Fitolacca a Ravecca beach

Fitolacca, cremesina uva turca e persino amaranto(1), quanti nomi per quest’erba, irruente e robusta, che cresce con grande velocità, infesta campi e fossati, ruderi e cortili, rivi e scarpate, con travolgente esuberanza.

Phytolacca americana

Neofita invasiva, ormai naturalizzata ovunque (ma da dove viene si capisce dal nome specifico), ha fiori, disposti in sorta di pannocchiette (tecnicamente racemi) bianchi verdastri (ma non sono petali, piuttosto elementi sepaloidi) che si traformano in lucide bacche verdi, poi porpora e infine nero-purpureo. Tutti i nomi di questa pianta ne richiamano l’uso come colorante, anche alimentare(2) e, seppur certamente tossica, è specie officinale, usata dagli indiani d’America per vari usi medicamentosi, e oggetto di studio per possibili proprietà antivirali e antitumorali. Commestibili sarebbero i germogli, se si fanno a lungo bollire (coglieteli lontano da traffico e fumi e provateli a vostro rischio) e le bacche, se opportunamente trattate (come spero lo siano quando vengono usate per colorare il vino). Per crescere non chiede davvero permesso e si trova nei luoghi più inaspettati.

Fitolacca

Phytolacca americana

Eccola prosperare indisturbata nelle aiuole incolte, padrona dell’improbabile ‘Ravecca beach’, ai margini di quella storica, antica direttrice che va dalla porta Soprana o di Sant’Andrea a piazza Sarzano, nel cuore del centro antico di Genova. Via di Ravecca, toponimo di origine sconosciuta, era popolata fin dal medioevo, prima da nobili (Embriaci e Fieschi) poi da ceti sempre più popolari. Le vicissitudini delle guerre l’hanno ferita più volte, dalle bombe francesi del 1648, a quelle anglo americane dell’ultima guerra mondiale, che rasero al suolo la vicina via Madre di Dio, oggi totalmente ricostruita. Negli ultimi decenni del XX secolo, la zona era ancora ingombra di macerie e piuttosto degradata e fu una delle ultime ad essere rinnovata. Oggi brulica di vita e commercio; ma anche di erbacce. Come la fitolacca, che in fondo mi è simpatica, come tutte le piante, belle, che crescono in mezzo a pietre e rovine, riconquistando con leggerezza e noncuranza lo spazio che era stato loro strappato dalle effimere costruzioni umane.

Sua sorella, Phytolacca dioica, maggiore perchè è un albero alto, imponente e decorativo, viene spesso piantata nei giardini e nei viali.

(1) L’amaranto, quello vero, è una pianta differente.
(2) Il nome americano è pokeweed, e deriva da come la chiamavano gli algonchini, gli indiani di Pocahontas; ma viene usato anche inkberry, che richiama nuovamente le sue proprietà coloranti.

Un’aiuola di asfodelo giallo

Asphodelina lutea

Asphodelina lutea
Papaver rhoeas

Fra viale Quadrio e via Mura della Marina, questa zona del centro città è stata protagonista di profonde trasformazioni anche spettacolari, come l’implosione di un vecchio edificio che ospitava la caserma dei pompieri per far posto a un più utile parcheggio. E più giù, verso l’inizio di via delle Grazie e la cosidetta casa del Boia, uno slargo a ridosso delle mura ospita in questo periodo il tanto deprecato mercato degli islamici, che stendono per terra i loro tappetini e espongono in vendita la loro merce, usata e di dubbia provenienza, in barba a leggi e permessi che dovrebbero regolamentare queste attività.
Ora in un’aiuola a bordo strada, forse per caso, sbocciano gli immancabili papaveri, tanto colorati quanto effimeri, e uno sgargiante mazzo di asfodeli gialli, vistosi e vagamente inquietanti come tutti gli asfodeli. In campagna, gli animali erbivori evitano queste piante tossiche e le lasciano stare contribuendo a alla loro diffusione, che è indice di degrado
Ma gli asfodeli sono belli e misteriorsi (ci sono molte perplessità sull’origine stessa del loro nome) e ora in questo pezzetto di città, confuso e disordinato, un’aiuola abbandonata trabocca di primavera.

Bocche di leone della Malapaga

Antirrhinum majus

Antirrhinum majus

Le mura della Malapaga a Genova corrono da piazza Cavour alla magnifica porta del Molo progettata dall’architetto Galeazzo Alessi e conosciuta come Porta Siberia. I nomi raccontano storie. Il palazzo della Malapaga, dove le mura cominciavano, era una prigione dove venivano incarcerati coloro che non riuscivano a pagare i debiti, mentre il nome Siberia deriva da cibaria, in genovese pronunciato più o meno “sibaria”, perchè adiacente ai magazzini del grano. Per la generazione dei miei genitori, le Mura della Malapaga ricordavano inevitabilmente Jean Gabin e un celebre film italo francese che nel 1951 vinse l’oscar per migliore film straniero.
Portate dal vento negli anfratti della muraglia, fra le pietre e il cemento, le bocche di leone non hanno avuto bisogno di molto per germogliare e fiorire. Tanto sofisticate sono le variopinte corolle, concresciute a labbra per offrire accoglienza sensuale a devoti impollinatori, tanto modeste sono le pretese di questo fiore, che fra le macerie e la ghiaia trova l’ambiente naturale più congeniale. Selvaggio come l’ailanto che cresce alto e scarmigliato oltre la cancellata del porto, nomade per destino, invasivo per vocazione.

Mura della Malapaga

Mura della Malapaga

vedi anche per l’ailanto, 25 agosto 2008
per le bocche di leone, 26 settembre 2009