Come tutti gli anni, nello stesso posto, sul ciglio della strada, fiorisce, precoce e umile, il farfaraccio. Fra qualche cartaccia dimenticata, in mezzo alle foglie a forma di cuore, spuntano stelline bianco rosate e gemme delicate. Lo avevo già incontrato (8 marzo 2010) ai margini di questo boschetto in discesa, come sempre ingombro di rifiuti. Forse quest’anno è in anticipo, come molte altre fioriture; forse negli anni scorsi non l’avevo osservato così presto. Questa pianta veniva chiamata Petasites fragrans, volgarmente ‘vaniglione’, probabilmente per distinguerlo da altri dall’odore meno gradevole; ma oggi gli viene attribuito con certezza l’epiteto specifico di pyrenaicus dalla sua regione di origine. Dalla Spagna ha colonizzato facilmente l’intero Mediterraneo, anche se in Liguria è ancora considerata alloctona naturalizzata.
Oggi nel bosco le foglie del farfaraccio vaniglione sono piccoli cuoricini verdi e ordinati. Ma non è sempre così, perché talvolta le foglie di questa pianta possono assumere dimensioni ragguardevoli. Il suo nome deriva dalla parola ‘petasos’ che in greco significava un cappello a larghe tese. Infatti le ampie foglie, spesse e molto impermeabili, si prestano a diventare copricapi di fortuna per offrire riparo dalla pioggia. Questo è vero soprattutto per quel farfaraccio comune, Petasites hybridus, le cui foglie possono raggiungere gli 80 cm di larghezza.
La pianta, molto diffusa nelle sue varie specie, cresce in gruppi e forma colonie. Le foglie compaiono dopo i fiori e crescono addossate le une alle altre tappezzando completamente il terreno, come in questo giardino polacco. Non sembra quasi che quei delicati fiorellini, che si aprono sulla sommità di un robusto gambo, ornato di un’altra sorta di foglioline (brattee) rossastre, appartengano alla stessa pianta delle larghe foglie. L’ho incontrato anche nella versione bianca Petasites albus, più in alto sui monti dell’Appennino (vedi 14 aprile 2009), con capolini disposti in dense spighe ovali. Si dice che alcune specie di Petasites siano commestibili, ma tutte, anche le meno appetibili, contengono principi officinali ed erano utilizzate come rimedio per vari disturbi, dalla tosse all’insonnia. Come spesso accade però in tutte le piante medicinali, sono presenti anche componenti tossici, e in particolare alcaloidi dannosi per il fegato.