Agnocasto o dei ‘non luoghi’

Agnocasto

Vitex agnus-castus

L’agnocasto è una pianta identitaria. Cresce lungo la fascia costiera mediterranea, nei luoghi umidi, accanto a oleandri, mirto, tamerici, più diffusa nel sud della penisola, ma naturalizzata quasi dappertutto. L’agnocasto è una pianta che ha una storia e il suo nome la racconta tutta. E’ un viticcio adatto a fare canestri, ma la sua virtù principale è calmare il desiderio sessuale degli uomini, renderli casti e preservare la purezza dei monaci. La sua fama, insieme alla sua modesta bellezza, ha accompagnato i secoli.

Vitex agnus-castus

Vitex agnus-castus

Che ci fa una pianta così in un non luogo come l’area di sosta di un autogrill, sull’autostrada A12 fra La Spezia e Massa? Un non luogo,  sinonimo di mancanza di identità e storia,  è dove le piante si smarriscono e perdono i loro nomi. Insieme ai diseredati oleandri, la cui sfolgorante fioritura viene ormai regolarmente confusa con il grigiore dei cigli stradali, insieme all’albero della nebbia, che confonde le sue nuvole piumose nel fumo degli scappamenti, e poi ancora malve, becchi di gru e altri ancora fiori e foglie dimenticati.

L’espressione ‘non luogo’ è stata inventata dall’antropologo francese Marc Augé (1935-2023) per descrivere spazi anonimi, in cui gli individui transitano, senza trovare appartenenza, né lasciare tracce.  Un non luogo è il contrario della dimora, della casa. Dagli aeroporti ai supermercati, dalle camere d’albergo ai campi profughi, è difficile definire un non luogo, e l’omonimo libro(1) non risulta molto utile perché è alquanto ostico. Tuttavia si percepisce che è un’espressione di cui avevamo bisogno, per capire l’immensa solitudine dell’ambiente che si è venuto costruendo intorno alla nostra tanto decantata civiltà. Un piccolo autogrill è certamente un non luogo, un posto dove nessuno vorrebbe mai fermarsi, eppure tutti lo fanno, o sono costretti a farlo. Come l’agnocasto, snello e sensibile, coperto di fiori, ma sperduto e incompreso, come fosse di plastica.

(1)Marc Augé “Nonluoghi” (Eleuthera 1992-2020)

Datura vagabonda

Datura wrightii

Datura wrightii

La Datura wrightii , pianta immacolata e suggestiva, faceva capolino ogni anno in un angolo del mio giardino. Nata in vaso da semi recuperati in qualche orto botanico, ogni anno rispuntava immancabilmente con abbondanti fioriture. Perenne, forse, o più probabilmente annuale, negli ultimi tempi cresceva al margine di un’aiuola sopra la strada, con le grandi campane bianche che penzolavano coraggiosamente dal muraglione. Per molto tempo è tornata, ma poi è sparita, e da alcuni anni non si era più fatta viva.  Gli alberi, un grosso ginepro e due forsizie, erano cresciuti ancora e l’angolo che si era scelto forse era diventato troppo angusto ed oscuro. Perduta, pensavo, e progettavo di riseminarla. Finché ieri, quasi per caso, la scopro sul bordo della strada, ai margini di un piccolo terrapieno di cemento dove alcuni vicini parcheggiano le auto. Fierissima e in piena fioritura, cresce alla base di un palo di sostegno, incurante della vicinanza invadente delle invasive più comuni, la morella (Solanum chenopodioides) e l’inula (Dittrichia viscosa).

Morella & Inula

Solanum chenopodioides
Dittrichia viscosa

Datura wrightii, stramonio di Wright, viene dall’America e certamente è stata introdotta come pianta ornamentale. In inglese le piante del genere Datura vengono dette devil’s trumpets, tromba del diavolo, mentre il più angelico nome di angel’s trumpet (tromba dell’angelo) è riservato, chissà perché, a una pianta molto simile, la Brugmansia, che con Datura ha veramente molto in comune, compresa la forma dei fiori e la tossicità, ma ha fusti legnosi e aspetto arbustivo.

Questa pianta mi ha mostrato in modo semplice il significato della definizione ‘alloctona naturalizzata perché sfuggita alla coltivazione’ e questa volta devo ammettere che ho contribuito anch’io a diffondere una specie estranea alla nostra flora. Ora so che Datura wrightii è una pianta annuale e quindi ricrescerà, se ne avrà voglia, dai semi sparsi dai rigidi frutti, capsule con aculei sporgenti, vere spine quando si seccano. E magari, chissà, ne crescerà un gruppetto.

Datura wrightii

Datura wrightii

Il nome Datura deriva dal sanscrito e  significa appunto ‘mela spinosa’, come spiegato da Linneo (vedi questa pagina), con riferimento alla curiosa forma dei frutti  e come indica uno dei nomignoli inglesi di questa pianta, thornapple. La specie D. wrightii, dedicata al famoso esploratore botanico americano  Charles Wright, si distingue perché le antere sono visivamente più corte dello stilo (vedi foto ravvicinata), mentre dovrebbero essere della stessa lunghezza nella specie simile D.innoxia.

Il bosco di Parco Ruspoli

Eucalyptus globulus parco Ruspoli

Eucalyptus globulus

Anche se il parco Ruspoli in realtà non esiste, gli alberi ci sono. Anzi c’è un bosco. Lecci e allori, soprattutto, ma lungo via Cruciani Alibrandi crescono anche alcune massicce piante di eucalipto e gruppi di olmo comune. Come è noto, l’eucalipto è un’essenza australiana che fu importata all’inizio del ventesimo secolo nelle regioni costiere della penisola per la  capacità di assorbire in maniera cospicua acqua dal terreno e quindi probabilmente contribuire ad asciugare le paludi infestate dalla zanzara della malaria. Belli e maestosi, questi alberi si sono naturalizzati, ma conservano un’aura di esoticità, nobili e goffi insieme, come tutti i diversi.
Più snelli, anche se di dimensioni rispettabili, gli olmi sono alberi indigeni, campestri. L’aggettivo minor che identifica la specie più comune non si riferisce alle proporzioni della pianta, ma piuttosto alle dimensioni delle foglie rispetto a quelle di altri olmi. Incontrare l’olmo, in questa giungla disordinata e sudicia, mi rincuora un pochino, come quando si distingue un volto noto in una folla anonima e vagamente ostile.

Ulmus minor

Ulmus minor

Naturalmente poi c’è il sottobosco, arbusti minori, erbacce, sterpaglie, e le rampicanti che si avvinghiano agli alberi coraggiosi. Poco distante dall’invasione dell’ipomea di cui ho già parlato,  ecco un’altra straniera che sta velocemente colonizzando ogni anfratto dove trovi appiglio per abbarbicarsi. E’ Araujia sericifera, una sempreverde originaria del Sud America che si è diffusa dai giardini all’ambiente, prima nelle regioni del nostro Sud, ma ormai quasi dappertutto per la penisola e si incontra molto frequentemente inselvatichita. Velenosa, ricca di lattice bianco, a primavera sfoggia morbidi fiori rosati, che la rendono attraente e per questo può essere scelta per ricoprire i muri. Salvo poi immancabilmente pentirsene quando la si ritrovi dappertutto.

Pianta della seta - Araujia sericifera

Araujia sericifera

Qui si distingue per le foglie, verdissime e tenaci, e, a fioritura ormai finita, i suoi tralci sostengono curiosi frutti in forma di follicoli globosi, che contengono numerosi semi avvolti nella bambagia.
Da noi è conosciuta come pianta della seta, proprio a causa del piumaggio dei semi, che gli ha meritato anche un altro nome comune, quello di falso kapok. In inglese ha nomi meno poetici, come ‘moth plant’ o pianta delle falene, o addirittura ‘moth catcher plant’, pianta attira falene. Si suppone infatti che questa pianta venga impollinata dalle falene e proprio l’esistenza di differenti impollinatori, attivi in diverse ore del giorno, potrebbe essere una spiegazione del successo riproduttivo di questa specie, ormai conosciuta in tutto il mondo come liana tropicale invasiva. Viene anche detta ‘cruel vine’, liana crudele, ma in questo caso probabilmente a causa della sua tossicità, con l’aggravante delle allergie che può provocare.
Qui se ne sta tranquilla e in disparte, ma certamente sa difendere i suoi spazi.

Municipio XI

Acero - Municipio XI

Acer campestre

Continuo il mio vagabondaggio nella città trasandata, zona Portuense, Municipio XI, fra sterpi e buche, facendo attenzione a dove poggio le scarpe, alla ricerca di tracce di storia e natura. Ce ne sono dappertutto, solo molto ben camuffate, sepolte fra gli avanzi di un’umanità invadente e disordinata.
Da piazza Filippo Andrea Doria Pamphili, principe antifascista e sindaco di Roma dopo la liberazione dal 1944 al 1946, imbocco via Enrico Cruciani Alibrandi, che fu anch’egli sindaco di Roma, ma molti anni prima. Siamo  nella prima periferia, fra il quartiere della Magliana e i grandi ospedali Forlanini e Spallanzani, chi ha buone gambe in un’oretta arriva a Trastetevere.

Graminacea - Municipio XI

Graminacea da strada

Le aiuole, ritagli di terra inaridita strappati all’asfissia dell’asfalto, ospitano magri aceri campestri, che spesso cedono spazio a erbe dai lunghi steli e fiori con corolle variopinte. Le sottili spighe cariche di semi immaturi di una graminacea, forse un tipo di miglio selvatico, brillano al sole più dei cerchioni delle auto, e quasi intralciano il passo. In altre aiuole, ormai vuote di alberi, le belle di notte (Mirabilis jalapa) fanno immaginare i colori che sfoggeranno nel pomeriggio.

Mirabilis jalapa

Mirabilis jalapa

D’improvviso, al di là di un alto recinto che delimita un grande prato incolto, oltre i ciuffi allampanati delle canne (Arundo donax),  mi sorprende una cascata azzurra di ipomea (Ipomoea indica), neofita naturalizzata, spesso invasiva. L’ipomea qui ha colonizzato tutto e sovrasta le erbe giallastre dell’abbandono, supera la recinzione, adorna pali stradali e auto.

Ipomea

Ipomoea indica
in via Enrico Cruciani Alibrandi

Tutti questi spazi verdi abbandonati, a destra e sinistra di via Cruciani Alibrandi, raccontano una storia antica e recente di degrado e disinteresse. Questa zona era compresa in un progetto di riqualificazione del verde urbano, con area giochi e posti per le auto, denominato Parco Ruspoli, perseguito con grande impegno, ma oggi apparentemente disatteso e dimenticato. Il fallimento è legato alla pressione degli speculatori che da sempre governano ogni metro quadro della città. Nel frattempo qualcuno gestisce un parcheggio abusivo, mentre alcuni proprietari hanno deciso di acquistare direttamente le aree per realizzare in autonomia i parcheggi privati di cui avevano necessità.

via Alibrandi

Ipomea indica

 

Io seguo la recinzione sulla destra di via Alibrandi verso via Anselmo Ciappi.

via Anselmo Ciappi

via Anselmo Ciappi

Oltre la rete, qui cresce un bosco di allori e ai suoi piedi spuntano le snelle foglie di iris, chissà se a primavera qualcuno fiorirà. Su un vecchio legno di sostegno, un solerte artigiano ‘italiano’ promuove la sua attività. Più avanti, verso via dei Grottoni e il quartiere della Magliana, è ancora vivo e sostenuto dalla mobilitazione pubblica il progetto Parco della Gioia , un parco urbano inclusivo a energia rinnovabile, con possibile sviluppo storico-archeologico. Le idee e le energie non mancano, ma gli ostacoli sono sempre gli stessi.

Ailanto - Municipio XI

Ailanthus altissima

Ora torno sui miei passi, di nuovo su via Alibrandi, alla ricerca di un passaggio che dovrebbe portarmi a un supermercato di quartiere, e da lì alla parallela via Francesco Pallavicini (anche lui, per la storia, fu sindaco di Roma).

Raggiungo così una vasta costruzione di cemento, dove il verde sembra scomparso, o soffocato, da scale, terrapieni e parcheggi, tutto livido e incolore, salvo i segni cupamente variopinti di qualche writer di periferia. E salvo l’immancabile boschetto di ailanti, quelli se la cavano dappertutto.

Eppure qualche velata intenzione di trovare un posto per le piante anche in questa squallida struttura ci deve essere stata, dato che qua e là spuntano degli alloggiamenti rettangolari di una certa profondità che potrebbero assomigliare a delle aiuole.
Là dentro, sulla  terra polverosa e disfatta, al principio distinguo solo i ciuffi di amaranto verde, fra sterpi secchi di dubbia identificazione. Ma c’è dell’altro, ortiche, parietaria, geranio, grespino, e un’intera distesa verdissima di un tipo di caglio, che identifico con Galium verrucosum. Sorrido un poco pensando alla primavera, quando il geranio mostrerà spavaldo le sue minuscole corolle rosa e il caglio aprirà una miriade di stelline bianche in mezzo alla spazzatura.

Amaranto - Municipio XI

Amaranthus deflexus

Galium - Municipio XI

Galium verrucosum

Urtica sp,  Parietaria judaica, Geranium rotundifoliumSonchus oleraceus

Roma trasandata

Ficus benjamina

Ligustrum lucidum variegato

Roma è la città più bella del mondo.  La sua storia millenaria si riflette limpida sul fiume dorato, l’aria delle sue piccole vie del centro è sempre leggera in ogni stagione, la magnificenza dei suoi giardini e dei suoi panorami sono esperienze introvabili e inimitabili.

Ma Roma è una città trasandata e vive la sua sciatteria come fosse il maleficio di qualche strega o di qualche spirito maligno. Appena fuori, e neppure tanto, dal cerchio magico del centro storico, le sue ampie strade si accartocciano in voragini e si ricoprono di sporcizia.

Acer negundo

Acer negundo

 

E’ una metropoli così disseminata di ‘terzo paesaggio’ che sembra quasi che Gilles Clement debba essersi ispirato a Roma per definirlo. Nobili giardini abbandonati si affiancano a sterminati terreni incolti, tracciati disertati da auto e treni sono colonizzati da ogni genere di sterpaglia, intercapedini barcollanti accolgono innumerevoli specie vegetali autoctone e non e sostengono fatiscenti brandelli di cemento ricoperti di frasche e rovo. Quasi tutte le strade di Roma, dalla più aristocratica alla più miserabile, sono viali e si adornano di alberi rigogliosi, ai cui piedi in risicate aiuolette crescono erbacce lussureggianti e si ammucchiano cartacce e rifiuti.
Ecco un viale di Ligustrum lucidum variegato, con lucide foglie striate di bianco crema, mentre nella via accanto cresce Acer negundo, l’acero americano che ha foglie composte, con tre o più foglioline irregolarmente dentellate (vedi 9 maggio 2009) e fioriture dall’aspetto esotico.

Roma trasandata

Mercatino ecosolidale di Sant’Egidio
via del Porto Fluviale, 2

Le specie si accavallano, le piante amano vivere tutte insieme, strette le une alle altre, contendendosi terra e sole. Un nespolo del Giappone (Rhaphiolepis bibas) sovrasta un alloro (Laurus nobilis) , che cresce sopra la cycas (Cycas revoluta), quella che tutti chiamano palma nana, inciampando in un errore botanico, ma anche storico, perchè la cycas delle palme non ha nulla ed è molto molto più antica di loro. Ci troviamo nel cortile del mercatino di Sant’Egidio, in via del Porto Fluviale, e alla base di queste piante spunta un cespuglio dai lunghi rami con foglie rotonde, e non è un arbusto qualsiasi, ma un getto di albero di Giuda (Cercis siliquastrum) che fra qualche anno, forse, chissà, potrebbe donarci una delle sue strabilianti fioriture rosa.

L’oleandro (Nerium oleander) ci prova, ovunque, a fiorire. Anche sull’insegna arrugginita di un vecchio cinema abbandonato. Una volta c’erano molti cinema di quartiere, affollati, economici. Ora è rimasto un grigio edificio di cemento appena mimetizzato sul retro dall’immancabile Rhaphiolepis bibas  a fianco di un Ligustrum lucidum a foglia verde.

Roma trasandata Nespolo e ligustro

Retro del cinema
Rhaphiolepis bibas e
Ligustrum lucidum

Oleandro - Roma trasandata

Insegna del cinema
Nerium oleander

Bambini di strada

 

Ficus carica

Ficus carica
Porto antico

I bambini di strada sono ragazzi e ragazze, poveri, giovanissimi, soli, che non hanno una vera casa né si accompagnano per protezione e sorveglianza a una figura adulta di fiducia. Bambini per i quali la strada, un’abitazione abbandonata, un terreno incolto, è divenuta il luogo dove vivere, ogni giorno e ogni notte, senza una vera famiglia e sufficienti a se stessi.

Così gli alberi delle città sono i bambini di strada del bosco, dice  Peter Wohlleben(1), che degli alberi e dei boschi è grande amante e conoscitore. La definizione è veramente calzante perché molti alberi crescono proprio direttamente sulla strada. Come il largo fico chissà come finito davanti all’ingresso del porto antico di Genova, sotto la sopraelevata, che accoglie sempre una folla chiassosa sotto le sue fronde. Senza casa, senza famiglia, senza terra, ma grande dispensatore di riparo e frescura.

Pino di Brignole

Pino in via Cadorna
Pinus halepensis (forse)

Un bambino davvero cresciuto troppo è l’esemplare solitario di pino che si eleva oltre tutti gli altri, banali pini domestici (Pinus pinea) intorno a lui, e si fa notare per il suo tronco doppio sul margine dei giardini di viale Luigi Cadorna a Genova Brignole. Lo credevo un pino d’Aleppo, per il portamento slanciato e la chioma vaporosa, ma quasi certamente mi sbagliavo. Solo è solo, diverso dai suoi vicini, diverso dalle torri di acciaio e cemento che lo sovrastano.

Gli alberi di città, come i bambini di strada, sono diventati adulti senza aver avuto il tempo e l’energia per crescere veramente, senza essere accolti e coccolati dal pane fertile della terra.  Anche se crescono in altezza, faticosamente, costretti, potati, capitozzati, rimangono sempre immaturi, senza la certezza del bosco.  Stretti nel cemento, contorcono le radici fra cavi e cavità sotterranee, le allungano in spazi freddi e sterili, si piegano, si adattano, sopravvivono.

Aesculus hippocastanum

Aesculus hippocastanum
via Bobbio

Gli abitanti della città guardano gli alberi con sentimenti contrastanti. Si lamentano delle radici che li fanno inciampare, delle foglie che ingombrano il marciapiede, dei pollini che li fanno starnutire, dei rami pericolanti che potrebbero colpirli; ma sanno che non potrebbero fare a meno della loro ombra, del loro riparo.
Li vedono mutare con le stagioni, come dice il poeta.
A primavera fioriscono con disperata vitalità, ma spesso cambiano colore prematuramente, alla fine della torrida estate urbana.

Tiglio di Largo Lanfranco

Tiglio – agosto 2023
Tilia x europaea

Il più grande, il più caro dei miei bambini, il tiglio di largo Lanfranco, proprio di fronte al palazzo Doria Spinola della prefettura, ha già molte foglie ingiallite a fine agosto e un poco mi preoccupa. Tuttavia se persino gli alberi dei boschi soffrono in questi mesi bollenti, come può proteggersi dalla calura questo ragazzo abbandonato che solo da molti metri di distanza scorge qualche suo simile nella piazza vicina?  Come sarebbe più felice se potesse scambiare messaggi sotterranei con qualcuno, comunicare con le sue radichette e spingerle avanti fin dove hanno voglia di arrivare, senza scontrarsi con i tubi di ghisa e le fondamenta bituminose di qualche artefatto umano.

(1) Peter Wohlleben – La vita segreta degli alberi – Gruppo Editoriale Macro – 2016

Lattughe tutt’intorno

Lattuga - Lactuca serriola

Lactuca serriola

Fusti sottili, piccoli fiori gialli, foglie insignificanti. Certamente queste piante poco assomigliano alle lattughe che si acquistano sui banchi del mercato e si mangiano condite con olio e aceto. Si incontrano un po’ dappertutto, negli incolti urbani e ai bordi delle strade. Sarebbe proprio dalla specie Lactuca serriola che addirittura gli antichi egizi avrebbero ottenuto, per addomesticamento e selezione successiva, la comune insalata (Lactuca sativa). Chi ha seminato la lattuga nel proprio orto sa bene che quando la pianta accenna a preparare lo stelo fogliare, diventa praticamente immangiabile. Le foglie virano dal verde tenero a un verde bluastro e da dolci e croccanti che erano diventano coriacee e amare. Sarebbe alquanto incauto quindi, e anche sciocco, assaggiare le sottili fogliette di queste pianticelle sparute, anche soltanto per tentare di indovinarvi un sapore di lattuga.

Lattughe : Lactuca saligna

Lactuca saligna

Il nome lattuga, ovvero Lactuca, deriva da lattice, il liquido bianco e appiccicoso presente nel fusto, un lattice che contiene anche componenti interessanti dal punto di vista medicinale, anche se in alcune specie i componenti velenosi prevalgono.

Anche la cicoria con i suoi sgargianti fiori azzurri, ugualmente appartenente  alla famiglia della asteracee, è presente talvolta come infestante. Assaggiamo? La foglia di cicoria è abbastanza appetibile anche quando la pianta comincia a fiorire, se proprio non c’è nulla di meglio. Rinuncerei comunque a qualsiasi erba che cresca in ambiente molto urbanizzato e preferisco osservarle come curiosità.
Le lattughe urbane sono di molte specie differenti e molto frequente è Lactuga saligna, che si riconosce anche dal color verde glauco delle foglie, la loro nervatura centrale molto evidente, e le due orecchiette acuminate che abbracciano il fusto.

La città perduta

Piazza Piccapietra Genova

Piazza Piccapietra Genova

Piazza Piccapietra, un quadrato di cemento che copre un enorme garage sotterraneo, si è riempita di lantane. La scelta non mi sorprende perché nelle aiuole a vasca che ne delimitano il perimetro poche piante si troverebbero a proprio agio. Lantana camara è una pianta robusta, coriacea, esotica senza averne l’aria, si adorna senza farsi pregare di tanti piccoli fiori aggraziati, che sbocciano a mazzi fra le ruvide foglie, e soprattutto è una pianta molto tollerante a svariate avversità, fra cui siccità e inquinamento. Proprio per la sua esuberanza, è ormai considerata pianta invasiva in molte aree tropicali e non solo.

Lantana camara Piazza Piccapietra

Lantana camara

Questa piazza, anonima e spenta come tante altre che si aprono nei centri delle città moderne senza una vera ragione o una storia, è letteralmente nata sulle macerie della II guerra mondiale. Oggi il quartiere si chiama Piccapietra, nome che ha un’origine tradizionale per la presenza nell’area di botteghe artigiane di scalpellini, ma che si adatta bene agli avvenimenti della fine degli anni 1940 quando l’antico quartiere di Portoria distrutto dai bombardamenti perse completamente la sua fisionomia di pietra e ardesia e venne definitivamente demolito dai picconi per trasformarsi gradatamente e inesorabilmente in un agglomerato grigiastro di cemento.

Lantana camara

Lantana camara
Erigeron canadensis

Vado raramente in centro, ormai solo una o due volte al mese, e quando ci vado provo la strana sensazione di trovarmi in una città che assomiglia molto a una che avevo conosciuto bene molti anni fa. Gli angoli delle strade, gli scorci di cielo, i giochi d’ombra e silenzio me li ricordo bene. Ma la città non è più la stessa, l’umanità è cambiata ed io, che sono un’insicura cronica, ho sempre timore di inciampare in qualche novità imprevista. La folla dei turisti poi mi sorprende e inquieta perché mai nella mia gioventù avevo neppure immaginato Genova come una città turistica. Forse per questa nuova vocazione della città è così importante cercare di abbellire persino le vasche di cemento. Senza poter nulla fare, tuttavia, contro l’impetuosa invasione della Coniza canadese (Erigeron canadensis), ormai signora e padrona di qualsiasi angolo di mondo.

Solanum nigrum

Solanum nigrum  (ottobre 2012)

Soltanto pochi anni fa, le aiuole della vicina via XII ottobre erano invase da rigogliosi cespugli di morella (Solanum nigrum), senza nessuna cura o preoccupazione di estetica o decoro. La morella è infestante storica di ogni incolto cittadino, pianta autoctona la cui incontrastata diffusione oggi è quasi compromessa dall’arrivo di alloctone di lei strette parenti come la morella falso chenopodio (Solanum chenopodioides).

La città, sempre di più, è un ambiente vulnerabile, che esige cure costanti, complicate. La città, ci insegna Stefano Mancuso (1), è diventata la nicchia ecologica che gli esseri umani abitano per sopravvivere, un po’ come i cactus hanno bisogno di vivere nel deserto. Un ambiente complesso, ricco ma anche fragile, e la fragilità della nostra nicchia ecologica potrebbe essere il punto debole della nostra sopravvivenza.

(1)Stefano Mancuso – La pianta della città, in La pianta del mondo Laterza 2020

Fiori sulla fortezza

La fortezza del Priamar di Savona, situata sull’omonimo promontorio, nucleo storico della città, è uno dei forti più importanti della Liguria.

Asfodelo Priamar

Asphodelus fistolosus

Venne costruita a partire dal XVI  secolo dai genovesi, su precedenti insediamenti di origine romana e medioevale, come baluardo per domare la bellicosa popolazione savonese e presidiare l’accesso dal colle di Cadibona, principale accesso alla riviera e al mare del Piemonte sabaudo.

Ulivo Priamar

Olea europea

Fra alterne fortune e vicissitudini, culminate nell’assedio di Savona del 1746 da parte delle truppe austro-sabaude, dopo la restaurazione del 1815, la funzione militare del Priamar declinò rapidamente per lasciare spazio ad una prigione di stato, in cui venne richiuso, tra gli altri, anche Giuseppe Mazzini.

Affacciata sul mare e sull’affollata area portuale, la fortezza è vasta e ricca di scorci e passaggi ove acqua e cielo si incrociano e si rincorrono. E sulle sue pietre nascono e prosperano fiori e diverse specie vegetali che non si sa più se siano capitate lì per caso o per quale scelta e necessità.

Matthiola incana

Matthiola incana

 

 

Nell’ombra trasparente di radi olivi, i bastioni sono colonizzati da erbe ruvide, su cui si aprono le stelle candide degli asfodeli (Asphodelus fistolosus) e le sgargianti corolle della violacciocca rossa (Matthiola incana), che è sempre perfettamente a suo agio sulle pietre e spesso si incontra fra muraglie e rovine, come sul ponte di Carignano a Genova.

Altre piante mi sorprendono, per il loro aspetto familiare, ma identità misteriosa. Riconosco le foglie di una rampante centaurea e i vuoti capolini, ma non potrei identificarne la specie, mentre brillano al sole le disseccate brattee dello scuderi (Phagnalon saxatile) le cui foglie, sottili come quelle del rosmarino e grigiastre come quelle dell’elicriso, seppure prive di fragranza, denunciano l’inconfondibile vocazione mediterranea.

Centaurea

Scuderi Priamar

Phagnalon saxatile

Steli bruni segnalano che sulle muraglie qualche volta sboccia anche la bocca di leone. Ma per oggi dovrò accontentarmi della fioritura di una delle sue sorelle minori, la gallinetta comune (Misopates orontium), fiore umile e  generoso, che si incontra un po’ dappertutto e si affaccia sul mare con la stessa sfrontatezza con cui colonizza qualche incolto fra città e campagna.

Priamar gallinetta

Misopates orontium

Un viale di felci

PolypodiumLe felci dolci (Polypodium sp) hanno colonizzato i tigli spogli di viale XXI luglio a Sarzana, preziosa città vicino alla Spezia.  Il polipodio è una felce molto comune nei boschi, con tre specie simili (Polypodium vulgare, Polypodium cambricum e Polypodium interjectum) che crescono su rocce e muri umidi, ma anche come epifite su ceppaie, rami e tronchi degli alberi nei boschi. Quindi perché non sugli alberi di un viale? I tigli sono completamente spogli, diligentemente potati alla maniera cittadina, sporgono gli esili rami nudi contro il cielo, nel nitido sole di gennaio. Il tronco possente trova un nuova nobiltà nel verde che gli regala la felce.
Tiglio con polypodium
Il polipodio è una piccola felce dal rizoma squamoso, che striscia a poca profondità nel terreno, costellato dai piccioli delle fronde. In tempi neppure troppo lontani, quando la liquirizia non era sempre a portata di mano, queste radici chiamate con il nome dialettale di reganissu, strappate da muri o tronchi e raschiate bene con le unghie, si succhiavano per gustarne il dolce sapore. Il reganissu veniva anche considerato un lenitivo per le affezioni delle gengive.Polypodium  Per questo si chiama felce dolce e per questo ogni volta che lo incontro mi pare di ritrovare un vecchio amico. Anche abbarbicato sui ruvidi tronchi dei tigli di città, da cui non mi azzarderei mai a staccarlo.

Il viale che dalla stazione ferroviaria di Sarzana si dirige verso la centrale piazza Garibaldi è dedicato a una data che lì per lì non mi dice nulla. Ventun luglio, ma quando? E perché? Cerco informazioni e trovo qualche contrasto. Il ventuno di luglio è certamente un giorno importante perché il 21 luglio 1465 Sarzana, fondata circa 500 anni prima, fu eretta a rango di città con tanto di bolla papale e  questa data rappresenta una specie di compleanno della città. Ma c’è di più perché il 21 luglio 1921 è  la data dei cosidetti ‘fatti di Sarzana‘ ovvero uno dei  più sanguinosi episodi di “guerra civile” prima della marcia su Roma e la presa del potere mussoliniana. Non sembra esistano dubbi sul fatto che viale XXI aprile si chiama così proprio in ricordo di quell’episodio ricordato da varie targhe in città compresa una posta sul muro della stazione ferroviaria nel 90° anniversario. Eppure quando nel 2015 Sarzana festeggiò proprio il 21 luglio i 550 anni dalla sua proclamazione di città i drammatici fatti di 94 anni prima non vennero neppure menzionati.