Biscutella

Biscutella laevigata

Biscutella laevigata

Il suo nome, Biscutella, deriva dalla curiosa forma dei suoi frutti, siliquette rotonde, piatte, accoppiate come due piccoli scudi (latino bis, due e scutellum, piccolo scudo).

Biscutella leavigata

Biscutella leavigata

Se l’etimologia è lampante, non si può fare a meno di ricordarsene come ‘la pianta con i semi a forma di biscottino’, e non si dimentica più.
E’ una timida brassicacea gialla che cresce sui pendii montani, da cui il nome comune di biscutella montanina. Anche se pianta è esile e modesta, il giallo limpido dei suoi fiori non passa indisturbato, neppure in un pomeriggio ventoso ed umido, fiaccato infine da una sonora grandinata. Così l’ho incontrata nella foto a sinistra nella zona dei Piani di Praglia (Genova) in questa scombinata primavera.
Sempre nella stessa zona, qualche anno fa in maggio, avevo riconosciuto i lucidi biscottini che appaiono nella foto  sulla destra.
Questa pianta non ha proprietà particolari, ma come molte della sua famiglia è commestibile e si racconta che in Trentino i pastorelli ne mangiassero i fiorellini(1).

(1)Pedrotti G. & Bertoldi V. Nomi dialettali delle piante indigene del Trentino e della Ladinia dolomitica: presi in esame dal punto di vista della botanica, della linguistica e del folclore. Ed. Monauni –  Trento, 1930

Anemone dell’Appennino

Anemone apennina

Anemone apennina

L’anemone è il fiore del vento (in greco άνεμος, anemòs) perché, secondo Plinio, si credeva che dipendesse dal vento il potere di farlo sbocciare. Oppure semplicemente perché i suoi sottili petali sono impalpabili come la brezza. A questo fiore sono legate diverse leggende. Una è quella di Adone, bellissimo fanciullo di cui la dea Venere era pazzamente innamorata, e che fu ucciso da un cinghiale aizzatogli contro per gelosia da Marte. E mentre Venere piangeva la morte dell’amato, Giove suo padre ne trasformò le lacrime frammiste al sangue del moribondo in un fiore dai teneri colori. Ma il fiore dell’anemone è anche legato alla leggenda di Zefiro e della sua avventura amorosa con la ninfa Anemone, trasformata in vegetale dalla dea Flora, che era la moglie tradita dall’adultero.

Anemone apennina

Anemone apennina

Gli anemoni sono fiori stupendi ed effimeri, non solo perché le loro corolle sono fragili, ma perché la loro stagione dura uno spazio di tempo molto breve. Ne sorprendo una fioritura eccezionale nel meraviglioso parco di Palazzo Farnese a Caprarola (Viterbo).  Oltre i confini del percorso di pietra del parco, gli ampi prati verdissimi sono cosparsi di splendide fioriture. Fra ciclamini, bugole (Ajuga reptans) e consolide (Symphytum tuberosum), sbocciano distese di corolle bianche e azzurre che mi sorprendono per la loro forma. L’anemone dell’Appennino (Anemone apenina) è una specie non presente in Liguria e non l’avevo mai vista. Riconoscerla è quasi emozionante, con le sue frangiate foglie verdissime e le corolle così ricche e raffinate. Come quasi tutti gli esponenti della famiglia delle ranunculaceae, gli anemoni sono piante non commestibili e potenzialmente tossiche, perché contengono sostanze irritanti, seppur in qualche caso con impieghi medicinali. Una bellezza da gustare con gli occhi, quindi,  senza devastarla con nessuno degli altri sensi.

Il Palazzo Farnese di Caprarola è una delle più belle residenze rinascimentali d’Italia. La costruzione iniziale era una fortezza a pianta pentagonale e tale forma fu mantenuta quando l’edificio fu convertito in dimora aristocratico e riccamente affrescata.  Si dice che la forma di questo edificio ha ispirato la costruzione del Pentagono del Dipartimento Americano della Difesa.   Il palazzo e il parco sono ancora in restauro, grazie a un progetto finanziato dal PNRR, e chissà quando li potremo ammirare in tutta la loro magnificenza e bellezza.

vedi anche
Anemone coronaria
Le stagioni del bosco

Broussonetia kazinoki

Broussonetia x kazinoki

Broussonetia x kazinoki

Non conosco quasi nulla di questa pianta. Soltanto che è una Moracea, cioè della famiglia del fico e del gelso, e parente stretta di quel gelso da carta (Broussonetia papirifera) che non è difficile incontrare persino per strada, perché è rustica e cresce facilmente dappertutto (vedi 1 settembre 2009).
Questa broussonetia invece è un esemplare particolare ed è capitata nel mio giardino per caso, regalata da un amico appassionato di piante. Non so neppure bene come la devo chiamare, ma il suo nome corretto è probabilmente Broussonetia x kazinoki perché secondo quanto leggo in questa pagina dovrebbe essere un ibrido B.papyrifera appunto e B.monoica.

Broussonetia x kazinoki

Broussonetia x kazinoki

Dovrebbe (e mantengo il condizionale) essere di portamento arbustivo (il gelso da carta invece è un albero) ed essere anche lei un’essenza da carta, almeno nel suo paese di origine, Giappone ovviamente, dove viene chiamata Kōzo.

Broussonetia x kazinoki

Broussonetia x kazinoki

Ha passato l’inverno in un vaso del mio giardino e ha perso tutte le foglie. Poi sui rami spogli hanno cominciato a comparire singolari infiorescenze di diverso tipo, che interpreto come fiori maschili e femminili su una pianta monoica (che contiene cioè sullo stesso esemplare fiori di entrambe i sessi). Adesso  lentamente, si cominciano ad aprire anche le foglie, a lobi grossolanamente triangolari. Ma quando, e se, diventerà un cespuglio, non sarà facile trovarle uno spazio e forse dovrò separarmene come è accaduto per altre essenze straniere.

Polmonaria

Polmonaria - Pulmonaria officinalis

Pulmonaria officinalis

Quest’erbetta, così simile alla borragine, ne condivide molte caratteristiche, la famiglia (boraginaceae), le foglie pelose e ispide, ma commestibili, e i fiori dolcissimi. Fiori differenti però, stellati e azzurri quelli della borragine (vedi nel vecchio blog 12 ottobre 2008), a calice, rosso viola fino al lilla azzurrato quelli della polmonaria. Inconfondibili sono le sue foglie ovali lanceolate, cosparse di macchie biancastre che per la credenza popolare rappresentano proprio i polmoni malati che l’erba aiuta a risanare. Da cui il nome e la fama.

Fiore della primavera, sboccia, si dice, quando comincia a cantare il cuculo la cui voce in ogni campagna e montagna annuncia che l’inverno è davvero finito. Non so quanto valga i questa pazza stagione, che alterna giorni caldissimi, quasi estivi, a raffiche di inverno disperato e nevicate fino dentro ad aprile. Ma le piante, quelle libere e spontanee dei boschi, non sembrano curarsene più di tanto, e fioriscono splendide e indomabili.

post ripreso dal 22 marzo 2010, con una foto un tantino migliore.

Ellebori da giardino

Ellebori

Helleborus orientalis
dal giardino di Flavia

La stagione degli ellebori è arrivata nel mio giardino, con una fioritura stupefacente e molte promesse. Il più grande, Helleborus orientalis, ha otto fiori candidi, doppi, con una timida punteggiatura. Tutti i fiori sono reclinati verso il basso e negano allo sguardo la magnificenza delle loro corolle, così che devo fotografarli di sotto in su, oppure costringerli con la violenza ad alzare il capo. Questa pianta è frutto di uno scambio con un’amica che di ellebori è attiva coltivatrice. Cresce rigogliosa all’ombra del calicanto  ormai da due anni, ma è la prima volta che fiorisce. Una seconda pianta, appena più piccola, Helleborus guttatus a base bianca, proviene dal magico Giardino degli Ellebori delle sorelle Barbaglia a Pietra Ligure ed è arrivato già fiorito l’anno scorso.  Le sorelle Anna e Carla Barbaglia curano dal 1970 una National Collection di ellebori che è una delle più ricche del mondo. Le ragazze si erano appassionate a questi fiori seguendo la tradizione della madre, californiana, che sempre per Natale confezionava corone celtiche con abete, vischio e rose di Natale, ovvero Helleborus niger.

Helleborus guttatus

Helleborus guttatus a base bianca
dal giardino delle sorelle Barbaglia

Gli ellebori sono piante perenni del sottobosco e almeno due specie spontanee si trovano assai facilmente nei boschi della Liguria, come ho già scritto in questo post. La loro fioritura invernale, quando la maggior parte dei fiori più appariscenti e soavi sono ancora lontani, li rende particolarmente ricercati. Sono piante che prediligono il fresco e la mezz’ombra e il luogo dove si trova il giardino delle sorelle Barbaglia non è esattamente un optimum per la loro crescita, perché si tratta di “un cottage garden (giardino orto frutteto) non troppo lontano dal mare, dal terreno sabbioso e dal clima caldo”. Eppure, scrivono, “con opportuni accorgimenti, gli ellebori vi prosperano magnificamente, dimostrando che in fondo si tratta di piante piuttosto adattabili”. A loro dire, l’unica specie che si è mostrata sempre recalcitrante alla fioritura è H.thibetanus, ma “bisogna capirlo, il suo habitat originale è a 4000metri di altezza”.
A casa mia si sono trovati bene e l’elleboro arrivato dal favoloso giardino mi allieta anche quest’anno con un fiore magnifico, e un secondo è già in preparazione.

Helleborus

Helleborus sp  – piantina di un anno

Gli ellebori producono molti semi, che germogliano in media dopo dieci mesi e molti nuovi getti spuntano facilmente nelle vicinanze. Alla fine della visita al Giardino degli Ellebori mi hanno regalato una manciata di minuscole piantine che ho curato facendo del mio meglio. Adesso, vicino alle due piante grandi, stanno crescendo altri cinque ellebori bambini. Le prime foglie sono quasi cuoriformi, molto differenti dalle grandi foglie dell’esemplare più adulto, che sono palmate e profondamente suddivise in segmenti sottili a margine dentato.
Secondo le indicazioni delle esperte sorelle, ci vorranno tre o quattro anni per vedere i primi fiori e sarà certamente una sorpresa.
L’elleboro mette a dura prova la pazienza del coltivatore, e la sua lunga latenza nella germinazione e fioritura la rende una pianta costosa. Sto cominciando ad imparare che la bellezza spesso si paga, ma se i soldi sono pochi, si deve avere tempo, molto tempo.

Alaterno

Rhamnus alaternus Alaterno

Rhamnus alaternus

L’alaterno fiorito mi viene incontro sul ciglio della strada di casa, una strada costeggiata da arbusti di macchia, e qualche roverella spoglia, una strada ripida e contorta, ma sempre solcata da un ininterrotto flusso di motori, auto, moto e furgoni, nella loro esasperante corsa verso urgenti e irrinunciabili destinazioni. Le piante sul margine della strada se ne stanno quiete a godersi l’avanzare delle stagioni. Hanno le foglie impolverate, stropicciate, ricamate con brandelli di ragnatele e qualche macchietta nera, parassita o catrame, alla base dei piccioli.  Ora la primavera regala mazzi di fiori chiari alle ascelle e subito anche le foglie sembrano molto più verdi e molto più belle.

Rhamnus alaternus Alaterno

Rhamnus alaternus

Della famiglia della Rhamnaceae, l’alaterno è uno dei protagonisti della macchia mediterranea e, insieme a un gruppetto di altre irriducibili, uno dei residui più autentici dell’antica macchia sempreverde subtropicale, quella che un tempo era dominata dai lecci. L’aspetto e il portamento è simile a quello di vari altri arbusti con cui condivide l’habitat, come l’ilatro comune (Philirrea latifolia), con cui potrebbe essere facilmente confuso. Ma non sono neppure parenti stretti, perché Philirrea è un olivastro della famiglia dell Oleacee e si distinguono immediatamente osservando la disposizione delle foglie, opposte sul ramo quelle dell’ilatro e alterne quelle dell’alaterno. Ed è persino facile ricordarlo per l’assonanza del nome della pianta con “alternus” ossia alternato, assonanza di cui, di dice, approfittò appunto Linneo per battezzare la specie.

L’alaterno è una pianta robusta, solida e schietta, non particolarmente attraente, ma neanche priva di fascino antico. Utile come siepe e frangivento, uno dei suoi nomi volgari, legno puzzo, ricorda come il suo legno, duro e bruno, emani al taglio un cattivo odore. Però ugualmente quel legno venne utilizzato per secoli per lavori di ebanisteria. Le bacche, che non sono certo appetibili e contengono anzi principi tossici, erano comunque un’antica medicina e tutte le parti della pianta vennero a lungo impiegate come coloranti.

 

 

Narciso

Narciso tazzetta

Narcissus tazetta

Racconta Ovidio nel suo poema ‘Metamorfosi’ che Narciso era un giovane di così bell’aspetto da suscitare passione in chiunque lo guardasse, ma così innamorato di se stesso da rifiutare le attenzioni di tutti i suoi spasimanti. Fra gli altri quelle della ninfa Eco che di lui si invaghì e, rifiutata, si ridusse solo ad una voce.  Narciso fu condannato a trascorrere il tempo contemplando il suo volto riflesso nell’acqua senza poter mai raggiungerlo. Sfinito e struggente si lasciò morire e venne in ultimo trasformato in un magico fiore bianco, il narciso. Questa doveva essere la sua punizione e maledizione; infatti per gli antichi i fiori erano simbolo di castità e lontananza dalle brame carnali perché erroneamente si riteneva che fossero privi di sesso. Al contrario sono proprio i fiori la sede dell’incontro amoroso nelle piante, e i narcisi, con le loro corolle vistose ed eleganti, hanno una vita sessuale vivacissima, come osserva Jonathan Silvertown nel suo libro La vita segreta dei semi (1).

Narciso trombone

Narcissus pseudonarcissus

Ancor prima che il Narcissus poëticus  ricopra di luce e oro le prateria Appenniniche, i suoi precoci parenti di varie specie e forme compaiono nelle aiuole dei giardini e sul bordo dei tratturi di campagna.  Lungo il sentiero dell’acquedotto storico di Genova, le raffinate corolle del narciso tazzetta (Narcissus tazetta) si nascondono all’ombra di qualche arbusto. Questo narciso deve il suo nome alla lucida paracorolla a forma di tazzina gialla.

Narciso provenzale

Narcissus pseudonarcissus L. subsp. provincialis
bosco della Neviera Grande, Taggia (IM)

E sul bordo del prato, sotto il peccio (Picea abies) e in mezzo al manto dei suoi aghi, spunta e sboccia ogni febbraio il trombone (Narcissus pseudonarcissus), che si chiama anche giunchiglia. Il nome comune deriva ancora una volta dalla forma della paracorolla, un tubo lungo il doppio del suo diametro, mentre il nome scientifico dovrebbe far pensare a un narciso non proprio autentico, probabilmente per confronto con il narciso per antonomasia, cioè N.poëticus. Il narciso trombone ha varie sembianze e ciò presuppone esistano diverse sottospecie. Una di queste, Narcissus pseudonarcissus subsp. provincialis, ovvero narciso provenzale, inizialmente descritta sulle prealpi francesi di Grasse, interamente giallo e di dimensioni minute, compare anche nei boschi di Taggia (IM) nei dintorni della Neviera Grande.

Narciso papiraceao

Narcissus papyraceus

Nei giardini Hanbury di Ventimiglia, uno dei più ricchi giardini botanici d’Italia, ho incontrato nel mese di gennaio la smagliante fioritura del narciso papiraceo (Narcissus papyraceus), a volte descritto come sottospecie di N.tazetta. La paracorolla in questo caso è bianca e la denominazione specifica suggerirebbe che più degli altri questa pianta presenta elementi di consistenza cartacea.

Tutti i narcisi, seppure di dimensioni contenute, hanno colori molto accesi, bianco e giallo, che mettono a dura prova l’esposizione fotografica e mi lasciano sempre un po’ delusa per la riuscita e messa a fuoco delle immagini. Bisognerebbe dedicare ai fiori più tempo e precisione, e comunque conservare le loro forme, nitide e brillanti, negli occhi della mente.

(1) Jonathan Silvertown, La vita segreta dei semi, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pag 33

Farfaraccio

Farfaraccio vaniglione

Petasites pyrenaicus

Come tutti gli anni, nello stesso posto, sul ciglio della strada, fiorisce, precoce e umile, il farfaraccio. Fra qualche cartaccia dimenticata, in mezzo alle foglie a forma di cuore, spuntano stelline bianco rosate e gemme delicate. Lo avevo già incontrato (8 marzo 2010) ai margini di questo boschetto in discesa, come sempre ingombro di rifiuti. Forse quest’anno è in anticipo, come molte altre fioriture; forse negli anni scorsi non l’avevo osservato così presto.  Questa pianta veniva chiamata Petasites fragrans, volgarmente ‘vaniglione’, probabilmente per distinguerlo da altri dall’odore meno gradevole; ma oggi gli viene attribuito con certezza l’epiteto specifico di pyrenaicus dalla sua regione di origine. Dalla Spagna ha colonizzato facilmente l’intero Mediterraneo, anche se in Liguria è ancora considerata alloctona naturalizzata.

Farfaraccio vaniglione

Petasites pyrenaicus

Oggi nel bosco le foglie del farfaraccio vaniglione sono piccoli cuoricini verdi e ordinati. Ma non è sempre così, perché talvolta le foglie di questa pianta possono assumere dimensioni ragguardevoli. Il suo nome deriva dalla parola ‘petasos’ che in greco significava un cappello a larghe tese. Infatti le ampie foglie, spesse e molto impermeabili, si prestano a diventare copricapi di fortuna per offrire riparo dalla pioggia.  Questo è vero soprattutto per quel farfaraccio comune, Petasites hybridus, le cui foglie possono raggiungere gli 80 cm di larghezza.

Petasites albus

La pianta, molto diffusa nelle sue varie specie, cresce in gruppi e forma colonie. Le foglie compaiono dopo i fiori e crescono addossate le une alle altre tappezzando completamente il terreno, come in questo giardino polacco. Non sembra quasi che quei delicati fiorellini, che si aprono sulla sommità di un robusto gambo, ornato di un’altra sorta di foglioline (brattee) rossastre, appartengano alla  stessa pianta delle larghe foglie. L’ho incontrato  anche nella versione  bianca Petasites albus, più in alto sui monti dell’Appennino (vedi 14 aprile 2009), con capolini disposti in dense spighe ovali. Si dice che alcune specie di Petasites siano commestibili, ma tutte, anche le meno appetibili, contengono principi officinali ed erano utilizzate come rimedio per vari disturbi, dalla tosse all’insonnia. Come spesso accade però in tutte le piante medicinali, sono presenti anche componenti tossici, e in particolare alcaloidi dannosi per il fegato.

Viburno

Viburno-tino

Viburnum tinus

Il viburno tino o lentaggine (Viburnum tinus) è una pianta spontanea dell’area mediterranea, sempreverde, variamente utilizzata anche per siepi e bordure. Cresce corimbi di fiorellini bianchi per tutto l’inverno, e bacche persistenti, velenose. Il suo nome, come anche il comune lentaggine, pare derivi dalla flessibilità dei rami, adatti a intrecci e legacci. La pianta ha comunque la durezza compatta degli arbusti mediterranei, rami legnosetti, foglie verde scuro, coriacee.

Viburno-tino

Viburnum tinus – bacche

Lo incontro durante una passeggiata domenicale lungo il sentiero dell’acquedotto storico di Genova, poco oltre il ponte di Cavassolo sul rio Canate. L’aria al mattino è frizzante, ma si scalda rapidamente al sole in un gennaio fin troppo mite. Poco più avanti dei fiori, ecco le bacche. Brillano sui rami come perle nero bluastre.

Ci sono altri due celebri viburni che si fanno notare nei boschi e nei giardini, eleganti e delicati, Viburnum opulus, famoso per le sue palle di neve, e Viburnum lantana. Ma d’inverno si spogliano e non regalano più nulla. Viburno tino invece è il campione di gennaio, la linfa che scorre in queste notti lunghe, il colore dove il colore si è spento.

Arisaro

L’arisaro, pianta tipica dell’areale mediterraneo o dell’olivo, fiorisce per tutto l’autunno e l’inverno in Liguria non troppo lontano dal mare, sul monte di Portofino, ma anche nella vallata del torrente Lavagna, la val Fontanabuona.

Arisaro

Arisarum vulgare
gennaio 2023

Come è tipico nella  famiglia delle Araceae, i suoi fiori sono racchiusi in una brattea, detta spata, tubulosa e striata. In questa specie (Arisarum vulgare), la spata è a forma di cappuccio e lo spadice, cioè l’infiorescenza ramosa, sporge dai suoi bordi piegandosi in avanti come una linguetta che penzola. Le foglie sono persistenti, lucide e spesse, ma morbide e a forma di cuore. Nell’insieme l’aspetto è abbastanza sorprendente e fa venire in mente qualche illustrazione delle favole.
L’arisaro è un parente stretto di Arum italicum, una pianta selvatica e infestante (vedi 12 gennaio 2009), ma anche della calla da giardino, Zantedeschia aetiopica, e di piante più esotiche, come Colocasia esculenta, che si fa chiamare orecchio di elefante quando è ornamentale e igname quando è un alimento.

Arum italicum

Arum italicum
aprile 2009

Davvero Arisarum assomiglia parecchio ad Arum, anche lui pianta dell’areale mediterraneo in senso stretto. E allora succede che talvolta siano chiamate con gli stessi nomignoli, gigaro, o erba biscia, o pan di serpe. Non voglio creare confusioni, per me il gigaro resterà sempre e solo Arum.  Anche i fiori del gigaro, come scrivevo in un vecchio post del 2 maggio 2010 che oggi in parte riprendo, non sono privi di un fascino un po’ inquietante. La parte appariscente però non è il fiore, è ancora una volta la spata, una brattea larga e vistosa che avvolge l’infiorescenza a spadice. Come nella maggior parte della Araceae, grazie a questa struttura arisari e gigari mantengono una temperatura interna, in corrispondenza dei fiori, decisamente superiore a quella esterna, utilizzando per questo riscaldamento una notevole quantità di energia metabolica. Il calore attira in modo efficace gli insetti impollinatori ed è per questo che, nonostante il suo costo, è stato favorito dall’evoluzione.

Calla

Zantedeschia aetiopica

Come nel gigaro, le foglie, il fusto e le bacche dell’arisaro sono velenose.  Ma le radici erano un tempo consumate come alimento e sono tuttora ricercate dai cinghiali che ne sono ghiotti. Nonostante l’accertata tossicità, l’arisaro è stato usato a lungo come medicina per la cura di molti malanni.

Anche la calla (foto a sinistra) , quella da giardino, mostra spadice e spata, quest’ultima larga e candida come il colletto di un abito rinascimentale. Come suggerisce il nome scientifico, Zantedeschia aetiopica, la pianta è di origine africana. Per qualche ragione che non sento veramente di condividere e quindi non so spiegare, la calla è ricercata nei giardini, ospite invitata e vezzeggiata, mentre il gigaro che le assomiglia davvero un bel po’ è un ospite inatteso e spesso sgradito. Misteri dell’animo o dei traffici umani.