Ho incontrato un’Hepatica nobilis al bordo del bosco. E’ precoce davvero, ma lontana sul pendio e non si fa riprendere volentieri. Però non ho scelta, c’è solo lei. Il nome non le si addice, e neppure mi piace chiamarla erba trinità, vorrei davvero trovare un altro nome per questo primo fiorellino incerto, caparbio testimone che l’inverno prima o poi finisce davvero. Sono giorni di attesa, quasi spasmodica, ma non occorre avere fretta. Troppo velocemente si dipanerà la forza della primavera, quando ne avrà voglia.
Passeggio e contemplo la grazia arcana degli ellebori selvatici, Helleborus foetidus, non puzzolente, ma dal forte odore, fiori verdolini e rossi nel cuore. Tutte e due, elleboro e epatica, sono della famiglia della Ranunculaceae, fiori temerari e appariscenti, spesso velenosi.
Nel giardino, il calicanto d’inverno, Chimonanthus fragrans, lui sì profumatissimo, e la camelia, Camellia japonica, sono fioriti in abbondanza. La stagione offre questo, e non molto di più.
Gli alberi, come sempre nudi da sembrare morti, trattengono testardamente qualche brandello di giallo, mentre le intemperie hanno falcidiato quelli che per loro natura non si spogliano mai.
L’inverno quest’anno è grigio, senza neve, ma fradicio e intirizzito, un inverno costretto, in cui si avrebbe voglia di esplodere e liberarsi da tutte le catene, volare forse, trascinati da questo vento pazzo, proprio come le foglie che già si sono disperse dai rami. L’inverno quest’anno è lungo, è arrivato e non se n’è più andato. Ma per fortuna c’è il vento.
«Be through my lips to unawaken’d earth
The trumpet of a prophecy! O Wind,
If Winter comes, can Spring be far behind?»
(Percy Bysshe Shelly, Ode to the West Wind)