile e liscia.

E’ una specie di ‘parente povera’ della più celebre valeriana officinale, di cui possiede tutte le proprietà. Più inselvatichita che spontanea, questa pianta viene utilizzata come ornamentale e ciò ne ha certamente aumentato la diffusione, grazie a una straordinaria resistenza e adattabilità. Cresce sui muri nuovi come sui ruderi, spunta sull’alto dei contrafforti di una strada scoscesa e incornicia il portone di un palazzo elegante, la nostra strada sarebbe assai meno colorata senza di lei. Anche se ne ho già parlato altrove, non potevo certo dimenticarla.