Mi trovo per caso nel quartiere di Marassi, un affastellato di ripidi condomini che si inerpica sulla collina, e in un cortile di via Raffaele Ricca (ma chissà chi era costui), scopro un grande albero coperto di frutti molto colorati. E’ un kumquat di taglia decisamente grande e accanto a lui cresce l’immancabile ligustro (Ligustrum lucidum), leggermente oppressivo, e un timido sambuco nero (Sambucus nigra), almeno quest’ultimo specie selvatica e indigena delle nostre terre.
Tre alberi in un piccolo giardino sul bordo di una piccola strada fra cemento e inferriate. Il kumquat viene chiamato mandarino cinese, nome curioso e necessariamente generico, dato che praticamente tutti gli agrumi, e il mandarino in particolare, vengono dalla Cina (1). Una volta pensavo che il suo nome corretto fosse Fortunella japonica, nome curioso e divertente, ma oggi lo trovo sempre chiamato Citrus japonica, che vorrebbe dire agrume giapponese. Il sapore, è noto, non assomiglia al mandarino, ma è decisamente più acidulo e la polpa è gustosa, ma più dura. Forse i frutti di questo esemplare non saranno particolarmente appetibili e forse non era intenzione di chi l’ha collocato qui di utilizzarlo per dessert. Quest’albero mi ha stupito perché è molto grande e molto carico, assai di più di quelli che avevo visto anni fa in riviera, ma mi rallegra che sia così felice in un luogo in cui gli alberi certamente danno assai di più di quello che ricevono.
(1) Oggi ho soddisfatto una piccola curiosità chiarendo una volta per tutte che cosa abbiano in comune il gustoso frutto invernale, i funzionari e la loro lingua. La parola mandarino venne usata dai portoghesi per designare i funzionari dell’impero cinese che vestivano di arancione e usavano la lingua dotta ancora oggi nota come ‘cinese mandarino’. Quindi prima ancora dei kumquat e dei mandarini propriamente detti, i mandarini erano delle persone.