L’aconito sfoggia dense spighe di grandi fiori blu dall’elegante forma di elmo o di cappuccio. Fra i suoi nomi inglesi c’è proprio monkshood, cappuccio di monaco. Ma anche devil’s helmet, elmo del diavolo, perché la fama di questa pianta, piuttosto comune in tutta l’Europa temperata, dai Balcani alla Francia all’Ucraina e pure apprezzata come ornamentale, non è certo legata alla sua bellezza. L’aconito, si legge un po’ ovunque, è la pianta più velenosa presente nella flora europea e la sua lunga storia è costellata di aneddoti funesti. C’è chi lo ha scambiato con il rafano e ha grattugiato la sua radice per accompagnare l’arrosto e chi l’ha sgranocchiata ingenuamente durante una gita sui monti. Pochi hanno riportato testimonianza di che cosa sappia.
Doveva essere noto anche in Grecia, perché greco è il suo nome. L’etimologia è controversa, ma qualsiasi ne sia l’origine è certissimo che il primo significato è “erba velenosa”. I nomignoli gli fanno il verso, veleno di lupo, veleno di leopardo, veleno di topo e persino veleno di donna.
Ho già parlato della sinistra fama dell’aconito giallo, suo fratello più rustico e forse meno avvenente, ma altrettanto perfido.
Di questa specie, forse A.variegatus, di una tonalità fra il celestiale e l’angelico, una fioritura sterminata ornava i bordi di una strada collinare della Val Brevenna verso la fine del mese di agosto.
La tossicità dell’aconito deriva dalla presenza di alcaloidi, principalmente aconitina e nepalina, che sono fra i veleni vegetali più potenti che esistono. Essi si legano a proteine essenziali per la conduzione nervosa e il funzionamento del cuore. Questa stessa pianta tuttavia è utilizzata come farmaco nelle medicine tradizionali, prima fra tutte quella cinese, che indica varie metodiche per ridurne la tossicità. Le specie usate dalla medicina cinese sono differenti da quelle europee e sono A.kusnezoffii e A.carmichaeli, ma il loro aspetto è veramente simile alle nostre specie. L’aconitina viene menzionata già nel più antico libro di fitoterapia cinese, Shennong Bencao Jing ( 神农本草经 ), un trattato la cui origine è leggendaria, ma la cui edizione è storicamente collocata fra 200 avanti Cristo e 200 dopo Cristo. Catalogato fra le medicine ad azione violenta, l’aconito è consigliato in casi critici, malattie croniche e di difficile eradicazione, ed anche in tempi decisamente più moderni ne è riconosciuta l’efficacia come anti-infiammatorio, analgesico e antitumorale. La strategia che permette di recuperare queste virtù salutari da un preparato così tossico è appassionante come una formula magica. Si parla di immergere in acqua e sale per giorni, bollire, cucinare a vapore, e soprattutto combinare con altre sostanze, liquirizia, soia, peonia, zenzero, rabarbaro, cannella, che hanno il potere di neutralizzarne il veleno. Quello che chimicamente avviene mediante questi trattamenti è una reazione di idrolisi, ovvero la decomposizione degli alcaloidi diterpenoidi diestere in alcaloidi monoestere, meno tossici, fino agli alcaloidi diterpenoidi non-esterificati che non presentano più tossicità. L’aconitina diventa aconina e si converte da strega in fata buona. Ma che ne è della sua efficacia? I cinesi sono convinti che ne mantenga abbastanza per fare dell’aconito un rimedio significativo per malattie cardiache, reumatiche e nella terapia del dolore. D’altronde che servirebbe una medicina che uccide il paziente? Si rammaricano tuttavia i cinesi di non essere ancora riusciti a convincere gli occidentali che i loro metodi di detossificazione siano sicuri ed efficaci e che ancora dalle nostre parti si preferisca guardare quest’enigmatica affascinante ranuncolacea da opportuna distanza.
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