I fiori del nespolo

Eriobotrya japonica - nespolo del Giappone

Eriobotrya japonica – Fontanegli

Diversi anni fa, in primavera, i miei gentili vicini, due fratelli d’altri tempi, veri appassionati di orti e giardini, mi portarono in regalo una cassetta di frutti singolari: piccole nespole dalla polpa quasi bianca, morbide e saporite, una vera rarità dalle nostre parti. Era stato un anno particolarmente mite e loro erano i primi ad essere stupefatti di quell’abbondante raccolto. Le nespole che si trovano al mercato già a marzo provengono dalla Spagna o dal Sud Italia, mentre è raro che i nespoli portino frutti a maturazione alle nostre latitudini. Invece fiori se ne vedono tanti, da novembre a febbraio, carnosi e profumati in pannocchiette bianche fra le foglie lucide e spesse. I fiori dell’inverno.
Il nome volgare dell’albero è nespolo del Giappone e già qui si incespica in due inesattezze che confondono un poco.

Eriobotrya japonica

Eriobotrya japonica – Castelletto

Eriobotrya japonica è soltanto lontano parente di quel Mespilus germanicus a cui si deve più correttamente il nome di nespolo (vedi 5 ottobre 2009).
Certo, appartengono alle stessa famiglia delle rosaceae, e certo i frutti hanno una vaga somiglianza; ma nulla di più. Il ‘falso nespolo’ poi non è neppure giapponese, ma cinese. Una storia complicata, e lunghi viaggi, hanno imbrogliato le sue vere origini.
Se in Campania e in Sicilia, nel sud della Spagna e in Algeria, Eriobotrya japonica ha trovato una seconda patria, adattandosi perfettamente e producendo ottimi frutti, nei giardini della città gli alberi di nespolo sembrano un po’ spaesati, con le loro lunghe foglie persistenti, sferzate e macchiate dalle intemperie, con quei fiori invadenti, eppure invisibili nella nebbia invernale, miracolo sprecato, sempre troppo ‘fuori stagione’.

L’ascensore di Castelletto

Ascensore

L’ascensore liberty di spianata Castelletto (edificato 1909)

“Quando mi sarò deciso
d’andarci in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto…”

E’ diventato famoso anche per questi versi di Giorgio Caproni l’ascensore liberty che collega la centrale piazza Portello con la spianata di Castelletto e ha festeggiato i cento anni nell’autunno 2009. L’impianto originale, una colonna interamente di vetro, l’ha perduto sotto i bombardamenti della  guerra, ma l’aspetto della stazione di arrivo, anche grazie alla recente ristrutturazione, è ancora quello dei suoi anni migliori.

Ogni volta che lo rivedo è come incontrare un vecchio amico. Da ragazzina, era il mio principale mezzo di trasporto, che mi collegava velocemente al centro della città, e mai gli avrei attribuito doti estetiche nè di attrazione turistica. D’altra parte, in quegli anni Genova di turistico aveva ben poco.

Fino alla metà del 19° secolo, su questo piccolo sperone che sovrasta il centro storico si trovava una fortezza, da cui il nome Castelletto, che fu distrutta nel 1849, spianata appunto, guadagnando alla città uno spettacolare punto panoramico. La vista spazia dall’arco delle montagne di ponente, alla Lanterna, fino all’estremo levante, il monte Fasce. Ma poi si ferma sulla città antica, con i sui tetti grigi, le linee eleganti e contorte, più avanti, verso un groviglio di costruzioni vecchie e nuove, accatastate in una breve striscia di terra. Appena poco oltre finisce tutto, in una mobile distesa di acqua azzurra.

Cipresso nano

Cipresso nano

vite americana

Parthenocissus tricuspidata

Il belvedere è dominato da solidi alberi mediterranei che temono il freddo, ma hanno imparato a tollerare il vento. Pini domestici soprattutto, come quelli incontrati recentemente in un altro punto della circonvallazione.  Poco sotto il muretto vicino all’ascensore, dietro gli storici palazzi dei Rolli di via Garibaldi, gli uffici del comune di Genova sono alloggiati in edifici più recenti sovrastati da giardini pensili. Qui piccoli cipressi nani crescono storti, come volessero prendere il volo.
L’autunno regala i suoi colori al vecchio intonaco, decorato di arancio e rubino dalle foglie della vite americana, Parthenocissus tricuspidata, che già avevo mostrato il 27 novembre 2009.

 

Piccole Koelreuterie crescono

Le Koelreuterie sono comparse, minute e lucenti, su un lato del viale corso Paganini, fra ponte Caffaro e Castelletto in Circonvallazione a monte, messe a dimora da poche settimane in sostituzione delle sofore del Giappone (Styphnolobium japonicum).

Koelreuterie

Koelreuteria paniculata
corso Paganini – luglio 2019

Sull’altro lato della strada, prospicienti un alto muraglione, dominano, austeri e negletti, i pini. Ma lungo il marciapiede di accesso ai palazzi di abitazione, alte e nobili costruzioni ottocentesche, ci vuole qualche cosa di più arioso e cangiante.
Le sofore avevano sofferto parecchio,  regolarmente soggette a drastiche potature, o meglio barbaramente capitozzate (vedi anche 8 dicembre 2008) e forse non hanno retto allo stress. Spesso gli alberi di città hanno un’esistenza grama, perchè devono sacrificare le loro esigenze di radici, rami e chiome in spazi costretti e malati.

Sofora

Sofora japonica
(Styphnolobium japonicum )
corso Paganini – dicembre 2008

Auguro vita migliore alle nuove arrivate, piccole Koelreuterie, che allietano la nostra estate, torrida e tempestosa, con i loro grappoli di palloncini dorati a forma di cuore. Le hanno sistemate per bene, in eleganti gabbiette di tubo verniciato che potrebbero proteggerle, almeno per un po’, dagli insulti dei mezzi motorizzati.

Se il nome, Koelreuteria paniculata, non sembra uno dei più semplici da pronunciare e memorizzare(1), possiamo salvarci chiamandolo semplicemente albero della lanterne cinesi; e uno sguardo fugace alla sua chioma d’estate spiega il perchè.
Introdotto in Europa dalla Cina settentrionale già nella seconda metà del 1700, questo snello alberello è oggi spontaneizzato in diverse regioni d’Italia come alloctona casuale e addirittura alloctona naturalizzata in Toscana. Ma non in Liguria, dove non si vede frequentemente; ed è stata una graziosa sorpresa scoprirla qui

Koelreuteria

Koelreuteria paniculata
corso Paganini – luglio 2019

(1)Non è difficile immaginare che questo nome sia stato attribuito in omaggio al grande botanico tedesco Joseph Kölreuter (1733–1806), membro dell’Accademia di Pietroburgo. Kölreuter è uno studioso molto importante non solo per la botanica, ma anche per l’agricoltura, perchè è stato il primo a studiare scientificamente i fenomeni dell’ibridazione, un processo usato anche per ottenere nuove varietà o specie vegetali.

Selezionando le immagini, queste si aprono in un’altra pagina in dimensioni 800×600 px

Alberi da tetti

Alberi da tetti

Alberi da tetti
Fraxinus ornus

Sono di moda i giardini pensili. Non da oggi, ma oggi più che mai. Si chiamano tetti verdi e richiedono piante resilienti, che vivono con poca acqua e sono disponibili a lasciarsi arroventare dal sole. Come tappeti fioriti, pare che funzionino bene le margherite australiane, Chrysocephalum apiculatum  oppure qualche pianta grassoccia, aizoacea come Carpobrutus  (12 maggio 2009), o meglio Disphyma crassifolium.
Ma gli alberi? In generale, ben piantati nella terra, hanno bisogno di meno acqua dei fiori. Il che non vuol dire che non ne abbiano bisogno per niente. Certamente hanno bisogno di terreno, ma sui tetti possono crescere, o almeno cominciare.
Fra i più famosi alberi da tetti, ci sono i lecci che prosperano sulla sommità della  torre Guinigi a Lucca. Il leccio è  albero resiliente per eccellenza, avvezzo alla calura mediterranea, con foglie coriacee e asciutte.

Alberi da tetti

Fraxinus ornus

Anche l’orniello, Fraxinus ornus, ci prova, su questo tetto del castello De Albertis, affascinante edificio che si erge su una collinetta, Montegalletto, prospiciente il porto di Genova. Sotto di lui domina il denso verde degli immancabili pini, e sullo sfondo gli alveari da crociera ricoprono il mare. Per ora è davvero piccolo, poco più di un germoglio, una fraschetta affacciata in una crepa del cornicione, che spinge per salire, anche se sarà davvero difficile che diventi grande.
Verrà, temo, divelto quanto prima, perchè l’estetica del luogo è perfetta e lui un passeggero clandestino. Potrebbe persino, se ci si mette d’impegno, danneggiare l’integrità della costruzione. Non si può prevedere quale sarà la sua sorte perchè, anche lasciato a se stesso, per incuria più che per pietà, forse non sarà mai simile ai suoi simili che crescono nella terra piena. Ma l’orniello è un albero testardo e vagabondo, capace di riempire di fiori e profumi anche gli angoli più spogli e grigi della città e potrebbe riservare delle sorprese.

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Vita da pino

Pino

Pinus pinea
Pino domestico, corso Firenze

In un piccolo belvedere in circonvallazione a monte, sull’ultima curva di corso Firenze, il lungo viale alberato che sovrasta e circonda Genova dall’alto, un robusto pino è cresciuto storto. Che più storto di così non si può.

Il pino domestico, Pinus pinea, chiamato anche pino ad ombrello o pino da pinoli, è forse l’albero più diffuso e conosciuto nel nostro paese (vedi 27 gennaio 2010).  Le alte fronde verdastre, compatte eppure sfuggenti, la sua corteccia che si sfalda in larghe squame, le grandi pigne, costruite come uno scrigno per racchiudere i semi legnosi, piccole noccioline dolcissime, tutto di lui ci è familiare e nella nostra immaginazione pino è sinonimo di albero. Troppo familiare e troppo ovvio, troppo familiare e troppo trascurato.
La sua vasta chioma è uno dei sui misteri. Tutti i suoi più vicini parenti, le conifere, si assottigliano verso l’alto; lui, invece, si allarga, e il perchè di questo rovesciamento non è ovvio. Sembra che questa forma sia dovuta alla  competizione per lo spazio con altri alberi nel suo ambiente originario. Ipotesi lecita, ma insoddisfacente. Neppure è certo qual era il suo ambiente originario; mentre quello che si sa è che il pino cresce prevalentemente su ambienti sabbiosi e non alimenta quasi alcun sottobosco.
La sua bella forma è anche una sua debolezza. Imponente e fragile, è la vittima più frequente dei venti maligni e per questo talvolta guardato con sospetto per il potenziale pericolo che rappresenta.  In realtà è instabile perchè non ha quasi mai abbastanza posto per le radici, letteralmente soffocato da asfalto e cemento. O peggio, obbligato a crescere in posizioni scomode e improbabili. Come questo esemplare, così robusto e così deformato, quasi penzolante dalla ringhiera di una terrazza.

Pino

Pinus pinea

Se l’albero della prima foto rappresenta l’esempio estremo di contorto adattamento, nessuno dei pini di questo scampolo di giardino ha un portamento naturale, tutti un po’ vittime dell’urbanizzazione dei fusti e delle radici. Il suo compagno nella foto a destra, selvaggiamente capitozzato, ha cresciuto un fusto ausiliario, più sottile, che si è anch’esso inevitabilemte piegato, sospinto da chissà quali urgenze, venti, o necessità, sempre alla ricerca di un migliore spazio vitale.

Sulla capitozzatura degli alberi (tree topping) riprendo quanto scrivevo il giorno 8 dicembre 2008, dal sito di Plant Amnesty, un’organizzazione internazionale no profit dedicata alla promozione delle corrette tecniche di giardinaggio e potatura.
– La capitozzatura è il danno più serio che si possa infliggere a un albero. Essa provoca la carie del legno e affama la pianta, rimuovendo la fonte di cibo, cioè le foglie, che sintetizzano il suo nutrimento. Oltre ad essere fortemente nociva, questo sistema non funziona quasi mai per contenere le dimensioni dell’albero. Infatti l’albero, dopo la mutilazione, aumenta disperatamente il ritmo di crescita dei rami nel tentativo di rimpiazzare rapidamente la superficie fogliare perduta. Inoltre non può in nessun caso essere efficace per contenere le dimensioni di una grande pianta: un acero giapponese o un maggiociondolo potranno crescere da tre a nove metri, mentre una quercia e un frassino raggiungeranno comunque 25, 30 metri e non è possibile fermarli capitozzando. Se ci si riesce, allora si è ucciso l’albero. Infatti, solo se l’albero è così danneggiato da essere prossimo alla morte, la drastica potatura arresta per sempre la sua crescita.
Inoltre la capitozzatura è costosa, per la necessità di continue correzioni dei succhioni (nuovi germogli lunghi e magri) e, se causa, come spesso accade, la morte dell’albero, per la sua rimozione.
La capitozzatura è brutta. Branche e rami appena tagliati ricordano moncherini di gambe e braccia amputate. L’albero perde per sempre la sua linea e non riacquisterà più l’armonica forma naturale.
La capitozzatura è pericolosa: la carie causa la perdita dei rami, la fame lo rende suscettibile di marciume radicale, causa comune del crollo, i nuovi rami sono più deboli e non hanno l’integrità strutturale di quelli originali; inoltre la densa ricrescita dei succhioni rende la chioma molto pesante e molto meno permeabile ai venti e ciò aumenta la possibilità di schianti in caso di tempeste. –

Purtroppo passano gli anni e continuiamo ad assistere a questi scempi ad ogni stagione.

Bagolaro potato

Celtis australis

Bagolaro (Celtis australis) potato, anzi capitozzato

Ti abbiamo tagliato,
albero!
Come sei spoglio e bizzarro.
Cento volte hai patito,
finché tutto in te fu solo tenacia
e volontà!
Io sono come te. Non ho
rotto con la vita
incisa, tormentata
e ogni giorno mi sollevo dalle
sofferenze e alzo la fronte alla luce.
Ciò che in me era tenero e delicato,
il mondo lo ha deriso a morte,
ma indistruttibile è il mio essere,
sono pago, conciliato.
Paziente genero nuove foglie

Da rami cento volte sfrondati
e a dispetto di ogni pena
rimango innamorato
del mondo folle.

(Hermann Hesse, Quercia potata – traduzione di Adriana Apa)

Wie haben sie dich, Baum, verschnitten
Wie stehst du fremd und sonderbar!
Wie hast du hundertmal gelitten,
Bis nichts in dir als Trotz und Wille war!
Ich bin wie du, mit dem verschnittnen,
Gequälten Leben brach ich nicht
Und tauche täglich aus durchlittnen
Roheiten neu die Stirn ins Licht.
Was in mir weich und zart gewesen,
Hat mir die Welt zu Tod gehöhnt,
Doch unzerstörbar ist mein Wesen,
Ich bin zufrieden, bin versöhnt,
Geduldig neue Blätter treib ich
Aus Ästen hundertmal zerspellt,
Und allem Weh zu Trotze bleib ich
Verliebt in die verrückte Welt.
(Hermann Hesse, Gestutzte Eiche – 1919)

L’acero del rabbino

Acer pseudoplatanus

Acer pseudoplatanus

L’acero di monte della foto si trova proprio davanti al tempio israelitico o sinagoga di Genova, in via Bertora, una traversa di via Assarotti. L’acero è un albero imponente e aggraziato. Se ha foglie palmate e fiori penduli è quasi certamente Acer pseudoplatanus, detto acero di monte, acero fico o sicomoro (per la descrizione vedi anche 1 maggio 2009). Questa è senza dubbio la stagione in cui da il meglio di sè, con le nuove foglie tenere e brillanti e i grappoli di fiori luminosi; in autunno, le larghe foglie palmate assumeranno colori piacevoli, anche se non così emozionanti come quelli degli aceri americani. La città è ricca di grandi alberi di bosco, alcuni felici, altri un po’ meno, tutti rinvigoriti dalla bella stagione; e in mezzo al verde cupo di pini e lecci, è piacevole scoprire questo fresco colore di primavera. La sinagoga di Genova è un edificio maestoso e severo, abbastanza blindato per comprensibili motivi; ma la pittura sulla facciata e le iscrizioni in alfabeto ebraico la arricchiscono di un vago fascino esotico, addomesticato dall’albero, così domestico, europeo, nostrano.
Salendo oltre la sinagoga, attraverso un breve intrico di scale, si raggiunge velocemente corso Solferino, circonvallazione a monte.

L’ippocastano di piazza Manin – capitolo secondo

Aesculus x carnea

Ippocastano rosa
Aesculus x carnea

In piazza Manin è cominciato il rimboschimento. Al posto del vecchio ippocastano abbattuto (vedi post precedente del 7 febbraio 2015), e anche di altri che evidentemente hanno avuto lo stesso destino, sono stati messi a dimora piccoli ippocastani rosa, varietà assai piacevole alla vista, per lo meno per il tempo che durano i suoi fiori lucenti. Credo si tratti dell’Aesculus x carnea, ibrido fra l’appocastano comune A.hippocastanum e la specie a fiori rossi A.pavia (anche chiamata Pavia rubra). Questi alberelli hanno l’aspetto minuto, il fusto esile, quasi affaticato dal peso del lussureggiante fogliame e dei vistosi coni fiorali. Alla loro ombra acerba, contrasta quella terza età umana che si gode il meritato riposo sulle panchine della piazza.

Aesculus x carnea

Aesculus x carnea

Veronica

veronica cymbalaria
Fra le erbette più sfacciate e precoci, le inarrestabili erbacce vagabonde, timide e discrete, ma inesorabili, capaci di crescere su un nulla di terra di una vaso abbandonato o nel bordo insignificante di un aiuola, ma sempre e dappertutto, e non appena il giorno concede un accenno di primavera, macchè di fine inverno come questo, ancora senza grande convinzione, fra quest’erbe, dicevo, un posto in prima fila spetta alle piccole veroniche, bianche come roselline o blu come gli occhi della Madonna. Questa Veronica cymbalaria (26 febbraio), cosidetta perchè assomiglierebbe alla Cymbalaria muralis, anche se con le moderne classificazioni non è nemmeno sua parente, cresceva proprio in un vaso abbandonato per strada, naturalmente in buona compagnia di graminacee e parietaria. Come non commuoversi di fronte alla sua spavalda fioritura?