Il gigaro è una calla selvatica, una piantaccia velenosa ed infestante con foglie a forma di freccia, di un bel verde intenso, spesso maculate di bianco. Il mio giardino è costellato dei suoi tuberi, di ogni dimensione e profondità. Ogni inverno mi impegno molto ad estirparli, scavando alla ricerca del rizoma senza grande successo; nella maggior parte dei casi strappo la foglia, e il suo gambo, senza riuscire a sradicare un bel niente. Così, a primavera, qualche fiore di gigaro spunta fuori, non privo di un fascino un po’ inquietante.
I fiori veri e propri sono molto piccoli e crescono alla base di una colonna, detta spadice, di color giallo arancio parzialmente racchiusa in un cappuccio. Questo è la spata, la parte appariscente del fiore, lunga fino a 40 centimetri. La magia di questa composizione floreale sta nel fatto che certi insetti, principalmente ditteri, cioè mosche, vengono intrappolati alla base della spata e si riempiono di polline; più tardi sfuggono, permettendo così l’impollinazione incrociata quando resteranno intrappolati in un altro fiore. Maturano così i frutti, bacche disposte a spiga, prima verdi, poi rosso arancio.
E’ tutto velenoso. Le lucide foglie astate, le infiorescenze, i bianchi cappucci, e naturalmente le bacche. Ci mette in guardia Primo Boni1, che lo chiama anche pan di serpe, e non manca di indulgere in particolari abbastanza agghiaccianti sugli effetti dell’intossicazione, nel caso un ignaro bambino, tentato da forme e colori così seducenti, se ne metta in bocca qualche pezzetto.
Il gigaro cresce dappertutto e le sue foglie alla fine dell’autunno formano cespi lucenti nei giardinetti sui prati spogli.
Primo Boni, Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche, Edizioni Paoline, 1977