Piazza Piccapietra, un quadrato di cemento che copre un enorme garage sotterraneo, si è riempita di lantane. La scelta non mi sorprende perché nelle aiuole a vasca che ne delimitano il perimetro poche piante si troverebbero a proprio agio. Lantana camara è una pianta robusta, coriacea, esotica senza averne l’aria, si adorna senza farsi pregare di tanti piccoli fiori aggraziati, che sbocciano a mazzi fra le ruvide foglie, e soprattutto è una pianta molto tollerante a svariate avversità, fra cui siccità e inquinamento. Proprio per la sua esuberanza, è ormai considerata pianta invasiva in molte aree tropicali e non solo.
Questa piazza, anonima e spenta come tante altre che si aprono nei centri delle città moderne senza una vera ragione o una storia, è letteralmente nata sulle macerie della II guerra mondiale. Oggi il quartiere si chiama Piccapietra, nome che ha un’origine tradizionale per la presenza nell’area di botteghe artigiane di scalpellini, ma che si adatta bene agli avvenimenti della fine degli anni 1940 quando l’antico quartiere di Portoria distrutto dai bombardamenti perse completamente la sua fisionomia di pietra e ardesia e venne definitivamente demolito dai picconi per trasformarsi gradatamente e inesorabilmente in un agglomerato grigiastro di cemento.
Vado raramente in centro, ormai solo una o due volte al mese, e quando ci vado provo la strana sensazione di trovarmi in una città che assomiglia molto a una che avevo conosciuto bene molti anni fa. Gli angoli delle strade, gli scorci di cielo, i giochi d’ombra e silenzio me li ricordo bene. Ma la città non è più la stessa, l’umanità è cambiata ed io, che sono un’insicura cronica, ho sempre timore di inciampare in qualche novità imprevista. La folla dei turisti poi mi sorprende e inquieta perché mai nella mia gioventù avevo neppure immaginato Genova come una città turistica. Forse per questa nuova vocazione della città è così importante cercare di abbellire persino le vasche di cemento. Senza poter nulla fare, tuttavia, contro l’impetuosa invasione della Coniza canadese (Erigeron canadensis), ormai signora e padrona di qualsiasi angolo di mondo.
Soltanto pochi anni fa, le aiuole della vicina via XII ottobre erano invase da rigogliosi cespugli di morella (Solanum nigrum), senza nessuna cura o preoccupazione di estetica o decoro. La morella è infestante storica di ogni incolto cittadino, pianta autoctona la cui incontrastata diffusione oggi è quasi compromessa dall’arrivo di alloctone di lei strette parenti come la morella falso chenopodio (Solanum chenopodioides).
La città, sempre di più, è un ambiente vulnerabile, che esige cure costanti, complicate. La città, ci insegna Stefano Mancuso (1), è diventata la nicchia ecologica che gli esseri umani abitano per sopravvivere, un po’ come i cactus hanno bisogno di vivere nel deserto. Un ambiente complesso, ricco ma anche fragile, e la fragilità della nostra nicchia ecologica potrebbe essere il punto debole della nostra sopravvivenza.
(1)Stefano Mancuso – La pianta della città, in La pianta del mondo Laterza 2020