Il grespino si può consumare in insalata, è un ingrediente della zuppa lucchese di magro, così come del genovese preboggion, ed ha un posto importante nell’elenco delle erbe commestibili. Perciò ha anche tanti nomi popolari, come cicerbita, crespigno, lattarolo, e perfino cicoria, rubando il nome alla cicoria propriamente detta che fra l’altro i fiori ce li ha azzurri. Ma in fondo in fondo questa deliziosa insalatina selvatica un vero e proprio nome non ce l’ha. Il suo nome scientifico è Sonchus, uno degli innumerevoli generi di margherite gialle della sterminata famiglia delle asteracee. Insieme al suo fratello Sonchus oleraceus, che ha foglie più molli e rotondeggianti, è un’erba urbana rampante che ha colonizzato tutti, ma proprio tutti gli ambienti antropizzati ed è oggi, almeno a Genova, il fiore più comune negli incolti, sui bordi dei marciapiedi, fra pietra e pietra, ed ovunque negli angoli più impensabili delle strade.
In un vecchio post (vecchio blog, 9 febbraio 2009 ) (dove forse avevo fatto un po’ di confusione, come sempre da dilettante quale sono, fra S.olearaceus e S.asper) già lo avevo descritto.
“Il grespino è un’erbaccia qualsiasi, con i fiori giallo oro del tarassaco, ma più piccoli, i soffioni bianchi del senecio e steli lunghi, lunghi e cavi che se spezzati grondano lattice. Spunta negli orti e negli incolti, ma anche sui bordi delle strade e sui ruderi, sul bordo di un muro, in quelle crepe dell’intonaco dove la pioggia e il vento trascinano quel po’ di terra che basta a far crescere le piante pioniere.”
Commestibile o no, quello che mi sorprende, mi indigna ed intenerisce insieme, è la capacità di questi fiori di crescere alti e fioriti, belli come il sole, in mezzo ai rifiuti dell’umanità.