Storia di una stagione misconosciuta
Dove si narra di due ragazzi che non conoscevano la primavera.
Nel paese dove Assim era nato non c’erano molti alberi. C’era tanta sabbia e un largo fiume sonnolento dove le vacche si andavano ad abbeverare, dopo aver mordicchiato l’erba e le foglie degli scarni cespugli lungo la riva. Il sole era molto caldo, di giorno, fermo e implacabile, anche se ad Assim sembrava semplicemente il sole. La notte era fresca, si sarebbe detto fredda, ma per Assim quella era la notte. Stelle scintillanti bucavano il cielo, d’agosto come di gennaio. Edson, invece, era nato in un paese dove gli alberi erano tanti, lussureggianti e grandiosi, un intrico umido e brulicante di vita grande e piccola, verde che più verde non si può, per dodici mesi all’anno.
Assim era arrivato su una barca in una piccola isola luccicante e brulla e poi aveva conosciuto altre isole, finchè il mare era finito ed erano molti mesi che non lo vedeva più. Edson era arrivato con l’aereoplano. All’aereoporto lo aspettava la mamma, tenendo un grande cartello con il suo nome, perché altrimenti non si sarebbero riconosciuti. Fuori l’aria della città era così fredda che tagliava la pelle come una lama.
Ora Edson e Assim abitavano in campagna e andavano al lavoro a piedi, lungo una carrozzabile fiancheggiata da campi e boschi. Durante l’inverno, la neve era stata una bella sorpresa. Ma lo stupore e il divertimento erano durati poco perché quella poltiglia bianca, compatta e gelata, si era sciolta velocemente in rivoli fangosi, scoprendo il grigio pallido della terra brulla. Giorno dopo giorno, né sabbia né verde, Edson ed Assim camminavano sul bordo della strada verso la fabbrica. Assim guardava i suoi piedi sul selciato. Edson dava calci ai sassi e ai legni. Gli alberi intorno alla strada erano nudi come scheletri, inghirlandati dalla galaverna. Fra il marciapiede e l’asfalto, erano imbrigliati ciuffi d’erba gialla, ma qua e là apparivano le minuscole stellarie, bianche, fragili e acquose, e gli occhi azzurri delle veroniche tappezzavano il bordo dei fossi.
Edson aveva dato un calcio a un sasso e quello era finito in un boschetto, sopra uno strato compatto di foglie secche, bucato dagli imbuti rosati dei crochi. “Oh Assim,” disse Edson, usando le parole di chi sa farsi capire anche da chi non parla la sua lingua “hai visto quei fiori?” “Sì, rispose Assim, chissà chi li avrà piantati.” Passarono oltre; ma dopo i crochi, fu la volta delle primule, mazzetti solari che squarciano la nebbia di febbraio, poi gli anemoni bianchi e le scille blu. Ai margini della carreggiata, si accalcavano groppi di violette e lungo i muri spuntavano i puntini giallo rosati della cimbalaria. Quei fiori erano piccole cose sperse nella campagna silenziosa, ma nel deserto del gelo, senza sforzi guadagnavano il primo piano. Poi arrivarono le aquilegie, le veccie e la lunaria viola, gli agli selvatici stellati, le clematidi e le ginestrine, e finalmente, semplici e regali quanto si conviene, le rose.
Intanto gli alberi avevano messo in scena qualche cosa di molto più spettacolare. Tutti quei ceppi che parevano morti si coprivano dapprima di piccoli bitorzoli e poi di morbidi fiori bianchi o rosa, di pendenti dorati, e di pennacchi verde pallido. Edson ora taceva, sorpreso, e Assim avrebbe voluto chiedere spiegazioni a qualcuno, ma non sapeva a chi perché nessuno sembrava essersi accorto di niente. Tutti andavano avanti per la loro strada come se nulla fosse, per lo più lamentandosi del freddo, o della pioggerellina insistente.
“Deve essere la primavera,” sentenziò infine Assim, mentre mangiava il panino della sua colazione “ne ho sentito parlare.”
La commessa del bar lo guardò divertita e poi starnutì vigorosamente. “Che stagione balorda,” disse “fa ancora un freddo cane, ma l’aria è già così piena di polline che mi lacrimano gli occhi tutto il giorno.”
“E’ proprio strana questa primavera”, pensava Edson, “fa splendere i fiori e gli alberi, ma fa piangere le ragazze.”