Euforbia catapuzia

 

Euforbia catapuzia

Euphorbia lathyris

C’è un’estranea in giardino e non sembra proprio un’erbetta gentile e digeribile. L’euforbia catapuzia però ha un bell’aspetto e un portamento altero e abbiamo deciso di lasciarla stare e osservarla per un po’. Sta crescendo bene, e prima o poi fiorirà. Appartiene alla famiglia delle Euphorbiaceae, piante belle e dannate, facilmente riconoscibili dal liquido biancastro e appiccicoso che sgorga alla rottura di una qualsiasi delle loro parti. Un lattice caustico, buono per estirpare porri e verruche e un tempo impiegato come purgante, tuttavia così potente  da poter causare esiti fatali se usato a sproposito. La leggenda vuole che il nome derivi da quello di un famoso medico, Euforbo, che con essa aveva curato il re Giuba della Numidia, fratello di Tolomeo e signore delle due Mauritanie. Non sappiamo se in questo caso la pianta era stata usata per uso esterno o interno, ma certamente la medicina moderna ne ha abbandonato l’impiego a favore di altri preparati meno aggressivi.
L’euforbia catapuzia è una pianta a ciclo bienne ed essendo comparsa nel giardino l’anno scorso, scomparirà quest’anno dopo la fioritura, salvo riseminarsi e ricomparire come pianta nuova. Originaria dell’Asia, si è da tempo stabilita come alloctona naturalizzata in Liguria, non molto comune, ma neppure rara, utilizzata come ornamentale e bene accetta negli orti perché sembra possedere la capacità di allontanare, con l’odore delle sue radici, le talpe dai coltivi.

Tutte le euforbie sono piante a loro modo straordinarie, a cominciare dalla superstar Euphorbia pulcherrima o stella di Natale che ho recentemente incontrato in tutto il suo splendore arboreo ai giardini Hanbury di Ventimiglia, fino all’imponente euforbia arborea, o la magnifica euforbia cespugliosa. Più discrete, ma non meno attraenti, euforbia cipressina, euforbia spinosa e euforbia mandorlo, invadenti e impudenti,  le più piccole, euforbia calenzuola e euforbia minore.

Cotognastro

Cotognastro - Cotoneaster dammeri

Cotoneaster dammeri

Il cotognastro è un piccolo arbusto dai fiori bianchi e dalle bacche rosse, che forma piccole siepi decorative. Appartiene alla famiglia della Rosaceae e i suoi frutti colorati ravvivano l’inverno.

Scrive Rosa Luxemburg in una lettera all’amica Sonja Liebknecht dal carcere di Breslavia nel dicembre 1917 (1):
“Avete raccolto un bel mazzo di bacche (…) rosaviolacee nello Steglitzer Park? (…) Nascoste sotto minute foglioline, potrebbero essere quelle del cotognastro; invero dovrebbero essere rosse, ma in questa tarda stagione sono già troppo mature, cominciano a guastarsi e spesso allora assumono un colore tra il rosso e il viola; le foglioline somigliano a quelle del mirto, sono piccole, appuntite all’estremità, sulla parte superiore sono di color verde scuro e di consistenza coriacea, mentre sulla parte inferiore sono ruvide.”

Cotognastro

Cotoneaster lacteus

Non trovo nulla da aggiungere a questa descrizione davvero accurata in cui penso di riconoscere la specie Cotoneaster dammeri che cresce anche nel mio giardino, quasi dimenticato in un angolino, ma sempre pronto a regalare le sue candide fioriture e colorati frutti. Altrettanto ricche di dettaglio sono le osservazioni di Rosa sulle altre bacche trovate dagli amici nel parco:
“Quanto alle bacche nere, potrebbe trattarsi di sambuco, i suoi frutti pendono in grappoli fitti e pesanti fra grandi foglie pennate e a ventaglio (…), oppure, più probabilmente si tratta di ligustro: dritte pannocchiette di bacche, slanciate e graziose, e foglioline verdi lunghe e sottili.”
Questo vivace interesse per il mondo vegetale sorprende un poco da parte da una donna che aveva votato la vita ad altre, ben più rigide e severe discipline, e che si rivela tuttavia un’osservatrice sensibile e appassionata.

Cotognastro - Cotoneaster lacteus

Cotoneaster lacteus

Più gentile e minuto dell’aggressiva piracanta, sua spinosissima parente, più rigido e coriaceo del silvano biancospino, magico abitante dei boschi, le numerose specie di cotognastro, con le loro piccole foglie tenaci e persistenti, si prestano non solo per piccole bordure, ma anche ad abbellire muri e rocce. Il nome Cotoneaster significa che ha foglie simili al cotogno, caratteristica tipica di alcune specie. Ma forse perché le foglie sono alquanto più minute e i frutti decisamente non commestibili, il nome italiano cotognastro ha quell’accento dispregiativo che la graziosa pianticella non meriterebbe.

Cotognastro

Cotoneaster horizontalis

Più morbido ed elegante del C.dammeri è il Cotoneaster lacteus, così detto a causa del colore biancastro non tanto dei fiori, ma anche del retro delle foglie. Originarie dell’Asia orientale, entrambe le specie non si trovano allo stato spontaneo in Liguria, anche se si sono naturalizzate in altre regioni italiane. Sono tuttavia  largamente utilizzate per l’arredo verde, anche nelle città.
Particolarmente decorativo è il C. horizontalis, originario della Cina, che si incontra naturalizzato e spontaneo anche in Liguria. L’esemplare della foto si trova nel parco della Burcina vicino a Biella.

(1)Rosa Luxemburg ‘Un po’ di compassione’ Adelphi 2007

Terebinto

Terebinto

Pistacia terebinthus
Monte Triggin ott 2002

Il terebinto è differente. E’ un bellissimo arbusto mediterraneo, ma d’inverno si spoglia. Così mentre mirti e olivi, i corbezzoli, gli alaterni e i ginepri verdeggiano nella macchia per tutto l’anno, e così anche il lentisco, che del terebinto è stretto parente (non solo della stessa famiglia, anacardiaceae, ma addirittura dello stesso genere, Pistacia), le foglie di questo alberello, lucide, ovali con il margine liscio e le nervature marcate, si stanno già colorando di rossiccio. Devo tornare nella macchia prima che il terebinto perda le foglie. Sui corti rametti, fitte eppure sparse, quasi smarrite, rimarranno ad annerire le bacche rosse.

Terebinto

Pistacia terebinthus
Castelvecchio di Rocca Barbena sett 2022

Non è una stranezza. Il suo parente più celebre Pistacia vera, quello dai cui semi si fa il famoso gelato, è ugualmente deciduo. Il pistacchio e il terebinto sono veri fratelli di sangue. Il terebinto, grazie al suo robusto apparato radicale che lo rende resistente alle avversità del clima, viene utilizzato come porta innesto del pistacchio commestibile e le due specie possono ibridarsi. Il pistacchio vero è una pianta coltivata, e non è chiaro se sia presente selvatica, o meglio inselvatichita, e comunque solo nelle regioni del Sud, soprattutto in Sicilia dove viene prodotto. Riporta Actaplantarum: “le piante di pistacchio coltivate in Italia sono esclusivamente individui femmina di P. vera innestati su P. terebinthus, impollinati da individui maschi di P. terebinthus o ibridi tra le due specie. Escludendo errori di identificazione o errori con residui di piante coltivate o con individui di P. terebinthus dotati di foglie più grandi (questi sono i casi registrati dall’Italia), le piante autentiche di P. vera trovate in natura possono provenire da scarti di potatura.”

La fotografia in alto, come quella che si trova in questa pagina, ove  si vede la differenza fra i due gemelli diversi, lentisco e terebinto, è stata scattata sul monte Treggin, entroterra di Sestri Levante, ottobre 2002. La seconda fotografia qui sopra è del settembre 2022, lungo la strada nei pressi di Castelvecchio di Rocca Barbena (SV), antico paese feudale della val Neva che conserva intatto l’ambiente medioevale.

 

Il rosmarino, una salvia incompresa

Rosmarino Salvia rosmarinus

Salvia rosmarinus
d’estate

Il rosmarino, una delle più note essenze aromatiche della cucina mediterranea, è una pianta incompresa. Rigogliosa ed elegante quando cresce ai margini dei viottoli in odor di mare, con il suo profumo saporito e le sue infinite virtù, è sempre richiestissimo, per pochi spiccioli, sui banchi ortofrutticoli, ma in pochi lo conoscono davvero.
Persino i botanici, tassonomi o meglio tassonomisti per intendersi, hanno dovuto ricredersi su di lui. Infatti recentemente, e anche grazie a studi di genomica, un riesame attento del genere Salvia ha operato una piccola rivoluzione. Il rosmarino, pur affine, non era incluso nel genere, che comprende circa 900 specie, di cui almeno 25 in territorio italiano. Però la sua somiglianza con le salvie locali, come Salvia officinalis, S. pratensis, S. verbenaca ed altre ancora, suggeriva una parentela importante e non più sottovalutabile, a meno di non estromettere dal genere Salvia centinaia e centinaia di salvie esotiche. E così il Rosmarinus officinalis  è diventato Salvia rosmarinus.

Rosmarino Salvia rosmarinus

Salvia rosmarinus

Ma per lui è cambiato poco. Tipico abitante del Mediterraneo, soggiace e gode dei capricci di questo clima, tenero e torrido, assolato e salmastro. Ha foglie persistenti, lucide e acuminate, e magici fiori di colore azzurro marino, da cui deriva appunto il suo nome. Tuttavia su di lui circolano incomprensibili leggende metropolitane. Per esempio che ‘il rosmarino non capisce l’inverno’ (1) oppure che ‘fiorisce d’estate’(2).

Nel mio giardino il rosmarino fiorisce fra dicembre e marzo, mentre la varietà strisciante aspetta la primavera. D’estate invece la pianta piomba in una specie di letargo, mentre le foglie coriacee resistono agli attacchi di ogni genere di bestiola vorace, sempre lucide e disponibili per intingoli e arrosti. Dicono che in un clima più fresco ed umido, se sopravvive ai freddi invernali, i fiori sboccino in tutte le stagioni, e anche, seppure eccezionalmente, d’estate.

Rosmarino falso

Westringia fruticosa

Oltre che aromatica, è una pianta ornamentale, e non sfigura mai in un giardino elegante.

Nei giardini urbani invece non ha mai avuto fortuna, salvo ormai lasciare il passo a qualche concorrente australiano di turno, Westringia fruticosa o falso rosmarino, che prospera nelle aiuole nostrane del nuovo centro commerciale di corso Sardegna a Genova, sorto sulle rovine del vecchio mercato ortofrutticolo. Ma della flora di questo nuovo giardino per gli acquisti parlerò un’altra volta.

 

 

(1)Titolo di un romanzo di Matteo Bussola, bestseller Einaudi 2022
(2)Serena Dandini  – Dai diamanti non nasce niente  – RCS 2012 pag 184

Croco autunnale

Croco autunnale

Crocus ligusticus
monte San Nicolao

Fra l’erba alta ormai ingiallita dei prati dell’entroterra che sa di montagna, sbocciano come stelle turchine i crochi autunnali. Questo fiore assomiglia tanto, troppo, alla pianta dello zafferano. Quella polvere d’oro, che imbiondisce e insaporisce il risotto, non solo colorata, ma anche saporita e benefica, perché contiene crocina, un antiossidante, si ricava dagli stimmi filiformi di un fiore, Crocus sativus, che di stimmi ne ha tre. Il nome di questa pianta deriva proprio dalla parola greca kròkos che significa filo. Spezia già nota in tempi antichissimi, descritta nel papiro di Ebers del 1550 a.C., il vero fiore delle zafferano è oggi soltanto coltivato e inesistente allo stato spontaneo. Il Crocus ligusticus, in precedenza chiamato Crocus medius e soprannominato anche zafferano ligure, è quello che si avvicina di più al C.sativus per il periodo della fioritura, l’aspetto e certe caratteristiche organolettiche, anche se di stimma ne ha uno solo, laciniato e piumoso, ed è molto meno aromatico e colorato dell’originale.

Crocus sativus

Crocus sativus

Io ho piantato i cormi di Crocus sativus nel mio giardino e ogni anno coloro debolmente un risotto o una pastasciutta con zafferano a chilometri zero. La foto a destra mostra uno dei miei fiori, un po’ timido nel nascondere i preziosi stimmi dietro i petali.

Tutti  i crochi (famiglia iridacee) hanno poi tre stami gialli ed è questo particolare che li distingue dal colchico (Colchicum, famiglia Colchicaceae), una pianta velenosa detta volgarmente ‘zafferano bastardo’, che di stami ne ha sei.

Colchico

Colchicum alpinum

 

 

Il Crocus ligusticus fiorisce da metà settembre a metà novembre e si incontra un po’ dappertutto in questa stagione sui monti liguri.  Li ho ritrovati in questi giorni sul monte San Nicolao, una vetta molto panoramica sopra il passo del Bracco nell’entroterra di Sestri Levante (GE), nella stessa zona dove già li avevo fotografati nel settembre 2002 , come si vede qui.

Gaura o fior d’orchidea

Gaura

Gaura
Oenothera lindheimeri

E’ arrivata nel giardino in sordina, quasi per caso, da una talea che mi ha regalato Andrea un mio giovane vicino, esperto e appassionato di piante. Gaura è il nome con cui è conosciuta, e apprezzata, in tutti i giardini e vivai, ma recentemente viene attribuita al genere Oenothera, famiglia Onagraceae. E’ poco esigente e molto elegante, tanto da meritarsi il soprannome di fior d’orchidea.
La denominazione della famiglia deriva da onagra, come era chiamata un tempo l’Oenothera, nomi dall’origine controversa, ma che potrebbero derivare da ὄνος, onos, che significa asino in greco, un po’ per quelle foglie lanceolate che tutte hanno e che assomigliano alle orecchie del dolce ciuchino, un po’ perché queste piante sono commestibili e probabilmente gradite agli erbivori come l’asino.
Piante americane, vengono da Texas e Louisiana, ma si adattano senza traumi al nostro clima, non temono né freddo, né siccità. Messa a dimora nell’aiuola più soleggiata da poco più di una settimana, mi regala già una affascinante fioritura, e molti fiori sta ancora preparando. Questa gaura ha fiori bianchi, ma si incontrano spesso varietà a fiori rosa o pallidamente violetti, tutti con la loro inconfondibile forma, tenue, aggraziata, perfetta.

I faggi della Barbottina

Barbottina 01

Fagus sylvatica

La foresta della Barbottina si trova all’interno della foresta demaniale del Colle del Melogno, sulle Alpi Liguri in provincia di Savona ed è considerata la più belle faggeta della Liguria e tra le più belle d’Italia. In questa stupenda foresta si trovano esemplari dell’altezza fino a 50 metri con un tronco ben formato, forte, eretto, elegante. Inoltre è una foresta viva. Da alcuni decenni riconvertita da ceduo (bosco che si riproduce da polloni) in fustaia (bosco che si riproduce da semi), si può dire che abbia raggiunto attualmente una struttura ‘disetanea’, dove cioè sono presenti alberi in differenti stadi di crescita.

Barbottina 02

Fagus sylvatica

Gli alberi di faggio sono come colonne. Il fusto cilindrico ha la corteccia chiara e liscia, macchiata dai licheni biancastri e verso il pedale dove è più umido ricoperta da cuscinetti di muschio. Sono alberi ideali per un abbraccio confortevole(1).
Secondo Peter Wohlleben (2), i faggi che crescono indisturbati sono capaci di amicizia e persino di alimentarsi a vicenda. Questo perché ogni individuo, anche il più piccolo e debole, è importante per il benessere del bosco. Non so se questo sia vero alla Barbottina, ma so che nel profondo di questa foresta si entra in un mondo a parte, totalmente dominato da loro, giganti verdi e il loro seguito, che mantengono un equilibrio magico, dalle possenti radici, che somigliano a mani che si aggrappano(3), fino alle eteree sommità della chioma accarezzata dal vento.

Sul faggio:
una pagina dedicata
28 luglio 2008
6 novembre 2009
21 aprile 2018

(1)Giuseppe Barbera, Abbracciare gli alberi – Mondadori pg.186
(2)Peter Wohlleben, La vita segreta degli alberi Macro 2016
(3)Libereso, il giardiniere di Calvino, un incontro di Libereso Guglielmi con Ippolito Pizzetti, Muzzio 1993

Erba Luisa

E’ fiorita di nuovo l’erba Luisa, anche se con questa pianta non è necessario aspettare i fiori per godere del suo profumo.

Erba Luisa Aloysia citrodora

Aloysia citrodora

Sono infatti le sue foglie, ruvide e lanceolate, vagamente somiglianti a quelle del pesco, che emanano l’intensissimo e gradevole odore di limone che le ha valso l’epiteto specifico di citrodora e diversi soprannomi, come limonina o citronella. Il profumo è avvolgente, non occorre neppure strofinare le foglie, neppure sfiorarle, per sentirlo.
Questa pianta, della famiglia della Verbenacee, è originaria dell’America centro meridionale, ed è emigrata, o meglio è stata deportata,  come molte altre in Europa ai tempi delle grandi esplorazioni e colonizzazioni. Il suo  nome vero Aloysia, così come quello comune, è un omaggio a Maria Luisa di Borbone-Parma, che fu per vent’anni, dal 1788 al 1818, regina consorte di Spagna, raffigurata in numerosi quadri di Francisco Goya.  L’erba si è acclimatata così bene in Liguria, ed è così comune in giardini e orti domestici, che avevo sempre pensato fosse una pianta autoctona. Il liquore di erba Luisa non mancava mai nelle case di campagna.

Ho ripreso questo post da quello del 14 settembre 2008, sono quattordici anni che il mio piccolo albero di Aloysia citrodora fiorisce nel mio giardino.

 

Il posto dei papaveri

Papavero

Papaver somniferum

Il papavero è tornato. Anzi, sono tornati in tre, vicino alla legnaia, nell’angolo dell’aiuola di fronte al forno a legna. Era già capitato qualche anno fa, una fioritura scarlatta e inaspettata. Si trattava allora come oggi di Papaver somniferum nella var. laciniatum, cioè con petali finemente frangiati. Il papavero da oppio è una delle droghe e dei farmaci più conosciuti dalla notte dei tempi e le sue gesta si intrecciano con quelle della civiltà umana. Nonostante la sua losca fama, si tratta di una bellissima pianta ornamentale i cui semi, che contengono dosi insignificante di alcaloidi dopanti rispetto al lattice, sono commestibili e utilizzati come spezia in molte ricette mediorientali.

Papavero

Papaver somniferum

Come sia arrivato nel mio giardino non lo so e neppure so se questa varietà sia classificabile da oppio, dato che esistono varietà ornamentali del Papaver somniferum assolutamente inadatte alla produzione di droga. Il papavero è una pianta infestante che si riproduce con estrema facilità, mi aspetto persino che si moltiplichi ancora, di vedermelo comparire in un gruppo affollato fra qualche anno.

papavero

Papaver somniferum

Però non raccoglierò i semi, e non soltanto perché la legge, ovviamente, vieta la coltivazione non autorizzata di questa specie. Non raccoglierò i semi perché mi piace pensare al papavero come a un incorreggibile vagabondo, che se avrà voglia di tornare nel mio giardino lo farà di sua spontanea volontà.

Papavero capsula

Papaver somniferum

Il merletto di tutte le corolle sarà presto disperso dal vento e le capsule, tondeggianti e spavalde, se ne staranno erette per qualche giorno sugli steli. Non so quanto dureranno e non ne disturberò la maturazione provando ad inciderle per vederne sgorgare  il magico lattice.
I microscopici semi bruni potranno disperdersi a loro piacimento, rimanere qui o lasciarsi trasportare lontano, per visitare altre case e altre vite, germogliando inaspettati in qualche giardino come hanno fatto nel mio, non so quanto riconosciuti e accolti. Per parte mia, spero di incontrarlo ancora in futuro.

Centonchio dei campi

Lysimachia arvensis

Il centonchio comune è una piccola pianta  che appartiene alla famiglia delle primulaceae. Scrivevo di lui il 29 maggio del 2009, nel vecchio blog,  ‘… un’erbetta infestante che fiorisce costante dalla primavera fino all’autunno, con microscopiche corolle di un fiammante rosso mattone. Visti da vicino, da molto vicino, i fiori sono appariscenti e figurerebbero senza dubbio fra specie ricercate come ornamento, se non fosse per le ridotte dimensioni (il diametro dei fiori arriva a malapena a un centimetro). Anche la piantina è ridotta, con fusti striscianti e morbidi, che si strappano e sradicano con estrema facilità, ma con altrettanta facilità germogliano di nuovo.’ Allora il centonchio si chiamava Anagallis arvensis, ma oggi il suo nome è cambiato ed è Lysimachia arvensis, anche se i fiorellini sono sempre loro, microscopici e fiammeggianti. Nei prati, ma anche negli incolti e negli orti, se ne incontrano a frotte, fuggevoli, ma tenaci, che si assomigliano tutti quanti, ma in realtà sono molto diversi.   Una sua parente, il centonchio azzurro, o bellichina azzurra, Anagallis …, pardon Lysimachia foemina, gode di miglior fama, forse a causa della sua rarità e dell’azzurro turchino delle sue corolle. Invece la bellichina comune, che cresce dappertutto, non merita molta considerazione. Richiede però una certa dose di attenzione perchè si mimetizza con disinvoltura in mezzo alle insalate fra le quali è nata e cresciuta; ma è velenosa e può causare intossicazioni alimentari. Io la trovo spessissimo in mezzo a qualsiasi cosa raccolga nell’orto. Non posso escludere di averla assaggiata per errore; sarà stata la modica quantità, non ricordo di aver avuto disturbi significativi. Sospetto che chi si è intossicato, piuttosto che dimenticarsi di toglierla dall’insalata, l’abbia scambiata per l’insalata.