Victoria cruziana

Victoria amazonica

Victoria amazonica
Balboa Park, San Diego, California

In principio si chiamò Victoria regia perché la regina Vittoria di Inghilterra era appena salita al trono e gli scopritori non vollero perdere l’occasione di dedicarle una pianta tanto eccezionale. Così, come racconta mirabilmente Silvia Fogliato in questa pagina, questa spettacolare ninfea dell’Amazzonia divenne l’emblema della nuova monarchia britannica.
Victoria è un genere di piante acquatiche della famiglia delle Nymphaeaceae, e comprende tre specie, tutte sudamericane. La loro caratteristica più appariscente sono le foglie, gigantesche zattere con il bordo rialzato. La specie amazonica, che cresce appunto nel bacino del Rio delle Amazzoni, era considerata la pianta con le foglie più larghe del mondo, ma questo primato le è stato espugnato da un’altra specie, Victoria boliviana, identificata recentemente in Bolivia e inscritta nel Guinness dei primati nel gennaio 2023, le cui foglie possono superare i tre metri di diametro.

Victoria cruziana

Victoria cruziana
Villa Taranto, Verbania

Anche la terza specie Victoria cruziana, che fu scoperta nel bacino del Rio della Plata dal naturalista francese Alcide Dessalines d’Orbigny e da lui intitolata al suo finanziatore, il presidente della Bolivia Andrés de Santa Cruz, ha foglie di dimensioni rispettabili, oltre i 2 metri, ed è più facile da coltivare alle nostre latitudini perché ha esigenze leggermente meno estreme in quanto alla temperatura dell’acqua, cioè può germinare anche al di sotto dei 30° C.
La prima volta che ho incontrato Victoria, che per me era ancora e solo Victoria regia, è stato nel giardino botanico del parco Balboa a San Diego, California, nel 2001 e poi nel 2010, dove cresce la Victoria amazonica. Poi ho incontrato la Victoria cruziana durante una visita ai magnifici giardini di Villa Taranto su lago Maggiore, a Verbania, dove viene coltivata fin dal 1956.

Vivaio Lemoie

Victoria cruziana al Vivaio Lemoie, Front (TO)

Ma l’ho conosciuta veramente soltanto dopo la visita al vivaio-oasi naturalistica Le Moie, a Front Canavese (TO). In un un territorio di oltre 27 ettari, caratterizzato da risorgive naturali dove l’acqua sgorga a 12° gradi tutto l’anno, che era stato abbandonato e degradato a scarico di rifiuti, Carmelo Emanuele, per gli amici Emanuele Lemoie, ha creato una suggestiva sequenza di laghetti e vasche, animate da uccelli acquatici, pesci e anfibi e una serra destinata alle specie tropicali. Qui dal 2008, coltiva la Victoria cruziana e apre il suo spazio naturalistico ai visitatori perché possano ammirarne la fioritura.

Fiore chiuso

Nel laghetto del vivaio Lemoie  il fiore di V.cruziana è ancora chiuso al tramonto

Il ciclo vegetativo di Victoria cruziana è molto particolare. I fiori sono grandi, dai boccioli a punta, e si aprono di sera, anzi in piena oscurità, per ricevere l’impollinatore, che nel paese di origine è uno scarabeide del genere Cyclocaephala.  La temperatura all’interno del fiore è anche di 6-7°C superiore all’ambiente circostante e l’intenso profumo che emana attira l’insetto che si tuffa a capofitto nel fiore ermafrodita. Quando questo si richiude, il visitatore rimane intrappolato al suo interno, i granuli pollinici maturano e si appiccicano a dovere sul suo corpo e sulle zampe. La sera successiva, il fiore si riapre e il coleottero è libero di andare a caccia di altro nettare, portandosi dietro la preziosa polvere  per impollinare un altro fiore.

Fiore aperto

Il fiore si apre nell’oscurità

Siccome questo scarabeo non esiste nelle nostre regioni e l’autoimpollinazione è poco efficiente, un tempo si pensava che da noi per propagare la specie occorresse impollinare i fiori manualmente. Ma oggi si sa che non è necessario perché esiste un qualche grosso coleottero dalle elitre nere, ancora non identificato, ma molto attivo, in grado di svolgere con efficacia e probabilmente anche con piacere il lavoro del suo parente sudamericano.

Fiore fecondato

Il fiore fecondato cambia colore

I fiori già fecondati cambiano colore e assumono una tinta che dal rosa vira al rosso. Poi la corolla si richiude, il picciolo si piega e sotto il pelo dell’acqua comincia a formarsi un grosso frutto spinoso dove crescono centinaia di semi sferici, che potranno germinare nell’anno successivo.
Ecco come una straordinaria ninfea è riuscita a emigrare dal Sudamerica in Italia e, grazie all’entusiasmo di un grande appassionato, trovare la sua casa.

Fior di loto

Fior di loto Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera

Il solo nome, fior di loto, evoca scenari esotici e un po’ magici. La pianta, Nelumbo nucifera della famiglia Nelumbonaceae, è una specie palustre che cresce nell’acqua, ma dall’acqua eleva sue larghe foglie rotonde alte fino a 70 centimetri. Mi sorprende la sua fioritura nella spettacolare cornice della villa Taranto, uno dei più bei giardini italiani, a Verbania sulle sponde del lago Maggiore. I fiori sono larghi fino a 20 cm, con larghi petali di colore giallo e rosa.  Al centro si distingue il ricettacolo a forma di imbuto, con la parte più larga verso l’alto, nel quale i numerosi ovari sono disposti in una fossetta. E così avviene che i frutti abbiano la forma  forma di cipolla di annaffiatoio con grossi buchi dove si localizzano i numerosi semi, che sono commestibili, molto ricchi di sostanze nutritive e dal sapore di anice. Anche i rizomi sono commestibili e vengono consumati sia crudi che cotti, fonte di amido e fecola.

Fior di loto Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera

Pianta generosa e di facile coltivazione per chi abbia lo spazio adatto, è molto diffusa nei paesi tropicali e subtropicali di Asia e Africa e rappresenta un simbolo di enorme importanza nella cultura dei popoli orientali, dall’antico Egitto, alla Cina, all’India buddista. Sulla simbologia del loto si fonda una delle più importanti Sutre del Buddhismo Mahāyāna, chiamata appunto Sutra del Loto e dal fiore di loto prende nome la posizione caratteristica del Buddha a gambe intrecciate. Celebre è anche l’immagine del Buddha che reca in mano un fiore di loto. Si tratta del Padmapani, il Bodhisattva della compassione, il cui nome deriva dalle due parole sanscrite Padma, fior di loto, e pani, mano.
Alla forma del loto si ispirano anche oggetti tradizionali, una forma classica dell’origami giapponese e architetture moderne, dalla Lotus Tower di Colombo in Sri Lanka, al tempio Bahai di Delhi in India.

Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera
fiore

Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera 
Frutto

 

Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera
semi

 

 

 

 

 

 

 

Ecco di nuovo il fior di loto nell’oasi naturalistica vivaio Le Moie di Carmelo Emanuele, a Front Canavese (TO), con il fiore chiuso al tramonto, il frutto

Iresine, la pianta che non doveva essere qui

Iresine herbstii aureoreticulata

Iresine herbstii ‘aureoreticulata’

Iresine è una pianta originaria del Sudamerica e appartiene alla famiglia delle Amaranthaceae, che ormai comprende tutti i più famosi chenopodi di cui ho parlato qualche tempo fa. Ma Iresine non è veramente uno spinacio, è arrivata dalle nostre parti come pianta da appartamento, per il colore brillante e suggestivo delle foglie e la generosità della crescita anche in ambienti chiusi. Non coltivo piante da interno e davvero non l’avrei mai conosciuta se non fosse che un giorno ho avuto l’idea di sostituire una pianta in un terrario che mi era stato regalato.  Purtroppo una delle specie originali aveva sofferto l’umidità invernale e avevo dovuto eliminarla. In una nota fiera di piante ho scoperto un banco che vendeva esemplari per terrari e mi è stata proposta questa pianticella dai fusti rossicci e lucide foglie verde brillante  con nervature colorate di giallo, insomma uno spettacolo di colore. Era alta meno di dieci centimetri e aveva trovato posto egregiamente nel mio terrario.

Iresine herbstii 'aureoreticulata'

Iresine herbstii ‘aureoreticulata’

Come il fagiolo della favola, la piccola Iresine ha cominciato a crescere e in men che non si dica ha raggiunto il tappo della boccia di vetro con decisa intenzione di superarlo in fretta e uscire a conquistare il mondo. Così sono corsa ai ripari, l’ho tirata fuori e sistemata in un vaso, e poi in un vaso più grande,  mentre lei continuava a crescere. Così anche se i manuali di piante parlano di un’altezza massima di 60 cm (in appartamento, suppongo),  nella mia serra ha ormai superato gli 80 cm e prospera slanciata e giuliva nel sole tropicale di questi giorni.

Dove arriverà questa pianta che non doveva essere qui? Ormai ci sono affezionata e la trovo una piccola meraviglia. Non ho certezze sul suo futuro, e non so che ne sarà di lei al cambio di stagione. Ma la sua storia mi fa pensare a quante piante si adatteranno con più facilità ad ambienti tradizionalmente a loro estranei, e magari, perché no, si scopriranno a casa dove non avrebbero mai dovuto essere.

 

Ortiche

Urtica dioica

Urtica dioica

Coccolo le mie ortiche, felice di vederle spuntare qua è là in giardino. Le coccolo senza toccarle, naturalmente. Ma con il desiderio che rimangano, si riproducano, ritornino. Scrivevo il 4 dicembre 2008 :  L’ortica è  la pianta degli orti. In aperta campagna, dove compare l’ortica c’è un segno di coltivazione, di campi addomesticati dall’uomo. Residui di pascoli e bestie, ammassi di pietre composte. Una pianta che è cibo e concime, medicina e insetticida.

Urtica membranacea

Urtica membranacea

Prezioso è il macerato, si mette 1 kg di piante fresche in 10 litri di acqua piovana, si lascia riposare per 5 o 6 giorni e poi si filtra. L’odore è pestifero, ma l’effetto è miracoloso.
L’ortica ha foglie sontuose e delicate, lucide e brillanti. Ma solo le donne di medicina quando la usano per frizionare muscoli doloranti si dice abbiano salve le mani. In tutti gli altri casi basta sfiorarla per sapere a che deve la sua cattiva fama. Così se la vedi la estirpi, con le mani guantate, strappandola senza pietà dalla terra. Tanto, come la sua vicina e antitetica parietaria (vedi 14 maggio 2008), lei ricrescerà, sempre.
L’ortica segue la traccia dell’uomo ed è pianta da incolti urbani, da aiuole di città.

Ortiche e false ortiche

La straordinaria somiglianza fra le foglie di Urtica (in alto) e quelle di Lamium purpureum

In Liguria ci sono (almeno) tre specie di ortica: Urtica dioica, Urtica membranacea, e Urtica urens e non è affatto difficile imbattersi in una di queste diverse specie.
Ma ci sono anche piante che non sono né ortiche né orticanti, ma sono riuscite a mimetizzarsi nelle forme dell’ortica per difendersi meglio dalla voracità degli animali erbivori. Il lamio è una labiata, cioè una pianta della famiglia delle lamiacee come la salvia e il basilico, ma le sue foglie imitano così bene quelle dell’ortica da essersi meritata il nome di falsa ortica (vedi anche 14 marzo 2009).

Il colore del pomodoro

Pomodoro giallo

Murabilia – Lucca 2012

In principio il pomodoro era giallo. Altrimenti perché si chiamerebbe pomo d’oro? Il mercato di questo fortunatissimo ortaggio ha premiato il colore rosso, e così non si trova grande scelta di pomodori gialli al mercato, anzi potrei dire che non ne ho mai visti. Però gli amatori del Solanum lycopersicum da sempre coltivano numerose varietà dorate, dai nomi sfavillanti. Per esempio Yellow pear, a forma di piccola pera, oppure Perle de Lait, i cui frutti sono giallo pallidissimo, quasi bianco, ma la polpa è dolce e gustosa. O ancora il Sunrise giallo, open source per distinguerlo dai pomodori Sunrise rigorosamente rossi e coperti da brevetto e il Piccadilly giallo, con sfumature arancio dorate.

Sunrise giallo

Pomodoro Sunrise giallo

Piccadilly giallo

Pomodoro Piccadilly giallo

Fra le centinaia di varietà o cultivar di pomodoro si trova poi  un vero e proprio arcobaleno di colori, oltreché di forme e sfumature. Se conoscerli tutti è impossibile, ne ho incontrato alcuni veramente fantasiosi, come ‘Cascade de lava’, rosso striato di rigature giallo verdi, ottimo in insalata, un’altra varietà della collezione del coltivatore Valter Marchetti, conosciuto grazie all’associazione Adipa (grazie a cui ho anche conosciuto il Perle de Lait menzionato sopra).

Cascade de lava

Pomodoro ‘Cascade de lava’

Pomodoro viola ucraino

Pomodoro viola ucraino

Pomodoro nero di Sardegna

Pomodoro nero di Sardegna

Per usufruire al meglio delle proprietà antiossidanti degli antociani, ma forse anche per il gusto di creare frutti originali, sono state selezionate poi numerose varietà con buccia e polpa scura, dal viola al nero. I più famosi sono i neri di Crimea, gustosissimi, adatti anche a una stagione breve come quella del loro luogo di origine.
Un altro pomodoro della tradizione ucraino/russa  è invece un’antica varietà di forma ovale di colore marrone viola, riportato alla luce nel 1980 dalla collezione della signora ucraina Irma Henkel Bell. Di perfetta forma rotonda invece è il nero di Sardegna, croccante e molto appetibile in insalata.

Blue Beauty

Pomodoro Blue Beauty

Ma anche il blu fa la sua comparsa nelle sfumature delle bucce, con il californiano Blu bellezza ovvero Blue Beauty, i cui semi sono facilmente reperibili in commercio.

Rimango in America del Nord con la mia scoperta dell’anno, Cherokee purple, una cultivar ritrovata in Tennessee negli anni 1990, ma risalente, a detta del coltivatore Craig LeHoullier che lo ha esaminato, ad almeno cento anni prima e appartenente alla tradizione agricola dei nativi americani Cherokee. I frutti sono bruno violacei, costoluti, piuttosto grossi con polpa variegata di violetto e rosa, gustosissimi.

Pomodoro Cherokee purple

Pomodoro Cherokee purple

Mentre molte cultivar si contendono il primato per il frutto più grosso, e certe varietà possono fornire in condizioni ottimali pomodori che pesano qualche chilogrammo, il  più piccolo è certamente la qualità ribes, con frutti grandi appunto quanto una bacca di ribes, ma squisitamente saporiti, uno dei pomodori più gustosi che io abbia mai assaggiato, anche se il suo utilizzo rimane ristretto a causa proprio delle dimensioni decisamente ridotte.

Pomodoro ribes

Il più piccolo : varietà ribes

Il pomodoro è una specie autoimpollinante, questo significa che i semi di un certo tipo danno origine in genere ad una nuova pianta della stessa varietà, permettendo di mantenere sempre le stesse qualità preferite nella coltivazione.

Tutti gli spinaci del mondo

Spinaci australi

Tetragonia tetragonoides
Spinacio australe

Non è certo stagione di spinaci, e la verdissima Spinacia oleracea, erba invernale per eccellenza della famiglia delle Amaranthaceae, non gradirebbe per niente il caldo umido di questi giorni. Già da tempo ho tolte le piante, raccolti i semi, e aspetto la stagione fresca per piantarli di nuovo. Tuttavia a guardar bene nell’orto continuano a prosperare varie piante che di spinacio hanno rubato il nome.
Tetragonia è una pianta della famiglia delle Aizoaceae, che include molte piante succulente endemiche di zone aride o semi aride dell’emisfero australe. Quella che cresce rigogliosa in un’ aiuola dovrebbe essere Tetragonia tetragoniodes, pianta perenne e non annuale come lo spinacio propriamente detto, meglio nota come spinacio neozelandese o spinacio di Cook, perché è proprio grazie al grande navigatore se questo ortaggio singolare è approdato alle nostre latitudini. Dico ‘dovrebbe essere’ perché il dubbio rimane.

Tetragonia (Spinaci australi)

Tetragonia tetragonoides
Spinacio australe (fiori)

L’ho conosciuto grazie a una deliziosa signora romena, Mariana, infaticabile esperta ed entusiasta appassionata di tutte le piante, che mi ha regalato alcuni semi e me l’ha presentata come ‘spinacio del Sud Africa’ che sua figlia le aveva portato proprio da quel paese. Il che non mi ha affatto sorpreso perché la flora sudafricana è di una ricchezza particolare e sono molte le piante introdotte nei nostri giardini da quella lontana regione dall’altra parte del mondo. Plumbago e Tecomaria sono solo due esempi di piante ornamentali il cui aggettivo specifico capensis non lascia molti dubbi sull’origine di questi fiori.
Ho piantato i semi di Mariana e l’anno scorso sono nate due piante molto rigogliose che hanno prodotto anche microscopici fiorellini gialli all’ascella delle foglie e quindi numerosi altri semi. Soltanto una pianta però è sopravvissuta fino ad adesso, ed è cresciuta moltissimo allungandosi in numerose ramificazioni, nonostante ne abbia fatto ampio uso per le torte di verdure. Dai nuovi semi ho prodotto altre piante, alcune regalate, altre messe a dimora vicino alla pianta madre.  Esistono almeno due specie di Tetragonia di origine sudafricana, Tetragonia decumbens, che cresce prevalentemente sulla spiaggia e ha foglie gustose, ma minute, e Tetragonia echinata, di cui non ho molte informazioni, ma non mi pare assomigli molto al mio spinacio. Invece le mie piante hanno indiscutibilmente l’aspetto di Tetragonia tetragonoides, lo spinacio di Cook.

Basella alba varietà rubra

Basella alba varietà rubra

Così, benché la mia amica insista che i semi provengono dal Sud Africa, continuo a pensare che australi sono, ma più oceanici che africani. Anche se con l’estate la produzione di foglie ha rallentato un pochino, questa pianta fornisce un’alternativa molto appetibile allo spinacio nostrano, disponibile in tutte le stagioni. Non teme molto la siccità e ha foglie croccanti e gustose.

Ancora da sperimentare è Basella alba varietà rubra, spinacio rampicante, di cui mi hanno regalato una pianta. La famiglia è quella delle Basellaceae, che prende il nome proprio da questo genere. Originaria dell’India, è conosciuta come spinacio Malabar ed è diffusa in Cina, tanto che a volte viene chiamata spinacio cinese.  Sistemata in un piccolo vaso nella mia serra, è rimasta quiescente per un po’, quasi volesse studiare l’ambiente, ma poi ha cominciato a crescere, ad allungarsi, alla ricerca di una meta o di un sostegno, con tenace esuberanza. Così l’ho messa a dimora vicino al pergolato della vite, dove continua instancabile a crescere un lungo sottilissimo stelo. Non gli ho ancora strappato una foglia, anche se  sono molto curiosa di assaggiarla.  Tuttavia ho qualche timore per lei perché ho letto che non è una pianta molto rustica e in climi come il nostro potrebbe comportarsi da annuale, ovvero non sopravvivere all’inverno.

Atreplice

Atriplex hortensis
Atreplice bionda (semi)

Tornando in Europa, a quella che era la famiglia delle Chenopodiaceae, ma oggi è stata definitivamente inserita nelle Amaranthaceae, l’atreplice bionda, un’antica varietà di spinaci orticoli dolci e delicati, è stata molto generosa quest’anno, ed è ormai tutta in seme.

Ho seminato poi il Chenopodium giganteum, noto in inglese come ‘tree spinach’, cioè albero degli spinaci perché la pianta potrebbe raggiungere un’altezza di 3 metri. Ho scoperto però che altro non è che un avatar (botanici e agricoltori userebbero l’espressione più consona di ‘varietà’) di Chenopodium album, farinello o farinaccio, piantaccia infestante e diffusissima su cui un giorno scriverò più a lungo (vedi 24 settembre 2009 nel vecchio blog).

Chenopodium album

Chenopodium album
Farinello (foto fatta per strada)

Erba dei derelitti e pane dei poveri, del farinello non si buttava via nulla, ma proprio nulla, perché anche i semi sono una specie di cereale, affine alla tanto decantata quinoa. Verdura velocemente dimenticata anche come spinacio selvatico, soppiantato, e giustamente, per fama e utilizzo dal celebre buon Enrico di cui ho già scritto altre volte, un nobile (anche per il nome) spinacio selvatico che cresce in ambiente di mezza montagna (sopra 300 m slm).

Chenopodium giganteum

Chenopodium giganteum

La varietà  Chenopodium giganteum è utilizzata anche come pianta ornamentale perché le giovani foglie hanno una sfumatura rossiccia veramente attraente. In un angolo solo parzialmente ombreggiato del giardino e senza chiedere più acqua del necessario, è cresciuto rigoglioso e colorato in quest’estate, per ora in verità più umida del consueto. Tutti lo trovano bello e allora se ne sta lì, a farsi ammirare,  mentre io aspetto l’occasione propizia per cucinarlo. Anche del Chenopodium giganteum si possono consumare i semi, ricavandone una specie di cereale e perfino una farina.

Si può cliccare sulle immagini per vedere la foto più grande in un’altra pagina

Aglio delle streghe

Aglio delle streghe

Allium coloratum

Questo aglio dalla chioma floreale scarmigliata, sia esso esso Allium coloratum, Allium pulchellum, oppure Allium carinatum, o ancora Allium carinatum subsp. pulchellum (c’è sempre una certa confusione fra i nomi, almeno per me), si è guadagnato fra tutti il nomignolo di aglio delle streghe. Ma non certo perché le antiche fattucchiere disdegnassero le altre specie, primo fra tutti quello coltivato, Allium sativum. Piuttosto forse per quel suo aspetto  così pittoresco e per essere pianta selvatica e vagamente misteriosa. Sono contenta di averlo incontrato oggi, lungo lo sterrato che conduce alle Miniere di Gambatesa in Val Graveglia (comune di Ne, Genova), lo stelo diseccato, ma il fiore ancora coloratissimo, come si conviene a un’erba un po’ magica.

Sembra che la parola Allium, derivi da un etimo celtico “all” che significa bruciante, con riferimento al sapore acre e pungente dell’aglio coltivato per cucina (Allium sativum) e di altre specie selvatiche. Nonostante l’odore penetrante e il sapore talvolta sgradito, tutte le specie di Allium sono commestibili e ogni parte della pianta trova un significativo impiego in cucina, dalla cipolla (Allium cepa) al porro (Allium ampeloprasum) fino all’erba cipollina (Allium schoenophrasum).  Le specie di Allium sono migliaia e ben note sono anche le loro proprietà officinali, antisettiche, ipotensive, balsamiche, antireumatiche, diuretiche, vermifughe, stimolanti, digestive, e espettoranti. Ma le antiche fattucchiere lo usavano per scacciare il malocchio, il diavolo e i vampiri e per questi poteri non è mai stato secondo a nessun’altra pianta. Mi piace pensare che sia proprio la sua ambivalenza, la pessima fama di chi lo consuma e lo fa sentire, contrapposta alle virtù salutistiche che possiede, che lo renda particolarmente intrigante per le arti magiche, come una pianta che repelle e cura.

Qualche altro post sul genere:
Allium roseum
Allium ursinum
Aglio con podalirio
Allium triquetrum
Allium sphaerocephalon

Agavi

Agave americana

Agave americana

Sulla scogliera di Sori, poco sotto al cimitero, le agavi sono in fiore. Ne ho contato tre, altissime infiorescenze giallo verdi, così imponenti da spaventare. Una sola si staglia abbastanza bene contro il cielo da risaltare in questa fotografia rubata dalla spiaggia. Il fiore è ancora florido e sfolgorante, ma il suo destino è segnato.  Come tutti sanno, quando il fiore va in frutto, la rosa di foglie carnose alla base ha terminato il suo compito e muore. E’ curioso che desti stupore la morte delle foglie dopo il frutto. Succede a moltissime altre piante. Le piante annuali, come la maggior parte dei prodotti dell’orto, si riseminano ogni primavera. Le biennali, come la carota, crescono soprattutto radici e foglie durante la prima stagione, vanno a fiore e frutto nella seconda, e poi sfioriscono e muoiono.
Naturalmente l’agave è diversa. Arriva dal Messico, dove ne esistono circa 300 diverse specie, e dove ha anche un valore commerciale perché dalle sue fibre viene estratta una bevanda alcoolica. Da diversi secoli ormai viene coltivata come pianta ornamentale in tutta la regione mediterranea. E’ una monocotiledone ed è stata definitivamente inserita nella famiglia delle Asparagaceae, con agli e giacinti. Cresce per 10, anche 15 anni prima che compaia finalmente, per la prima e l’ultima volta, il lungo stelo fiorito. Ma quando il frutto muore non ha neppure bisogno di rinseminarsi per ricrescere, perché la rosetta si riproduce facilmente per via vegetativa attraverso polloni radicali. Come dire che già sotto le foglie morte rinascono subito nuovi germogli. E allora non è vero che quell’infiorescenza immensa che sale alto alto sopra la sua foglia madre sia una specie di figlio snaturato che toglie la vita a chi lo ha messo al mondo. Le piante come l’agave sono più lungimiranti, sanno che è giusto che il vecchio si faccia da parte per far posto ai giovani virgulti.

(ripreso dal mio vecchio blog del 9 settembre 2008)

Genziana gialla

Genziana gialla

Gentiana lutea

La genziana più celebre, conosciuta e usata fin dall’antichità, non è azzurra, ma gialla. E’ la genziana maggiore, Gentiana lutea, una delle piante più citate nei testi dei medici naturalistici classici e moderni.
Questa pianta solida, imponente e sgargiante, è stata così ricercata e cacciata in tutti i tempi da mettere a repentaglio la sua sopravvivenza. Ma per fortuna si trova ancora facilmente, nei pascoli di mezza montagna, fra i 600 e i 2500 metri di altitudine, come in queste foto scattate nel parco regionale del Monte Antola, nei pressi del monte Pecoraia a circa 1400 metri.
Le foglie così simili a quelle del veratro, pianta assai velenosa, potrebbero, e certamente hanno tratto in inganno più di un malcapitato alla ricerca delle virtù officinali della genziana. Ma se le piante si osservano con pazienza e attenzione, l’errore è facilmente evitabile perché le foglie della genziana sono opposte, appaiate a formare coppe che alloggiano i bei fiori a forma di stella, mentre quelle del veratro sono alterne, pelose nella pagina inferiore e con nervature strettamente parallele.

Genziana gialla

Gentiana lutea

Chiamata anche genziana ‘anziana’, i suoi tesori sono racchiusi nelle radici, che venivano raccolte dal secondo anno di vita, dopo la caduta delle foglie. E’ un toccasana per i problemi di stomaco, ma utilizzata  dalla medicina popolare per una grande varietà di problemi di salute, dai morsi dei serpenti, alle affezioni oculari, dai disturbi del fegato fino, prima dell’avvento del chinino, alla malaria. Ingrediente principale di tanti liquori alpestri, vini digestivi e decotti, il suo gusto è spiccatamente amaro. La tradizione vuole che  un pezzo di radice di genziana nella grappa ne esalti il sapore e funzioni anche da corroborante per vincere il freddo.

Due malve

Due malve

Malva sylvestris
Malva multiflora

Due fra le più semplici malve di prato si incontrano sul ciglio della strada e insieme fioriscono, brillanti e delicate.
La malva selvatica, la più comune, è un fiore vistoso dai contorni netti e morbidi, è un colore e una storia. Rustica, selvatica, rozza, cresce dappertutto e non muore mai. C’era una grande pianta di malva al bordo del prato, è stata estirpata sei volte, e strappata, e letteralmente sbranata dai cani, e ancora rinasce ogni primavera, alta e prospera come nuova.
La seconda, più chiara nella foto e con le foglie più dentellate, dovrebbe essere della specie M.multiflora, in precedenza attribuita al genere Malope e a volte al genere Lavatera (oggi soppresso), non è molto diversa dalla sua sorella maggiore e più nota. Le differenze sono particolari da botanici, ma le distinguiamo anche noi profani, quando sono così vicine.

Altre malve descritte in precedenza nel blog:
Malva muschiata
Malva domestica