Prepotentemente salite alla ribalta da un paio d’anni e pubblicizzate come toccasano universale per ogni sorta di malanni, le bacche di goji non sono certo una novità per la cucina e la medicina tradizionale cinese. L’improvvisa popolarità nei paesi ‘occidentali’ di questo piccolo frutto, che secco ha un leggero sapore di uvetta amarognola, non è immune da dubbi ed equivoci. A cominciare dal nome. Il nome moderno goji sarebbe una translitterazione di un cinese gǒuqǐ (vi risparmio i caratteri), che significa … bacca. Le proprietà medicinali, o quantomeno preventive, di queste “bacche bacche” sono legate alla presenza di flavonoidi con rilevanti proprietà antiossidanti e antimicrobiche. Qualche risultato in tal senso è stato certamente documentato, ma i flavonoidi sono contenuti in quasi tutte le piante. Che quelli del goji siano migliori e più efficaci, francamente non saprei. In più, il Lycium, nome scientifico che deriverebbe dall’origine persiana (Licia era l’antico nomea della Persia), appartiene alla famiglia delle Solanacee, una famiglia ambigua che comprende pomodori, patate, peperoni e melanzane, ma anche piante decisamente velenose come la belladonna e il giusquiamo nero, le dature e il tabacco. Secondo certi studi, anche le bacche di goji contengono atropina, l’alcaloide velenoso della belladonna, seppure in quantità probabilmente modeste.
Molti dubbi e poche certezze, ma anche tanta curiosità. E una pianticella di goji è arrivata nel mio giardino ed è cresciuta spavalda resistendo a una attacco di parassiti che ha coperto le sue foglie di piccole ciccatrici biancastre. E’ fiorita abbondantemente, coprendosi di stelline viola pallido, e ha prodotto moltissime bacche, rosse. Le abbiamo assaggiate, crude, decisamente amare, assai meno gradevoli di quelle passite che si trovano in commercio.
Sono contenta che cresca e spero possa guarire. Da lei non mi aspetto miracoli, guarigioni prodigiose o eterna giovinezza. Ma la compagnia discreta e divertente di un alberello esotico dalla storia millenaria.