In piazza Manin è cominciato il rimboschimento. Al posto del vecchio ippocastano abbattuto (vedi post precedente del 7 febbraio 2015), e anche di altri che evidentemente hanno avuto lo stesso destino, sono stati messi a dimora piccoli ippocastani rosa, varietà assai piacevole alla vista, per lo meno per il tempo che durano i suoi fiori lucenti. Credo si tratti dell’Aesculus x carnea, ibrido fra l’appocastano comune A.hippocastanum e la specie a fiori rossi A.pavia (anche chiamata Pavia rubra). Questi alberelli hanno l’aspetto minuto, il fusto esile, quasi affaticato dal peso del lussureggiante fogliame e dei vistosi coni fiorali. Alla loro ombra acerba, contrasta quella terza età umana che si gode il meritato riposo sulle panchine della piazza.
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Il vecchio rudere
Ci sono ruderi antichi e ruderi vecchi. Questo fatiscente edificio sormontato da impalcature si trova lungo corso Europa, a Genova naturalmente, più o meno opposto alla sede della Rai Liguria, dentro il comprensorio dell’ospedale regionale San Martino. Non ho la minima idea di che cosa fosse nei suoi giorni migliori, ma è senza dubbio uno dei ruderi più “vecchi” che conosca. Della stessa opinione era una passante che mi si è rivolta divertita mentre lo fotografavo: “A caccia di ruderi?” Entrambe ci siamo trovate d’accordo che questo rudere è tale e quale da almeno 50 anni. Veramente io ero a caccia di alberi che sovrastano i ruderi. Come questo platano che da sempre allieta la carcassa di questa costruzione. Un albero per cui ho sempre provato una gran simpatia, e persino ammirazione. Lui e la casa distrutta, insieme all’imponente ciminiera che li sovrasta. Dei tre elementi certamente è il più utile, il più puro, il più bello.
… cliccate sulle fotografie per vederle in formato intero, l’immagine si apre in un’altra scheda …
Mandorlo a Borgoratti
Il mandorlo è il primo a fiorire. Degli alberi da frutto, intendo. I mandorli fioriscono quando ancora non ci siamo accorti che sta per arrivare la primavera, non ci stiamo pensando proprio. Il mandorlo di questo terrazzino non è da meno. L’avevo ricordato, insieme ad altri, già in questa pagina, e poi il giorno di San Valentino, 14 febbraio 2009. Proprio qui, ferma al semaforo di via Cadighiara, sorveglio il mandorlo che si sveglia, su una stretta fascia, sotto una casa appesa sul pendio. Immerso nell’ombra, è un piccolo albero da nulla capace di esplosioni straordinarie.
La mandorla è uno dei primi frutti ‘addomesticati’ dall’uomo. Quella primitiva è molto velenosa, perchè contiene un discreta quantità di amigdalina, una specie di cianuro. Ma a poco a poco, forse osservando gli animali o forse dopo ripetuti errori fatali, ne è stato selezionata una varietà dolce, a basso contenuto di amigdalina, commestibile e delicata, dal gusto raffinato. Non è al sapore delle mandorle che penso quando contemplo il miracolo di quei fiori bianco rosati che sbocciano quando è ancora inverno. Mi piacerebbe che durassero di più, forse penso, ed ho fretta di vederli sul mio ciliegio.
L’ippocastano di piazza Manin
Genova, piazza Manin angolo con via Assarotti. Un imponente albero di ippocastano allunga i suoi rami verso un elegante palazzo d’epoca (clicca per ingrandire). In tutte le stagioni, lo orna e impreziosisce con i suoi colori. In tutte le stagioni io pensavo: ecco un albero da fotografare. Il verde intenso delle larghe foglie a ventaglio contro l’azzurro del cielo primaverile. I perfetti coni di fiori che sembrano merletti. Le foglie stanche, accartocciate, cariche dei colori dell’autunno. E infine i rami, alti e spogli, eretti contro il grigio dell’inverno. Sullo sfondo, il palazzo, splendida inquadratura.
Troppo tardi. L’albero non c’è più e ne è rimasto soltanto un corto moncone. Forse era malato (ma sani sembrano i suoi primi vicini). Forse appariva un pericolo così alto e maestoso sul bordo dell’incrocio. Forse, semplicemente, i suoi rami esuberanti e frondosi si erano avvicinati troppo all’intimità di qualche ricca signora. Non so, ma ci sono rimasta male.
A quel che resta dell’albero, dedico questi bellissimi versi di Primo Levi (già pubblicati in questa pagina)
Il mio vicino di casa è robusto.
E’ un ippocastano di Corso Re Umberto
Ha la mia età, ma non la dimostra
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
in aprile, di spingere gemme e foglie.
Fiori fragili a maggio,
a settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
E’ un impostore, ma ingenuo: vuol farsi credere
emulo del suo bravo fratello di montagna
signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
i tram numero otto e diciannove,
ogni cinque minuti, ne rimane intronato.
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno succhia lenti veleni
dal sottosuolo saturo di metano
E’ abbeverato d’orina di cani.
Le rughe del suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali.
Sotto la scorza pendono crisalidi
morte che non diverranno mai farfalle.
Eppure nel suo torbido cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.
Qui sotto altre immagini di fratelli ippocastani di città
per le descrizioni, altri link sui miei blog
19 aprile 2009
10 dicembre 2008
19 maggio 2010
Alberi a Washington
La grande città di Washington, bella, per chi ama le città. I viali, ampi, le aiuole, comode, gli alberi, maestosi. Coloratissimi d’autunno, si può provare a indovinarli , da lontano; in giallo sono i ginkgo, in rosso vivo le querce, e gli aceri.
Il ginkgo (Ginkgo biloba)è un albero antichissimo, dalla storia leggendaria e affascinante. Spontaneo in certe regioni dell’Estremo Oriente, ove si racconta sia stato salvato dall’estinzione dagli instancabili monaci buddisti, è oggi largamente usato in Occidente a scopo ornamentale.Si classifica come conifera, o meglio gimnosperma, letteralmente ‘dal seme nudo’, perché i suoi semi non sono racchiusi nell’ovario.
E’ l’unico sopravvissuto della famiglia delle Ginkgoaceae che, come testimoniano i resti fossili, erano molto diffuse 150-200 milioni di anni fa ed appartenevano a un ordine ancora più antico delle conifere. Per questo a volte viene chiamato ‘fossile vivente’. Ha foglie decidue, disposte a grappolo, di forma molto caratteristica, a volte profondamente incise (da cui l’aggettivo biloba), che prima di arrendersi all’inverno si colorano di giallo canarino. Nella bella stagione, cresce delle bacche voluminose che ricordano grosse prugne dal lungo picciolo, anche se non sono propriamente frutti (assenti nelle gimnosperme), ma piuttosto involucri carnosi che ricoprono i semi. Emanano un odore abbastanza sgradevole, ma l’interno, semi compresi, è commestibile e ricco di sostanze di interesse farmacologico, i ginkgolidi.
Gli aceri americani sono famosi per i colori, e per lo sciroppo, che si ricava dalla linfa primaverile. La pianta che ne produce di più è l’acero del Canadà (Acer saccharum), la cui foglia appare appunto sulla bandiera canadese. Ma lo zucchero si ricava anche dalla linfa dell’acero rosso (Acer rubrum), che si incontra sovente per le strade di Washington, insieme all’Acer pensylvanicum, acero della Pensilvania. L’acero rosso si chiama così non tanto a causa del colore del fogliame autunnale, ma perchè dello stesso colore rosso sono i fiori, e le samare, le ali dei semi.
L’acero della Pensilvania viene anche detto acero striato perché la sua corteccia è cosparsa di sottili nervature, come la pelle di un serpente. Questa caratteristica che può aiutare ad identificarlo non si vede però in questa fotografia. Si vedono solo le foglie, rosso arancio, che spiccano con stridente contrasto contro la gelida vetrata azzurrata di un grattacielo.
Sono belli gli alberi di Washington, e sembrano quasi felici. Soprattutto nei piccoli giardini, crescono vasti e liberi. Non ho visto malattie evidenti, anche se certo la sofferenza esiste anche per loro. La città non è proprio un luogo a misura d’albero, anche se l’albero può adattarvisi, se non è violentato da potature troppo violente che lo umiliano e lo indeboliscono.
Per i vecchi post degli alberi di Washington (che ho riproposto in parte oggi) vedi
26 e 27 novembre 2008
17 novembre 2009
Bocche di leone della Malapaga
Le mura della Malapaga a Genova corrono da piazza Cavour alla magnifica porta del Molo progettata dall’architetto Galeazzo Alessi e conosciuta come Porta Siberia. I nomi raccontano storie. Il palazzo della Malapaga, dove le mura cominciavano, era una prigione dove venivano incarcerati coloro che non riuscivano a pagare i debiti, mentre il nome Siberia deriva da cibaria, in genovese pronunciato più o meno “sibaria”, perchè adiacente ai magazzini del grano. Per la generazione dei miei genitori, le Mura della Malapaga ricordavano inevitabilmente Jean Gabin e un celebre film italo francese che nel 1951 vinse l’oscar per migliore film straniero.
Portate dal vento negli anfratti della muraglia, fra le pietre e il cemento, le bocche di leone non hanno avuto bisogno di molto per germogliare e fiorire. Tanto sofisticate sono le variopinte corolle, concresciute a labbra per offrire accoglienza sensuale a devoti impollinatori, tanto modeste sono le pretese di questo fiore, che fra le macerie e la ghiaia trova l’ambiente naturale più congeniale. Selvaggio come l’ailanto che cresce alto e scarmigliato oltre la cancellata del porto, nomade per destino, invasivo per vocazione.
vedi anche per l’ailanto, 25 agosto 2008
per le bocche di leone, 26 settembre 2009
Dove osano i fichi
Il fico è un albero rampante, zingaresco, indomabile. La città, senza accorgersene, ne è piena. Li ho incontrati sul bordo del torrente, addossati alle muraglie più antiche, abbarbicati sopra la sopraelevata. Su e su, per crose e scale, i fichi non hanno paura di niente e crescono dappertutto. Spavaldo e spoglio, in un piccolo giardino, ancora offriva due piccoli frutti rinsecchiti nel gelo di febbraio (3 febbraio 2009).
Il fico è un albero rozzo e popolare. Le sue radici si allungano attraverso pietre e travi, penetrano nel cemento, distruggono, come poche altre sanno fare, muri e palizzate. Così il tenero, e soltanto apparentemente gracile, germoglio di fico che immancabilmente fa capolino fra le rughe del selciato non è una sorpresa piacevole e viene prontamente estirpato. Ma rinasce, vorace e altero, con le piccole foglie, già palmate e ruvide, già aggressive. Le foglie dei fichi, larghe e spesse, hanno un odore pungente e acre, quasi marcescente. Forse sono state davvero loro a coprire “le vergogne” di Adamo ed Eva?
Il legno dei fichi, tenero e poco innervato, è considerato infido.Tanto che l’avvertimento di non arrampicarsi mai su un albero di fico mi ha accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza, quando salire sugli alberi era uno dei giochi preferiti. I rami del fico, mi dicevano i grandi, sono traditori, capaci di spezzarsi di colpo, senza preavviso, senza inclinarsi nè piegarsi. Ma ironia della sorte, era proprio un fico l’albero sui cui rami possenti più sovente trascorrevo i pomeriggi a chiacchierare con un’amica, protette da una chioma fittissima che formava una capanna naturale e ci nascondeva agli sguardi indiscreti. Era veramente un albero maestoso e, malgrado la fama, non ci ha mai tradite.
Questo albero rozzo e volgare, è anche singolarmente prezioso, perchè, a differenza di altra frutta che ha conquistato il mercato di vaste zone del mondo, il fico si presta poco a conservazione e trasporto come frutto fresco ed si può consumare soltanto in regioni dal clima caldo e secco, come quello mediterraneo, assetato e dolce come la sua polpa zuccherina. Altrove, si possono gustare soltanto i fichi secchi, che però sono tutt’altra cosa.
Albero magico e ambiguo, per lungo tempo, l’impollinazione del fico era avvolta da un’aura di mistero. Infatti l’albero che produce le dolci infruttescenze (siconi) non possiede fiori maschili, e quindi polline, e dipende da un’altra pianta, il caprifico, per la fecondazione, compiuta per intervento di un insetto, un moscerino in cerca di un luogo idoneo per deporre le uova. Ormai il problema è superato, perchè sono state selezionate le varietà che non necessitano della fecondazione per produrre frutti e la storia del piccolo insetto e del ‘doppio’ fico è entrata nell’aurea della leggenda.
In città i fichi si ostinano a crescere negli angoli più negletti, abbandonando i pesanti, dolcissimi frutti al marciume dei marciapiedi. Che spreco!
…cliccare sulle immagini per vederle ingrandite in un’altra pagina…
Il coraggio della robinia
Tutti conoscono la robinia, albero rozzo e sgargiante, con foglie appetitose e verdissime, che si copre a primavera di profumati grappoli bianchi, visitati dalle api che ne ricavano un miele semplice e dolce. Anche se tutti, chissà perchè,la chiamano acacia, che sarebbe il nome della mimosa. Pseudoacacia è il suo nome specifico, e non ci si può sbagliare.
Della robinia ho già detto un bel po’ (vedi per esempio 24 aprile 2009 e questa pagina).
Uno dei più antichi immigrati dal nuovo mondo, invadente e perseguitata, qui è cresciuta veramente audace fra il marciapiede e un palazzo, addossata alle persiane di una casa. E si è alzata spudoratamente, senza guardare in faccia nessuno. Credo che la combatteranno, la estirperanno almeno un paio di volte, e se alla fine molto probabilmente avranno ragione di le, avrà combattuto strenuamente, con tutto il suo coraggio.
Fratello sconosciuto
Nei pressi della chiesa di San Pietro di Fontanegli sorgono alberi abbastanza imponenti, bagolari e pini domestici. Uno di loro è stato tagliato, forse era malato, perchè nessuno degli altri è stato toccato. Sul ceppo abbandonato, hanno scolpito la buffa faccia di una specie di folletto o troll dei boschi, ma alquanto pacifico e buonaccione. Un modo dolce e creativo per ricordare il fratello sconosciuto che ci ha lasciato soltanto un’impronta del suo passaggio.
Negundo
Questa fioritura dall’aspetto così esotico e appariscente appartiene a un esemplare maschile dell’acero americano, l’acero negundo. L’albero di questa foto si trova in via Claudio Carcassi (giureconsulto mazziniano), ai piedi dei muraglioni del parco del’Acquasola di piazza Corvetto, e slancia le sue fronde ancora spoglie di foglie, ma cariche oltremisura di amenti rosati verso l’abbandonata e fatiscente salita della Misericordia. Amavo quest’angolo di città fin da quando ci passavo da bambina, una scorciatoia per raggiungere la collina di Carignano da Corvetto. Anche adesso è un angolo appena nascosto dove mi attardo volentieri e, accanto agli immancabili lauri e un meno consueto e meno nobile gelso da carta (broussonetia papirifera, vedi 1 settembre 2009), avevo già notato il negundo, l’unico acero a foglie composte, verde acceso e tenero, ridondante. In questo post, il 9 maggio 2009, si trova l’immagine delle foglie e dei frutti di un esemplare femmina.
Ma per ammirarlo ornato dei ricchi amenti maschili il tempo stringe, abbiamo davvero soltanto un paio di settimane. Via via che la primavera avanza, le foglie si aprono brillanti e gli amenti si riducono a sottili filamenti sfrangiati.