Vi presento il Bisagno

Torrente Bisagno

Bisagno nel rione  San Gottardo e
e fioritura autunnale di topinambur (Helianthus tuberosus)

Il Bisagno torna a far parlare di sè. Quando sento menzionare il suo nome nei notiziari di radio e televisione come ‘il fiume di Genova’, mi viene in mente il sorriso divertito e beffardo della mia amica Irena, polacca di Stettino, che abita sulle sponde del vasto estuario del fiume Oder.
“… and this is the river.”
“River?!?”

Naturalmente il Bisagno non è un fiume, è un corso d’acqua a regime torrentizio, che d’estate talvolta di acqua ne ha proprio niente. Nasce da modeste colline dell’Appennino che stringono la città a nord. Della sua storia, e dell’alta valle, ho parlato in una pagina diversi anni fa.

Torrente Bisagno

Torrente Bisagno in via Piacenza presso il ponte Guglielmetti

Il torrente, che talvolta diventa cattivo, è sempre abbastanza brutto. E’ giallastro e disadorno, ingombro di vegetazione selvaggia, invadente, rami spezzati e spazzatura. Proprio perchè è così brutto, nell’ultimo tratto, poco più di un chilometro, il torrente è stato coperto, tombinato si direbbe oggi, con una di quelle opere pubbliche del ventennio fascista, che hanno cambiato, per sempre, l’aspetto di tanti luoghi del nostro paese. Opere contestabili, ma durature. Almeno fino a quando l’incuria non finirà di distruggerle. Già l’antico ponte di Sant’Agata è stato una delle vittime della scarsa manutenzione della copertura, quando nel 1970 l’acqua “che porta via, che porta via la via” lo travolse senza pietà per la sua storia millenaria. E’ invece sopravvissuto a memorabili piene, tanto devastanti quanto improvvise, il settecentesco ponte Carrega, che si trova più a nord e al riparo dall’onda di ritorno del tunnel di copertura. Peccato che un ponte così bello sia relegato all’ombra dell’ingombrante e antiestetico viadotto della A12.

Bisagno

Il Bisagno a San Gottardo lungo via Emilia
ancora topinambur

Nel lungo tratto aperto al cielo, l’acqua scivola stretta fra rive incolori, sormontate da disordinate costruzioni, che hanno forse l’unico pregio di essere tutte diverse, alte, basse, esili, grasse, ingombranti, accatastate (nel senso di catasta e non di catasto). I palazzoni alti e grigiastri gli incombono addosso, così vicini alla sponda che sembra quasi non credano che sia un vero corso d’acqua.

Lungo il lurido greto crescono in ogni stagione piante e fiori sorprendenti. Talvolta monotoni, come le distese autunnali di topinambur (Helianthus tuberosus, vedi 4 settembre 2008), che è il fratello tuberoso del girasole (Helianthus annuus). Oppure aggressivi come d’estate le cardogne, Scolymus hispanicus, sgargianti margherite gialle che è meglio guardare e non toccare perchè interamente ricoperte di tenacissime spine. A volte si incontra qualche esotica avventizia, perfettamente a suo agio, come la verbena del Brasile (Verbena litoralis).

Scolymus hispanicus

Cardogne (Scolymus hispanicus) sul ponte Feritore

E in primavera si inalzano i verbaschi, Verbascum sinuatum, piante comunissime, ma attraenti. Come scrivevo il 29 giugno 2008, il verbasco sinuoso è snello, ma ha un portamento regale, sembra un grande candelabro a più bracci, e ogni braccio regge numerosi gruppi di fiori giallo brillante, corolle di cinque petali e stami dalla peluria violetta.

Verbascum sinuatum

Verbascum sinuatum presso il ponte Carrega

Ponte Carrega

Il settecentesco ponte Carrega, sopravvissuto a tutte le devastanti piene

Linaria da marciapiede

Linaria vulgaris

Linaria vulgaris

La linaria (Linaria vulgaris, vedi 13 giugno 2008) è una piccola pianticella vagabonda con graziosi fiori gialli a forma di bocche di leone. Proprio come la bocca di leone, sua sorella maggiore (Antirrhinum majus, vedi 26 settembre 2009), era in passato classificata nelle scrophulariaceae, mentre secondo la classificazione più moderna fa parte delle plantaginaceae. Il suo nome deriva dalla forma delle foglie, lanceolate e sottili come quelle del lino, o forse anche dal fatto che delle colture del lino è infestante caratteristica.

Fiorisce dalla tarda primavera fino a autunno inoltrato, fiori abbondanti e fieri, ma delicati ed eleganti. E cresce davvero dappertutto. Perfino sul bordo di un marciapiede di un polveroso viale di periferia, incastrata fra l’asfalto e la pietra, dove sia il terriccio che la accoglie è difficile immaginare. Esile e sinuosa, tenacissima, fiorisce, e si fa sberleffi di tutte quelle piante raffinate che hanno bisogno di humus e attenzioni per partorire magari poche stentate corolle.

Principessa vitalba

Clematis vitalba

Clematis vitalba

Le sue parenti più strette, le clematidi, sono fra le più raffinate interpreti dei romantici giardini inglesi. Hanno petali sottili e lisci come seta dai ricercati colori pastello. Avvinghiano con circospezione i loro esili steli su ordinati tutori, allungando garbatamente verso il cielo i loro germogli.
La vitalba, invece, è una ragazzaccia scapestrata, disordinata, impudente, vorace.

Come è risaputo, le brave ragazze vanno in paradiso, ma quelle cattive vanno dappertutto. Ed ecco che la vitalba si diffonde invadente in ogni angolo verde, in ogni giardino, campo o bosco. Si arrampica sugli alberi secolari e li avvinghia, gettando liane possenti fra tronco e tronco.Tesse trame robuste nel folto delle foreste e nelle siepi, e non disdegna affatto le recinzioni e le ringhiere di città.
Come scrive Mirna Medri nella scheda che ha curato per actaplantarum, si adatta alla maggior parte dei suoli, e, seppure ora appaia in regresso a seguito alla scomparsa di siepi e di arbusteti, ha la capacità di ricolonizzarsi repentinamente, sui muri abbandonati, in luoghi selvatici, al margine di fossati e canali.

Più che una protagonista della flora urbana, la vitalba ne è la principessa. Delle sue sorelle clematidi da giardino ha mantenuto gran parte della bellezza. D’estate si copre di profumatissimi fiori bianchi, dai petali, o per meglio dire sepali petaloidi, vellutati, e d’autunno di curiosi frutti piumosi (10 agosto 2008), che formano nuvole impalpabili sugli steli nudi. Si spoglia d’inverno. Ma resistono i suoi lunghissimi fusti bruni, possenti come cavi d’acciaio.
Qui la incontro, fiorita, lungo una crosa di collina, ad allietare un magazzino quasi abbandonato.

Valeriana rossa

Valeriana rossa <em>Centranthus ruber</em>

Valeriana rossa a Apparizione

La valeriana rossa (vedi un mio vecchio post del 15 agosto 2008) è una delle grandi protagoniste delle fioriture urbane. Le basta un fosso, una breve scarpata, soltanto un muro, per attecchire con coraggio e far esplodere i suoi folti cespi rosa acceso o rosso porpora, fiorellini piccoli, ma numerosi e raggruppati in densi corimbi. La sua fioritura è lunghissima, dalla primavera all’autunno inoltrato e sono queste caratteristiche di tenacia e longevità a farne una presenza straordinaria nel verde dei palazzi di collina. Le sue foglie, verde carico, lucide, sembrano sempre giovani e fresche, anche in mezzo ai detriti. Mi ricorda quelle fanciulle delle favole, come Cenerentola, belle e pure e gioiose, nonostante le angherie e gli stenti a cui erano sottoposte. Bella nel fango e sempre nobile e liscia.

Santa Maria Assunta di Apparizione

Sulla scarpata affacciata sul mare della collina di Apparizione, proprio di fronte alla chiesa di Santa Maria Assunta (nella foto a destra)  e a pochi passi dal capolinea dell’autobus n.87, qualcuno ha scritto su una ringhiera un verso poetico e provocatorio.
“Scateniamo tempeste ma ci piace il sole”
La valeriana, forte come il vento e rossa come il fuoco, approva.

Bocche di leone della Malapaga

Antirrhinum majus

Antirrhinum majus

Le mura della Malapaga a Genova corrono da piazza Cavour alla magnifica porta del Molo progettata dall’architetto Galeazzo Alessi e conosciuta come Porta Siberia. I nomi raccontano storie. Il palazzo della Malapaga, dove le mura cominciavano, era una prigione dove venivano incarcerati coloro che non riuscivano a pagare i debiti, mentre il nome Siberia deriva da cibaria, in genovese pronunciato più o meno “sibaria”, perchè adiacente ai magazzini del grano. Per la generazione dei miei genitori, le Mura della Malapaga ricordavano inevitabilmente Jean Gabin e un celebre film italo francese che nel 1951 vinse l’oscar per migliore film straniero.
Portate dal vento negli anfratti della muraglia, fra le pietre e il cemento, le bocche di leone non hanno avuto bisogno di molto per germogliare e fiorire. Tanto sofisticate sono le variopinte corolle, concresciute a labbra per offrire accoglienza sensuale a devoti impollinatori, tanto modeste sono le pretese di questo fiore, che fra le macerie e la ghiaia trova l’ambiente naturale più congeniale. Selvaggio come l’ailanto che cresce alto e scarmigliato oltre la cancellata del porto, nomade per destino, invasivo per vocazione.

Mura della Malapaga

Mura della Malapaga

vedi anche per l’ailanto, 25 agosto 2008
per le bocche di leone, 26 settembre 2009

Erba viperina

Echium plantagineum

Echium plantagineum

La primavera si sbizzarrisce nelle aiuole cittadine, in questi fazzoletti di terra ai piedi dei lecci di fronte al cimitero di Staglieno. L’erba viperina è una piantaccia da strada, ma ha dei fiori graziosi e intensi nei loro colori lilla, violetto, azzurro, che si mescolano. Perchè si chiami ‘viperina’ è uno dei soliti misteri della storia popolare. Il nome scientifico, Echium, è sinonimo, dal greco εχισ che significa vipera. C’è chi dice che sia perchè il suo fiorellino (guardatelo più grande qui) assomiglia alla testa triangolare della vipera; ma storicamente il nome deriva dalla leggenda, raccontata anche dal botanico Rembert Dodoens, degli eroi mitologici Nicandro e Alcibiade che, morsi da una vipera e conoscendo la pianta, la masticarono, inghiottendone i succhi, trattarono il morso con il resto della poltiglia e in tal modo guarirono. Le due interpretazioni si incontrano estrapolando un po’ la ‘dottrina della segnatura’, l’antichissima teoria che attribuisce poteri medicamentosi alle piante in base alla loro forma.
Più che il nome qui mi interessa come l’erba viperina colonizza le città, crescendo svettante e rigogliosa all’ombra dei pneumatici dei bus e nell’aura infame dei tubi di scappamento. Personaggio interessante perchè stretta parente di varietà da giardino, come Echium candidans, Orgoglio di Madeira. Con un pizzico di cura e minimo sforzo potrebbe accompagnare gli dei anche in queste aiuolette polverose di un viale di città.

Viva l’amaranto

 Amaranthus

Amaranthus — Amaranto

All’ingresso del garage sotto la mia casa di Fontanegli, pianta vagabonda o avventizia casuale, sfuggita alla coltivazione di cui era oggetto per lo sgargiante colore (amaranto) e diventata invadente, infestante, erbaccia.
Da lontano il suo portamento flessuoso e le sue forme lussureggianti la fanno apparire pianta nobile,ma se osservata da vicino si trasforma in erba ispida e ruvida.
Da anni cerco di farla seccare, all’ombra, con l’illusione di poter conservare il rosso vino delle sue spighe. L’essicatura lo sbiadisce inevitabilmente, e tinge di grigio. Ma forse è colpa mia che non sono capace. Di nuovo lo appenderò in sacchi scuri negli angoli della serra, sperando che sia la volta buona.

Pianta americana, inserita un tempo fra le chenopodiaceae (come bietole e spinaci), oggi vanta una famiglia a sè, le amaranthaceae, e possiede generosi parenti che forniscono cereali andini, non particolamente appettitosi, ma assai salutari.

La stagione dell’inula

Dittrichia viscosa

Dittrichia viscosa

Il suo nome scientifico è Dittrichia viscosa o Inula viscosa, ma i suoi nomi comuni sono tanti, ceppica, inula, ceppitoni. Le sue sfacciate margherite gialle dominano incontrastate gli incolti di città in questa stagione.
Qui l’ho incontrata su una curva della ripidissima via Giovanni da Verrazzano, la strada che da Prato porta a Fontanegli, cioè a casa mia. Accanto, un melo inselvatichito ha abbandonato le sue inutili mele per terra. Nessuno le raccoglie, peccato. Sono convinta che siano buonissime.

Inula viscosaPianta della famiglia delle Asteracee, è diffusissima nella regione mediterranea dove cresce sui bordi delle strade e nei prati abbandonati. Vive quasi in incognito, un’erbaccia qualsiasi, per gran parte dell’anno, fino più o meno alla fine di agosto. Allora, quando i boccioli si aprono, è davvero difficile non notarla perché i suoi fiori gialli, smaglianti e intensi, non hanno niente da invidiare a quelli di altre margherite gialle più nobili. Dicono di lei: “pianta intensamente aromatica, glandoloso-appicicosa”, oppure “pianta dall’odore repellente, untuosa e appiccicaticcia”, e ancora “coperta di ghiandole estremamente appiccicose e con un odore simile alla resina”. In Liguria, queste piante vengono dette nasche, un nome che è sinonimo di pianta scaccia insetti, a ricordare il fatto che venivano usate per allontanare le mosche. Dato che sono così comuni nei campi abbandonati e negletti, c’è un vecchio modo di dire ligure “u nu ghe cresce manco e nasche”, non ci crescono neanche le nasche, per indicare luogo, ma anche persona, arido e sterile, dove è impossibile germogli alcunché.

Inula viscosaHo raccolto le inule fiorite in questi giorni e le conservo pressate dentro un libro. Trovo l’odore più aromatico che repellente. Le foglie sono ruvide e resistenti, gli steli robusti. E’ vero, poiché crescono sui bordi delle carreggiate e nei declini inariditi, le inule, come la parietaria e la nepetella, e tante altre umili erbe ed erbacce, sono spesso coperte di polvere e catrame, grigie e secche, troppo alte e raspose, prive di forma e di morbidezza. Ma quelle margherite gialle, brillanti soli che sbocciano a grappoli all’inizio dell’autunno, sono il loro riscatto, l’abito fatato della notte di Cenerentola, che le trasforma nelle piante più sgragianti e appariscenti nei prati di ottobre.

Il ninfeo di palazzo Lomellino

Piante del n infeo

Begonia e capelvenenre

Palazzo Nicolosio Lomellino è uno dei palazzi più rappresentativi fra i cosidetti palazzi dei Rolli, sito che fa parte del patrimonio Mondiale UNESCO. Edificato intorno al 1570, il palazzo Nicolosio Lomellino si trova proprio accanto al municipio (Palazzo Tursi). Essendo proprietà privata, non si può visitare sempre, ma sempre si può occhieggiare dalla via Garibaldi, attraverso l’atrio e i suoi mirabile stucchi, verso il cortile interno, fino all’imponente ninfeo settecentesco, il ninfeo di Fetonte. Dove c’è acqua, le piante prosperano, e questo luogo non fa eccezione, nonostante gli sforzi dei manutentori di liberarlo dalle intruse. Pare, mi hanno raccontato, che dopo essere state estirpate con violenza, mettendo anche a repentaglio la pietrosa superficie del ninfeo, queste siano tutte tornate, come prima e più di prima. Per lo più si tratta di capelvenere, la morbida felce dei muri umidi, e poi qualche altra intrusa, di quelle che stanno dappertutto come la Conyza o Erigeron che dir si voglia . Infine ci sono queste belle foglie, grassocce, cuoriformi, con picciolo e venature rossicce. Subito ho pensato a una begonia, e continuo a pensarci. La somiglianza più stretta è con Begonia evansiana, che produce graziosi fiorellini rosa a fine estate. Io credo che queste foglie siano un abbellimento per il prezioso ninfeo e spero non vengano estirpate troppo presto, che rimangano ancora un pochino e sia loro permesso di fiorire. Magari a fine estate potrò avere una conferma della mia determinazione.

Lavori in corso

Bituminaria bituminosa

Bituminaria bituminosa

Su uno sbancamento della collina dove è in costruzione una nuova casetta, la primavera non si è fermata. Fa quel che può e forse non resisterà a lungo, ma in fondo alle piante non interessa se la ruspa ha aperto varchi a pochi centimetri dalle loro radici, magari travolgendo altre piante. Alle piante non interessano le recinzioni e neppure le reti arancioni che delimitano il cantiere. Non importa nulla di nulla, fintanto che conservano lo spazio vitale per crescere un poco, dissetarsi ogni tanto e aprirsi sempre alla luce. Sono piante umili, il trifoglio bituminoso odora così profondamente di catrame che sulla strada sembra proprio dover essere a suo agio, con la tempra robusta dei suoi fusti e il verdo carico delle sottili foglioline. Cresce dappertutto, nelle cunette, al bordo del selciato e sugli sterrati, e il fiore è quello dei trifogli e dell’erba medica.

Anche la borragine è una pianta di poche pretese. Da giovane ha foglie verdissime, morbide e saporite. Poi quando le foglie cominciano a guastarsi, molto spesso si macchiano di bianco a causa di un fungo, esplodono i fiorellini azzurro viola, come caramelle stellate. Eccola qui, intrappolata sul bordo del baratro. La fotografia, scattata attraverso la rete arancione che delimita il cantiere, non rende l’idea della posizione scomoda in cui si era trovata perchè la distanza era troppa e io uso quasi niente i teleobbiettivi. Copiosamente fiorita si alzava, con piglio deciso, proprio sul ciglio dello scavo appena aperto, dentro una terra gialla che forse già stasera non ci sarà più.

borrago officinalis

Borrago officinalis