In un piccola aiuola ai piedi dei grattacieli, in via di Francia, cresce un albero di Ginkgo biloba, il fossile vivente, specie relitta. Altre pianticelle lo accompaganno, un osmanto, un pruno. Ma è il ginkgo che domina, nonostante le potature. L’ho osservato in tutte le stagioni, nell’inverno spoglio e all’inizio della primavera. Adesso, nel fuoco polveroso dell’estate, le sue preistoriche foglie sovrastano i simboli del nostro presente, o di un passato molto più vicino, come una cabina telefonica.
L’immortalità insegue il gingko come una persecuzione. Albero antichissimo, imparentato con le conifere o gimnosperme senza fiori, la sua origine si perderebbe nella notte di 250 milioni di anni fa. Considerato estinto per secoli, è invece sopravvissuto, si dice, grazie a monaci buddisti, e battezzato Ginkgo dai botanici del settecento, ma per un errore di trascrizione del nome orientale. Ritorna in voga ai nostri giorni, quando gli esseri strani e misteriosi possono avere molto successo.
E’ un albero avvezzo alle resurrezioni. Un bell’esemplare nell’orto botanico di Lucca porta una targa con due date di nascita, 1880 e 1950, quando fu colpito da un fulmine e dato per morto. Invece la morbide foglioline bilobate rispuntarono dal moncone e presto l’albero tornò alto e florido.
Specie dioica, porta strutture riproduttive maschili e femminili su piante separate e per lo più si incontrano esemplari maschili, perchè le femmine hanno fama di imbrattare nasi e strade con gli involucri puzzolenti dei semi. A parte questo inconveniente, è ormai una pianta comune nell’arredo urbano in tutto il mondo, perchè il fogliame è molto attraente, e vira al giallo brillante in autunno, prima di cadere (vedi anche 22 novembre 2008).
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