Ancora il boccione maggiore

Boccione maggiore Urospermum dalechampii

Sulla coronaria
Urospermum dalechampii
Sochus oleraceus

Ecco la targa che avverte il distratto passante che non se ne fosse avveduto di trovarsi in mezzo a una zona verde. Si prega di non calpestare i fiori. Il prato, come già dicevo in un post precedente, è dominato dall’esuberanza rossa della sulla, ma numerose sono le specie di capolini gialli che si fanno notare. Certamente si distingue il Sonchus oleraceus, per tutti grespino comune, erba ubiquitaria e commestibile, che cresce anche nelle grondaie. Ma c’è anche  il boccione maggiore, Urospermum dalechampii, con le sue ampie infiorescenze giallo pallido brillante. Una prelibatezza per le torte di verdura, se raccolto quando ancora tenero e molto lontano dalla fioritura. Qui sboccia non soltanto nel folto dell’erba, ma anche proprio sul bordo dell’asfalto con quella sorprendente sfrontatezza delle piante spontanee e coraggiose.

Urospermum dalechampii

Urospermum dalechampii

I suoi capolini sembrano lampadine accese nel sole del mezzogiorno, e fra cemento, ghiaietta e bitume, può stupire che riesca a scovare nutrimento. Ma è proprio negli angoli delle strade che si accumula l’acqua piovana, insieme a minuti rifiuti organici che nutrono il terriccio nascosto. Così spuntano i cespi di fiori selvatici, prosperano e si moltiplicano, lasciando il solito distratto passante stupefatto della loro intraprendenza.

Scarlina

Scarlina Galactites tomentosa

Galactites tomentosa

Cattiva come tutti i cardi (sono soggetti da tenere a debita distanza), la scarlina è una ragazzaccia di strada e non si fa scrupoli a crescere al margine dell’asfalto, come su viottoli di campagna, fra i ruderi, negli incolti. Qui si accompagnava alla sgargiante buglossa, e neppure sfigurava con i suoi larghi capolini bianco rosati. Il suo vero nome è Galactites tomentosa perché appare tutta coperta di peluria biancastra. Le sue foglie, sormontate da spine alquanto minacciose, sono solcate da precise nervature bianche. E’ molto comune dal mare alla montagna, dalla Liguria alla Sicilia e Sardegna, ha un portamento altero e quasi minaccioso a causa delle spine aguzze che sormontano le sue foglie.

Galactites tomentosa Sulla coronaria

Galactites tomentosa
Sulla coronaria

La scarlina ha tutta la forma del fiordaliso, ma è pungente come un riccio di castagno. Qui cresce rigolgiosa, per niente intimidita dalla prorompente distesa rossa di Sulla coronaria che domina questa ‘zona verde’ sul bordo della strada, conferendo a un breve tratto di statale un aspetto inaspettato e lussureggiante. In questo momento dell’anno qui diverse specie, semplici ma particolari, competono in bellezza e colori. Poco importa se fra qualche mese il caldo estivo ridurrà tutto a un groviglio di sterpi secchi. Questa è la loro stagione e questa è la loro meraviglia.

Calendula

Calendula officinalis

Calendula officinalis

Sotto l’uggiosa pioggerellina di questo pomeriggio di gennaio, la calendula è ancora fiorita. Ancora o già non importa; anche se sui libri c’è scritto che la sua antesi, cioè il periodo di fioritura, va da marzo a giugno, oppure da maggio a dicembre, a lei non interessa proprio, e in questo inverno sempre più tiepido, non ci fa mai mancare i suoi fiori.
Ha imparato dalla sua sorellina selvatica, abitante dei prati, il fiorrancio, ovvero Calendula arvensis, che per tener fede al suo nome, calendula per calendae, primo giorno del mese, rinnova la sua fioritura una volta al mese per tutto l’arco dell’anno. Il fiorrancio ha fiori gialli e corolle più minute, un solo anello di ligule, cioè i petali colorati. Però può diventare molto appariscente quando appare in gruppi numerosi. E’ pianta mediterranea, che cresce nell’areale dell’olivo.

Calendula arvensis

Calendula arvensis

La Calendula officinalis, specie tipicamente da giardino, ha origini incerte ed è più robusta, ha capolini corposi, con due giri di ligule, gialle o arancioni.

Una delle caratteristiche più curiose delle calendule sono i frutti. Quando il capolino appassisce, maturano piccoli acheni, anche detti cipsele, all’apparenza legnosa, variamente conformati, curvi e rostrati quelli più esterni, sempre arcuati, ma più corti e anulari quelli centrali, tutti provvisti di una cresta spinosa sulla superficie convessa.
Entrambe le specie di calendula hanno foglie aromatiche, ma non molto piacevoli al tatto, perché appiccicose, lanuginose e grezze. Il fusto è tozzo e contorto, non adatto a sostenere fiori recisi. Tanto meglio. Il gagliardo colore delle corolle rende perdonabile qualsiasi imperfezione.

Calendula

Calendula officinalis

Così ho provato se mi riusciva di conservarlo. Un tentativo, presuntuoso e un po’ maldestro; ma con un po’ di attenzione (i petali secchi sono fragilissimi e si staccano con grande facilità), sono riuscita talvolta a ritrovare almeno un pochino dell’intensità e del calore dorato, dopo mesi e anni che la sua linfa si era seccata. Ecco qui a sinistra l’immagine, acquisita con lo scanner, di un fiore pressato, dopo almeno 10 mesi, sbiadito, diafano, ma sempre dorato. Davvero la calendula è un fiore generoso.

Margherite gialle

Margherite gialle : Rudbeckia

Rudbeckia fulgida

Le margherite gialle sono infinite. Eppure sempre da qualche parte qualcuno chiamerà ‘margherita gialla’ una specie particolare, come fosse più importante, più gialla delle altre. L’africana Euryops,  per esempio, che fiorisce tutto l’anno e illumina anche l’inverno di sole, e i tanti sfacciati seneci che vengono da tutto il mondo.  Fra le nostrane, l’arnica montana, su cui ho ripreso un vecchio post qualche tempo fa, il buftalmo (29 novembre 2009) e la pulicaria (21 settembre 2009), per citarne soltanto alcuni.  La caratteristica delle margherite è la loro infiorescenza a capolino, che è un insieme di molti fiori di cui sono gli esterni portano le ligule, appendici colorate e brillanti che chiamiamo impropriamente petali.

Margherite gialle : Gazania

Gazania rigens

Le grandi margherite gialle, quelle più appariscenti, decorative e ricercate, hanno però quasi tutte origini straniere.  A cominciare dalla Rudbeckia, un cespo denso di ruvide foglie dalla generosa fioritura estiva, dall’arancio al giallo, originaria del Nord America, ma variamente presente in ogni giardino e  anche spontaneizzata in varie regioni italiane. I suoi fiori gialli hanno un disco centrale a cono bruno scuro e ligule sottili e appuntite e sono molto persistenti.

La Gazania, sudafricana, è protagonista di tante aiuole cittadine, perché ama il sole e i luoghi caldi vicino al mare. I suoi fiori brillanti sorgono da steli striscianti sul terreno. Scoperta sulla passeggiata di Nervi e in corso Italia, il lungomare di Genova, l’ho cresciuta in giardino per qualche tempo, affascinata dalle sue corolle che si sfumano di scuro verso il centro.

margherite gialle : Gaillardia

Gaillardia aristata

Elegante e sfacciata la Gaillardia, un’altra americana, sfoggia fiori dal raffinato disegno che contiene pennellate di arancio e rosso scuro. E’ un cespuglio scarmigliato, poco addomesticabile almeno di non ricomporlo con costanza via via che cresce. Ma anche se sfugge al controllo si fa perdonare con una fioritura abbondante e praticamente ininterrotta per tutta la bella stagione.

Girasole da olio

Helianthus annuus
Girasole da olio

Anche il grande girasole, in tutte le sue varietà e cultivar, da quelle più banali alle più ricercate, non è una pianta autoctona delle nostre regioni, ma arriva da lontano, avventizia o naturalizzata, ancora una volta dall’America, questa volta del Sud.

Girasole gigante

Helianthus annuus
Girasole gigante macedone

E’ una pianta slanciata, incredibilmente alta e regge la pesante infiorescenza, il capolino che in questo caso prende il nome di calatide, elevandola in alto per tutto il tempo della fioritura. Poi piega il capo e stringe fra le brattee il cuore di frutti in maturazione. Ogni infiorescenza ne contiene circa mille, acheni biconvessi, con striature nere o grigiastre, di significativo valore alimentare e anche officinale. Fra gli utilizzi medici tradizionali, trovo che in Abruzzo si usava un decotto di semi arrostiti per curare l’ipertensione (1), mentre nelle campagne laziali si riteneva che aggiungerli al mangime delle galline favorisse la produzione di uova (2).

Girasole pon pon

Helianthus annuus
Girasole pon pon

Il suo eliotropismo è famoso e simbolico, ma abbastanza misconosciuto. Tutti pensano che, come dice il nome, i girasoli inseguano, da est ad ovest, il corso del sole. Tuttavia ciò non è esatto. Soltanto i boccioli lo fanno, i virgulti in crescita, che si volgono verso la luce e il calore, nel corso della giornata, ritornando poi da ovest ad est durante la notte. Quando il fiore sboccia del tutto, lo stelo si irrigidisce e le corolle mature stanno ferme, rivolte ad est. Quindi i girasoli fioriti non sono più eliotropici, se si osservano di mattina guardano sole, mentre nel pomeriggio ci appaiono girate dall’altra parte.

Tanti girasoli ha dipinto Vincent Van Gogh in numerose serie di quadri, campi di girasoli, capolini eretti e sfavillanti, recisi nei vasi e poi piegati e sfioriti. Del legame di Van Gogh con i girasoli molto si è detto e fantasticato. Forse, in tutte le sue forme, il girasole ci attrae per quel suo colore, posseduto o perduto, il giallo infinito della luce che scalda.

(1) Leporatti & Corradi (2001) Journal of Ethnopharmacology 74: 17-40
(2) Guarrera PM, Usi e tradizioni della flora italiana. Aracne ed. 2006

Arnica montana

Arnica montana

Arnica montana

Quando mia madre (classe 1913) mi parlava con nostalgico entusiasmo delle passeggiate sui monti nella sua giovinezza, due fiori ricorrevano sempre come i più splendidi e ricercati: il narciso e l’arnica. L’immacolato narciso fiorisce all’inizio della primavera, mentre l’arnica, solare, fiorisce d’estate, sui monti oltre 500 metri di altitudine.
L’arnica era per me bambina una specie di miraggio perché, la mamma diceva, fiorisce solo sui pendii più puri delle colline più alte. Sui praticelli della ‘nostra’ campagna, in collina sui 700 metri, l’arnica, secondo mia madre, non c’era. Non ne sono completamente sicura, perché sui prati della mia infanzia anch’io oggi ricordo con accorata nostalgia tanti fiori, i cui contorni sono sfumati nella memoria e non saprei dire se si trovino ancora.

Arnica montana

Arnica montana

L’arnica (Arnica montana, famiglia asteraceae o composite), una margherita giallo sole, piuttosto disordinata, ma robusta, è oggi una specie protetta. L’etimologia del nome come accade spesso si perde nella notte dei tempi ed è incerta. La più divertente è che derivi da una parola greca che significa ‘starnutire’, perché l’odore aromatico e pungente, unito forse alla grezza pelosità, stuzzica appunto gli starnuti. Probabilmente a causa di entrambe queste caratteristiche, ma anche al fatto che contiene sostanze tossiche, gli animali evitano l’arnica e non la brucano. La pianta è velenosa, se ingerita, e anche gli erboristi umani se ne servono soprattutto per uso esterno, per preparare unguenti assai efficaci per storte, lussazioni, ma anche dolori muscolari di varia natura. Così la maggior parte della gente conosce l’arnica perché l’ha vista raffigurata sul tubetto di una qualche pasta miracolosa per alleviare il mal di schiena, un rimedio popolare come il balsamo di tigre e il cannello di zolfo. Non so se le pomate in commercio contengano vera arnica; ma se è così, spero che sia stata raccolta con criterio. Chissà se i nostri nipoti conosceranno mai questa margherita gialla di montagna o se sarà destinata a perdersi nel tempo.
Queste immagini sono state scattate sulle pendici del monte Antola, alta val Trebbia, uno dei monti delle passeggiate di mia madre,  in un giugno di tanti anni fa (vedi nel vecchio blog 30 giugno 2008)

Farfaraccio

Farfaraccio vaniglione

Petasites pyrenaicus

Come tutti gli anni, nello stesso posto, sul ciglio della strada, fiorisce, precoce e umile, il farfaraccio. Fra qualche cartaccia dimenticata, in mezzo alle foglie a forma di cuore, spuntano stelline bianco rosate e gemme delicate. Lo avevo già incontrato (8 marzo 2010) ai margini di questo boschetto in discesa, come sempre ingombro di rifiuti. Forse quest’anno è in anticipo, come molte altre fioriture; forse negli anni scorsi non l’avevo osservato così presto.  Questa pianta veniva chiamata Petasites fragrans, volgarmente ‘vaniglione’, probabilmente per distinguerlo da altri dall’odore meno gradevole; ma oggi gli viene attribuito con certezza l’epiteto specifico di pyrenaicus dalla sua regione di origine. Dalla Spagna ha colonizzato facilmente l’intero Mediterraneo, anche se in Liguria è ancora considerata alloctona naturalizzata.

Farfaraccio vaniglione

Petasites pyrenaicus

Oggi nel bosco le foglie del farfaraccio vaniglione sono piccoli cuoricini verdi e ordinati. Ma non è sempre così, perché talvolta le foglie di questa pianta possono assumere dimensioni ragguardevoli. Il suo nome deriva dalla parola ‘petasos’ che in greco significava un cappello a larghe tese. Infatti le ampie foglie, spesse e molto impermeabili, si prestano a diventare copricapi di fortuna per offrire riparo dalla pioggia.  Questo è vero soprattutto per quel farfaraccio comune, Petasites hybridus, le cui foglie possono raggiungere gli 80 cm di larghezza.

Petasites albus

La pianta, molto diffusa nelle sue varie specie, cresce in gruppi e forma colonie. Le foglie compaiono dopo i fiori e crescono addossate le une alle altre tappezzando completamente il terreno, come in questo giardino polacco. Non sembra quasi che quei delicati fiorellini, che si aprono sulla sommità di un robusto gambo, ornato di un’altra sorta di foglioline (brattee) rossastre, appartengano alla  stessa pianta delle larghe foglie. L’ho incontrato  anche nella versione  bianca Petasites albus, più in alto sui monti dell’Appennino (vedi 14 aprile 2009), con capolini disposti in dense spighe ovali. Si dice che alcune specie di Petasites siano commestibili, ma tutte, anche le meno appetibili, contengono principi officinali ed erano utilizzate come rimedio per vari disturbi, dalla tosse all’insonnia. Come spesso accade però in tutte le piante medicinali, sono presenti anche componenti tossici, e in particolare alcaloidi dannosi per il fegato.

Forbicina invasiva

Bidens frondosa<br>Forbicina peduncolata

Bidens frondosa

Una volta c’era la forbicina comune, canapa acquatica, vero nome Bidens tripartita, una pianticella che ama l’umidità e il fango, appartiene alla famiglia della Asteraceae e ha capolini di fiori tubulosi circondati da una raggiera di brattee fogliacee pelose. Gli acheni (i minuscoli frutti) sono uncinati e si attaccano al pelo degli animali a scopo di facilitarne la diffusione. Da cui il nome italiano di ‘forbicina’ e quello, meno aggraziato, inglese di beggarticks, una specie di zecca dei mendicanti. Anche il nome scientifico si riferisce agli acheni “bidenti”.  C’era una volta e c’è ancora, a ben cercare. Ma molto molto più facilmente si incontra lei, l’americana, Bidens frondosa, forbicina peduncolata, che si distingue appunto per le foglie fornite di un lungo picciolo. Importata qualche secolo fa in qualche orto botanico, è velocemente sfuggita alla coltivazione e oggi viene additata come alloctona invasiva in almeno dodici regioni italiane, anche se in Liguria per il momento è solo naturalizzata.

Bidens frondosa<br> Forbicina peduncolata

Bidens frondosa

Secondo International Union for Conservation of Nature (IUCN), le alloctone invasive sono “specie aliene al territorio che si stabiliscono in un ecosistema o habitat naturale o seminaturale, diventando un agente di cambiamento e una minaccia per la diversità biologica autoctona”. Bidens frondosa è dunque una pianta pericolosa perché compete con aggressività con la flora indigena, grazie proprio alla formidabile capacità di disseminazione. L’astio profondo dei naturalisti per questa invasiva mi ricorda quello per l’ailanto ed effettivamente la rapacità con cui piante grandi e piccole conquistano il territorio ha qualche cosa di spietato. In realtà la loro colpa è solo di essere spudoratamente vincenti nella lotta per la vita.

Avevo già parlato di questa pianta in un vecchio post (28 ottobre 2009) e allora ero stata molto più gentile nei suoi confronti, tollerante e inclusiva. La vegetazione intorno a noi sta cambiando davvero rapidamente e, nel bene e nel male, è possibile che in poche decine di anni tutta la flora che ci circonda, per lo meno nelle zone più antropizzate, ci si presenti completamente mutata. Credo che se le nuove piante si integrassero in modo armonico nell’ambiente, sarebbe più facile accettarle; tuttavia quello che accade è un’occupazione rovinosa del suolo che finisce per impoverire la natura e rattristarla.

Forbicina sudamericana

Bidens subalternans – foglie

Forbicina sudamericanaBidens subalternans

Bidens subalternans – capolini

Ho incontrato di recente, sul bordo della strada, una nuova forbicina diversa da quelle che conoscevo. Credo che si tratti di Bidens subalternans, sudamericana. Non è ancora classificata come alloctona invasiva in Liguria, ma già naturalizzata e comincio a vederla dappertutto. Il nome specifico le viene dalla foglie, quasi alterne, ma come tutte le sue parenti, autoctone e alloctone, i frutti, denominati cipsele, presentano all’apice un coppia di reste uncinate, che costituiscono dei formidabili appigli per la disseminazione. Insomma, ecco un’altra, nuova forbicina alla riscossa.

Erba di San Pietro

Erba di San Pietro

Tanacetum balsamita

Il suo vero nome è Tanacetum balsamita, anche se è nota anche come Balsamita major. Come gli altri tanaceti è molto aromatica e ha fiori a capolino giallo oro, spogli perché non hanno ligule.  E’ un’antica pianta coltivata per le sue proprietà officinali e per l’aroma, forte e amaro, delle sue foglie, riscoperta recentemente sia dall’erboristeria che dalla culinaria. Chi la incontra una volta, non la dimentica.  L’ho provata nelle frittate e nelle torte di verdura, ed è ottima se usata con molta moderazione. Il gusto è deciso come la menta, ma più amaro, e l’odore è altrettanto acceso. Non è una pianta autoctona del nostro territorio, viene dall’Asia ed è un’archeofita casuale, cioè è diffusa in modo sporadico da molto tempo, e non si sa bene da quanto. Ha una storia antica e tanti nomi, oltre erba di San Pietro, erba amara, menta romana, erba della Bibbia e erba di Santa Maria. Poi la coltivazione e la cura hanno fatto il resto, così che anche oggi la pianta ha una certa diffusione nei giardini e negli orti. I fiori più belli, solari, li mette d’autunno, proprio quando il sole comincia ad impallidire.

Senecio rampicante

Senecio rampicante

Senecio angulatus

Mentre sfreccio a bordo del mio cavallo di latta, lungo la strada di casa, via Nasche poco prima del bivio per San Desiderio, mi incuriosiscono questi mazzi di corolle giallo brillante, che svettano oltre il muretto che limita la carreggiata, in mezzo alla grigia vegetazione di un gennaio troppo caldo e soleggiato. Non assomigliano per niente ai  fiori di mimosa che cominciano prepotentemente a sbocciare dappertutto. Che cos’è? Fermo l’auto, mi avvicino e d’improvviso capisco tutto. Il senecio rampicante (Senecio angulatus) è arrivato anche qui. Si abbarbica e infoltisce in mezzo agli sfioriti corbezzoli e fa finta di essere un albero anche lui. In realtà è un’infestante, alloctona invasiva in Liguria, e viene niente meno che dal Sudafrica.  Ma le piante non hanno paura delle distanze e hanno scritto la storia della terra e delle migrazioni con molta più accuratezza degli uomini.

Senecio rampicante

Senecio angulatus

Specie ormai tutt’altro che rara, il senecio rampicante ha fusti e foglie grassocci, come una succulenta, e fiori giallo paglierino che sbocciano in autunno avanzato. Lo avevo già incontrato diversi anni fa sulla passeggiata Anita Garibaldi, di Nervi, a metà estate, dove, ornato solo di sfatti soffioni, confondeva le sue foglie verdissime con quelle cuoriformi della più mediterranea salsapariglia nostrana (Smilax aspera).

Senecio rampicante

Senecio angulatus

Lo avevo riscoperto in piena fioritura alla fine dell’autunno coprire d’oro tutto il pendio sopra la scogliera, non lontano dalla schiuma rumoreggiante del mare non proprio tranquillo. Come ho scritto recentamente, il senecio è un genere dalle mille incarnazioni,  invadente per vocazione. Il senecio rampicante è stato introdotto in molti paesi come  ornamentale, ma suppongo che nessuno avesse previsto che questo africano potesse colonizzare con tale esuberanza la passeggiata di Nervi, e spingersi ancora più su fino a minacciare qualsiasi giardino e, secondo Wikipedia, presentarsi inselvatichito sulle Alpi marittime.

Articoli più o meno recenti su varie specie di senecio :
22 aprile 2021
4 gennaio 2019
9 giugno 2012
26 giugno 2011
12 dicembre 2010

Topinambur

Il topinambur (Helianthum tuberosus) è il fratello tuberoso del girasole (Helianthus annuus).

Topinambur

Helianthus tuberosus

Nonostante arrivi da terre lontane, e il nome abbia un suono davvero arcano, è una pianta sfacciatamente comune, che si è trovata molto bene dalle nostre parti ed è anche apprezzata in cucina. E’ slanciato ed esile, con lunghe foglie, e viene utilizzato anche per bordure decorative, o frangivento, più nei campi che nei giardini. I suoi tuberi sono commestibili e si preparano come le patate, di cui si dice possano rappresentare una degna alternativa; oppure un sostituto di fortuna, perchè se alla fine la patata ha avuto la meglio, qualche ragione ci sarà.
Proprio come le patate, viene dall’America, ma dal Nord, e precisamente dal Canada, e fu importato in Europa dai francesi nel 17° secolo. Poco tempo prima, erano arrivati alla corte di Francia alcuni esponenti di una tribù brasiliana dei Topinamba, che, si dice, avevano attirato molta attenzione. Così, sulla scia della popolarità dei brasiliani, queste piante del Nord furono battezzate dai commercianti con un nome con cui non avevano assolutamente niente a che fare. Quando diventarono famosi per le loro  qualità, i nomi volgari divennero molti, da rapa tedesca a girasole del Canada, oppure carciofo di Gerusalemme, ‘Jerusalem artichoke’ in inglese, perchè il loro sapore dolce e delicato ricorda vagamente quello del carciofo.

Topinambur

Helianthus tuberosus

Il topinambur si è trovato tanto bene dalle nostre parti che cresce dappertutto e in questa stagione i greti dei torrentacci sono sgargianti delle sue corolle gialle, un po’ più piccole di quelle del girasole, ritte in gruppi fitti sullo stelo sottile. Si è trovato tanto bene che a chi sceglie di coltivarlo si consiglia di fare attenzione a raccogliere tutti, ma proprio tutti i tuberi, per evitare di ritrovarsi un nuovo filare o campo di topinambur anche l’anno successivo.

Questo post riprende quello pubblicato sul vecchio blog il 4 ottobre 2008