Verde balcone

Asparagus sprengeri

Asparagus sprengeri

Un balcone fiorito in maggio è un esercizio quasi obbligatorio per chi ama le piante, e non è difficile da realizzare per chiunque abbia voglia di frequentare con assiduità qualche vivaio e non dimenticare le innaffiature. Ma una cascata di verde lussureggiante nel cuore dell’inverno cittadino colpisce l’immaginazione e fa correre  la fantasia a qualche nobildonna che con  attenzione e cura si preoccupa del rispetto delle tradizioni. Ma anche se non è così, certo è che queste piante non sono capitate e si sono mantenute qui così per caso.  La protagonista del primo balcone è un asparago ornamentale,  spesso chiamata asparagina, con i suoi lunghi fusti flessuosi, le minuscole foglie a squama e i piccoli e verdissimi cladodi, che sono rametti trasformati. Talvolta il verde si punteggia di bacche rosse arancio, e qualcuna occhieggia in mezzo alla cascata di rami, come si vede ingrandendo l’immagine (selezionandola con un click si apre in un’altra pagina) e osservando con attenzione. In questo luogo e in questo tempo, non si può davvero pretendere di più. Dove si trova di preciso questo balcone non lo so. L’ho fotografato fra piazza Santa Caterina della Rota e piazza de’ Ricci, forse lungo la via di Monserrato che le unisce.

Balcone fiorito

Nephrolepis cordifolia – Hedera helix – Trachelospermum jasminoides

Certa è invece la localizzazione del secondo balcone verdeggiante, immortalato sempre in un pomeriggio d’inverno, nella stessa zona. Siamo in piazza Farnese, che si raggiunge percorrendo fino in fondo quella stessa via di Monserrato, e questo edificio è dirimpetto all’immacolato  palazzo omonimo, che è sede dell’Ambasciata di Francia. Non so quanto nobile sia questa costruzione, che si fregia di reggere la targa del luogo, ma da nobili è circondato, ad angolo con il convento e la chiesa di Santa Brigida e con alla destra, oltre il vicolo dei Baullari, il palazzo del Gallo di Roccagiovane.  Fra le piante si riconoscono i cespi dalle lunghe fronde della felce Nephrolepis cordifolia, che spuntano a frange direttamente dal rizoma sotterraneo,  l’edera maculata (Hedera helix) dalle sfumature bianche, e perfino un falso gelsomino (Trachelospermum jasminoides) con le sue foglie persistenti e coriacee, e i fusti che si arrampicano sul muro. Ne avrà tempo per fiorire e inebriarci con i suoi effluvi più o meno gradevoli. Per ora verdeggia.
A quando un concorso per balconi lussureggianti nel cuore dell’inverno?

Paulownia, solitaria regina

Paulownia tomentosa
piazza della Chiesa Nuova

Gli alberi in città sono spesso individui solitari, condannati all’isolamento austero e talvolta negletto all’ombra di monumenti ed edifici che essi nobilitano con la loro discreta ed elegante presenza.

In questa piazza, nelle vicinanze di corso Vittorio Emanuele a Roma, magnificenza e bellezza non mancano, fra la chiesa di santa Maria in Vallicella, fatta edificare a metà del 16° secolo da San Filippo Neri e l’oratorio dei Filippini, in stile barocco, opera di circa cent’anni dopo dell’architetto Francesco Borromini.

Paulownia tomentosa

Paulownia tomentosa
d’inverno

La paulownia, a volte chiamata pawlonia o volgarmente paulonia, è un grande albero originario dell’Oriente, con ampie, larghissime foglie e straordinari fiori dal colore azzurro e lilla. Il  nome stesso suggerisce la sua natura aristocratica perché deriva da Anna Paulowna (o Pavlovna), la figlia dello zar di Russia Paolo I. Naturalmente fu battezzata così in onore dello sponsor, perché con la Russia non ha nulla a che fare, essendo originaria del Giappone e laggiù scoperta da Carl Thunberg, discepolo di Linneo.

Paulownia tomentosa

Paulownia tomentosa
frutti estivi

Pianta attraente, ma anche resiliente e tollerante dell’aria malsana delle metropoli, viene largamente utilizzata nel verde urbano. Scoprirne la fioritura in città è affascinante, ma questa purtroppo dura molto poco e questi che rimangono sugli invernali rami spogli sono i frutti, anzi gli involucri dei frutti, che già hanno rilasciato i semi. Scarno e nobile ornamento dell’inverno.
I vasti rami carichi lasciano immaginare quale macchia di verde generoso quest’albero sarà nella bella stagione, nella piazza inondata di sole.

 

Gigaro

Gigaro

Arum italicum
parco di Villa Serra Comago
Serrà Riccò (Genova)
gennaio 2009

Il gigaro è una calla selvatica, una piantaccia velenosa ed infestante con foglie a forma di freccia, di un bel verde intenso, spesso maculate di bianco.  Il mio giardino è costellato dei suoi tuberi, di ogni dimensione e profondità.  Ogni inverno mi impegno molto ad estirparli, scavando alla ricerca del rizoma senza grande successo; nella maggior parte dei casi strappo la foglia, e il suo gambo, senza riuscire a sradicare un bel niente. Così, a primavera, qualche fiore di gigaro spunta fuori, non privo di un fascino un po’ inquietante.

Gigaro Spadice e spata

Arum italicum
spadice e spata

I fiori veri e propri sono molto piccoli e crescono alla base di una colonna, detta spadice, di color giallo arancio parzialmente racchiusa in un cappuccio. Questo è la spata, la parte appariscente del fiore, lunga fino a 40 centimetri. La magia di questa composizione floreale sta nel fatto che certi insetti, principalmente ditteri, cioè mosche, vengono intrappolati alla base della spata e si riempiono di polline; più tardi sfuggono, permettendo così l’impollinazione incrociata quando resteranno intrappolati in un altro fiore. Maturano così i frutti, bacche disposte a spiga, prima verdi, poi rosso arancio.

Gigaro bacche

Arum italicum
bacche

 

E’ tutto velenoso. Le lucide foglie astate, le infiorescenze, i bianchi cappucci, e naturalmente le bacche. Ci mette in guardia Primo Boni1, che lo chiama anche pan di serpe, e non manca di indulgere in particolari abbastanza agghiaccianti sugli effetti dell’intossicazione, nel caso un ignaro bambino, tentato da forme e colori così seducenti, se ne metta in bocca qualche pezzetto.
Il gigaro cresce dappertutto e le sue foglie alla fine dell’autunno formano cespi lucenti nei giardinetti sui prati spogli.

Primo Boni, Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche, Edizioni Paoline, 1977

Liriodendro o albero dei tulipani

Liriodendron tulipifera
parco di Villa Serra Comago
Serrà Riccò (Genova)
gennaio 2009

Il liriodendro, o albero dei tulipani, nome che gli deriva dalla forma dei fiori, è una pianta originaria del Nord america. Gli indigeni (indiani d’America) lo chiamavano l’albero canoa perchè i tronchi massicci venivano utilizzati tutti interi per costruire le canoe. E’ un albero di una bellezza esagerata, e questa volta parlo sul serio, non soltanto in ragione del mio amore per il mondo vegetale. Si tratta di bellezza reale, quella stessa che si trova sul volto di una donna, e a volte anche di un uomo, che non possiede espressione che non sia attraente. Il liriodendro ha un portamento regale, con un tronco diritto e una chioma folta e regolare, foglie dalla forma aggraziata, morbidamente quadrangolari, verde tenero nella bella stagione e di affascinanti colori dal giallo all’arancione in autunno.

Liriodendron tulipifera
parco Burcina (Biella)
maggio 2011

I fiori, come quasi sempre nella famiglia delle magnolie, sono assai appariscenti, a sei petali giallo verdi solcati da nervature viola e arancio. E d’inverno, quando ormai si è spogliato di quasi tutte le sue attrattive, restano sui rami i calici dei fiori, rigidi ed essiccati, teatrali, spiccano come stelle o gioielli.
L’albero della fotografia in alto si trova nel parco storico di Villa Serra a Comago, in val Polcevera, nelle vicinanze di Genova.
I liriodendri sono molto comuni come specie ornamentale nei viali e parchi cittadini, come si vede in un’immagine di qualche anno fa, via Felice Cavallotti, zona Foce di Genova in questa pagina.
Ripropongo ancora questo post da un’idea del 4 gennaio 2009.

Bambina d’inverno

Mi guarda sempre imbronciata e severa la bambina sul muro delle case popolari di Tor Marancia.Tor Marancia
L’inverno ha spogliato la robinia e la pioggia lucidato la yucca. Più sfavillante e nitida l’avevo ammirata sei anni fa in un ottobre tiepido e traballante (era l’anno del terremoto di Amatrice). Ora nuove rughe giocano con i tratti del dipinto, il tempo scava sull’intonaco nuove storie impreviste.
Il nome Tor Marancia deriva probabilmente dalla deformazione medioevale di Amaranthus, il nome di un liberto a cui nel II secolo DC era stata data in gestione la tenuta e la villa di proprietà della nobile famiglia Numisia Procula. Con l’editto di Costantino del 313 d.C. il cristianesimo era diventato religione dell’impero e la chiesa assunse un enorme potere politico ed economico che investì anche la campagna romana. Nacquero così le Domuscultae vere e proprie aziende agricole e vinicole facenti capo alla diocesi. Accanto ad esse furono innalzate per tutta la campagna romana centinaia di torri che avevano il compito di avvisare l’urbe in caso di minaccia dei pirati. Infatti erano frequenti le incursioni dal mare da parte dei saraceni. Memorabili nell’830 e nell’842 i saccheggi della basilica di San Pietro, di San Paolo e dell’abbazia della tre fontane.

Torre San Tommaso - Tor Marancia

Torre San Tommaso

Fra le antiche torri, l’unica sopravvissuta fino ai giorni nostri è la torre di San Tommaso che da oltre ottocento anni svetta in cima a una collinetta, poco prima che viale Tor Marancia incroci la via Cristoforo Colombo.

Trovo queste informazioni, e altre più recenti e importanti, su due pannelli in bella mostra ai piedi della torre. Questi pannelli sono una risorsa per il viandante indagatore di curiosità locali. Alcuni abbandonati e negletti bisogna sbrigarsi a fotografarli, altri per fortuna ancora pienamente leggibili e accurati. Questi, curati dall’Associazione Parco della Torre di Tor Marancia, sono datati 30 novembre 2019 e sono ancora in buono stato. Il font utilizzato per la scrittura è stato realizzato per agevolare la lettura ai dislessici e casi di disturbi specifici dell’apprendimento. E anche agli stranieri aggiungerei io, tutti quelli che chiedono, per favore, di scrivere sempre  in stampatello.
Nel maggio del 1933, sotto il regime fascista, cominciò la costruzione della borgata Tor Marancia (conosciuta anche come Tormarancio) affidati alla ditta Giovannetti. Erano gli anni della grande disoccupazione e della liberalizzazione degli affitti, anni in cui l’urbe e il suo centro subirono opere di trasformazione profonda, veri e propri sventramenti con l’allontanamento dal centro di tutte quelle persone che vivevano in condizioni precarie e di povertà, disagio da nascondere, lontano dagli occhi che dovevano osservare la grandezza di una città e di un regime, quello fascista che preferiva deportare i suoi cittadini in borgate fatiscenti pur di mostrare un’illusoria e falsa potenza. Roma era grande, o almeno doveva sembrarlo.

Tor Marancia
ottobre 2016

Trasferiti in massa in queste borgate erette frettolosamente, fatte di case tutte uguali, con materiali di poca durata e di scarto, furono abbandonati a loro stessi, senza i servizi minimi come strade, fogne, scuole, pronto soccorso e mezzi pubblici. Tor Marancia nacque per accogliere alcuni di questi disperati e tutte le loro tragedie. La borgata fu edificata all’interno di una buca vicino alla “Marrana” e ad ogni pioggia di allagava proprio come al passaggio di un monsone asiatico e per questo soprannominata Sciangai.

Tor Marancia

“Ebbene io vivo a Tor Marancia con mia moglie e sei figli, in una stanza che è tutta una distesa di materassi e quando piove l’acqua ci va e viene come sulle banchine di Ripetta,” lamentava il protagonista di una dei racconti romani di Alberto Moravia (Il Pupo 1954), mentre Ugo Zatterin nel suo romanzo Rivolta a Sciangai nel 1948 descriveva così la borgata:
“Nessuno saprà dire quale caratteristiche di Sciangai abbia particolarmente ispirato l’ignoto che battezzò con questo nomignolo esotico un rifiuto periferico di metropoli incastrato in un valloncello, tolto alla vista dei civili. Se la guardate dall’alto, appena fuori dalle siepi di more e rose selvatiche, Sciangai ha l’aspetto di una fabbrica di esplosivi, fatta razionalmente di casupole leggere, che sembrano pronte ad andarsene con il vento di marzo, allineate militarmente simmetriche; e i tetti sono tutti rossi quando c’è il sole…”

Tor Marancia
ottobre 2016

La costruzione delle attuali case popolari iniziò nel 1947 per intercessione di due senatori del PCI Edoardo D’Onofrio e Emilio Sereni, a seguito della legge De Gasperi sul risanamento delle borgate, conclusasi nel 1960.
Ma dal 2015 un’altra città è cresciuta a Tor Marancia, la città dell’arte di strada e dei murales più straordinari del mondo. Dopo sei anni, i segni del tempo cominciano a mostrarsi sui muri dipinti e consumati dalle intemperie. Sarebbe bello poter sperare in un restauro, chissà se in questi tempi difficili spunterà ancora una volta la primavera.

Dell’olivo e l’orniello

Gennaio . l'olivo e l'orniello

Olea europea-
Fraxinus ornus

E’ nuovamente gennaio e, fra incertezze e speranza, comincia un nuovo anno, almeno così si usa dire. Oggi è una giornata grigia e nebbiosa, nonostante l’alta pressione. Con un fenomeno bizzarro, e vagamente inquietante, l’anticiclone subtropicale riscalda l’aria in quota, ma l’aria fredda, più pesante, si accumula nel fondovalle immerso nell’umidità nebbiosa.

roverella

Quercus pubescens

Limpido e terso invece era il cielo nei primi giorni di gennaio del 2015,  quando ho scattato questa fotografia, durante una breve passeggiata lungo il percorso dell’acquedotto storico genovese. Spogli sono gli ornielli e le roverelle, mentre brillano argentate al sole le foglie degli olivi sempreverdi. La ricchezza del paesaggio mediterraneo è anche questo, la coesistenza serena di essenze così diverse, quelle che si difendono dal freddo liberandosi delle foglie e quelle che scommettono nell’inverno mite e le foglie se le tengono strette.
Diversi anni fa avevo creato una piccola animazione(che si può vedere cliccando sull’immagine qui sotto), che mostra come un albero, un carpino bianco che si trovava in un giardino sotto casa mia, muta nel corso di un anno, da verde a giallo e poi spoglio e poi di nuovo verde.

Carpinus betulus
viale Bernabò Brea

Quando mostrai il mio piccolo lavoro alla mia amica Cheryl, che abita in Suriname, la cosiddetta Guyana olandese, poco a Nord dell’equatore, lei si mostrò molto perplessa. Dalle sue parti non esistono alberi che perdono le foglie d’inverno, forse perché da quelle parti non esiste l’inverno. Ma i suoi dubbi non riguardavano il fatto che gli alberi perdessero le foglie.  Mi disse invece che le mie immagini erano certamente ritoccate, perché si vedevano altri alberi che non cambiavano aspetto per niente.  Evidentemente lei era convinta che alle nostre latitudini tutti gli alberi perdano le foglie, o meglio che non è possibile che esistano nelle stesso giardino alberi spoglianti e alberi sempreverdi. Le ho spiegato naturalmente come stanno le cose, ma non sono veramente sicura di averla convinta, cioè di aver fugato ogni suo dubbio sul fatto che io avessi creato le immagini della sequenza in qualche modo fittizio. La serena coesistenza di piante dalle esigenze così diverse non pare così scontata neppure a me e mi sembra quasi un indizio di una precisa vulnerabilità del nostro ambiente naturale, dopo convive chi ha bisogno del freddo invernale e chi un po’ lo teme. Così gli inverni molto rigidi rappresentano una seria minaccia per gli olivi e gli agrumi, ma gli inverni troppo miti, queste temperature primaverili anche in gennaio, complicano la vita agli alberi dei boschi decidui. Comunque vada, sembra inevitabile che a lungo andare le bizzarrie del clima modifichino in modo irreversibile il verde che circonda.

Storie di piante non illustri

Piante non illustri

Verbena officinalis

Da settimane la vedo lungo la mia passeggiata del mattino, eretta e sottile sul bordo della strada, con i suoi microscopici fiori quasi invisibili. Pianta nobilissima nei tempi antichi, celebrata per le virtù afrodisiache, protagonista di decotti e pozioni essenziali, erba magica e sacra, oggi la verbena cresce soprattutto in zone antropizzate e vive praticamente sconosciuta. Non è veramente commestibile, perché ha solo piccole foglie amare, ma incontrarla è un’emozione, perché la sua semplicità evoca rispetto. Le sue forme sono così esili e sfuggenti che fotografarla è difficile  (vedi anche 11 agosto 2009). A dispetto dell’apparenza, è una pianta robusta e molto tenace. I vivai vendono vasi variopinti delle sue sorelle ornamentali, ma è solo lei, la piccola verbena selvatica, la responsabile della fama millenaria.

Piante non illustri

Silene alba

Poco lontano, in mezzo all’erba lucida di pioggia, i fiori bianchi della silene, sbrindellati, ma ancora saldi, sbocciano incuranti di essere fuori stagione. Più tardiva, ma molto simile alla silene rigonfia (Silene vulgaris), anche questa pianta ha calici a forma di piccoli otri, che si sgonfiano con un piccolo fischio.  Erba commestibile ed ingrediente frequente delle zuppe tradizionali, no, non è un’erba illustre, decisamente popolare direi.

Piante non illustri

Diplotaxis tenuifolia
Malva sylvestris

Intanto la rucola selvatica e le malve del prato non sembrano avvilirsi nel fresco di novembre, nel parco urbano dell’Appia Antica (Roma). Piante non illustri, ma preziose, più  verdi del verde, si godono l’aria ricca di umidità. La rughetta selvatica (Diplotaxis tenuifolia) è una specie perenne e comune quasi dappertutto, fresca e piccante, saporitissima se piace, da consumare cruda per chi ama le insalate aromatiche. I suoi sgargianti fiorellini gialli rallegrano il pallido sole. Non ha bisogno di presentazioni la malva, commestibile in insalate e zuppe, le cui foglie e fiori hanno innumerevoli utilizzi medicinali.

Viene da lontano la galinsoga, nativa delle zone montagnose del centro America e deve il suo nome al medico botanico spagnolo del 18° secolo Martinez de Galinsoga. E’ una margheritina poco appariscente, ormai naturalizzata quasi in ogni regione d’Italia e spesso disprezzata come infestante.

Piante non illustri

Galinsoga parviflora

Di erbaccia fastidiosa, in campagna e città, ha davvero tutte le caratteristiche, produce moltissimi semi, sempre pronti a germogliare nelle circostanze più varie, si riproduce facilmente anche per propagazione vegetativa, e poi cresce velocemente, fiorisce sempre e per diverse stagioni(1).
Ma non è vero che non serva a niente, e se raramente si trova nei manuali di fitoterapia, è perché è poco conosciuta, e snobbata, nel vecchio continente. Nei suoi luoghi di origine e habitat più congeniali, cioè le zone tropicali, viene impiegata come pianta medicinale per vari malanni, oltre che come cicatrizzante sulle ferite. Infatti contiene principi attivi che le conferiscono proprietà antibatteriche,antimicotiche, antiossidanti, antinfiammatorie e vermifughe (2). Non è tossica, anzi è un’erba alimentare sia per gli animali che per le persone. In città si trova soprattutto nei giardinetti, in qualche piccola aiuola rugiadosa, ma per le insalate la preferirei campestre.

Piante non illustri, ma ricche di storia, che per caso incrociano il mio cammino in un giorno di fine autunno.

(1) Damalas CA (2008) Distribution, biology, and agricultural importance of Galinsoga parviflora (Asteraceae)-  Weed Biology and Management 8:147-153.
(2) Ali S et al. (2017) Ethnobotanical, phytochemical and pharmacological properties of Galinsoga parviflora (Asteraceae) – Tropical Journal of Pharmaceutical Research 16:3023-3033.

Portulaca al Testaccio

TestaccioL’area dismessa dell’Ex Mattatoio del Testaccio a Roma, dove fino al 1970 venivano macellate le carni per il fabbisogno della capitale, è stata in anni recenti parzialmente ristrutturata e accoglie realtà culturali di grande importanza, come l’Accademia di Belle Arti, la Facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre e una delle sedi del museo di arte contemporanea MACRO.

Testaccio

Plumbago capensis
Senecio angulatus

Sul lato opposto, verso Campo Boario, là dove  la carne veniva mercanteggiata, sono invece alloggiate associazioni e aggregazioni sociali le più disparate, dalla Casa della Pace, a gruppi etnici di liberazione nazionale, come YPG. In queste terre di tutti e di nessuno, le erbe selvagge prosperano indisturbate, accanto a fioriture massicce di floride piante da giardino abbandonate.

Portulaca oleracea

Portulaca oleracea

La portulaca (Portulaca oleracea), detta anche porcellana, erba da porci, sportellacchia, e chi più ne ha più ne metta, è una delle erbette più comuni e diffuse negli incolti o ai bordi delle strade. Le sue parenti nobili si possono acquistare in vaso nei vivai e producono fiori sgargianti e variopinti. Però non è vero che lei, la piccola impudente, abbia fiori insignificanti; viceversa le sue piccole corolle gialle hanno un’aggraziata eleganza, fra le foglie carnosette, spesse e lucide, di forma ovale. I fusti prostrati, rosseggianti, morbidi, si allungano perfettamente a loro agio in mezzo alla spazzatura. La portulaca, che, come tutte le erbacce, viene sistematicamente estirpata, è in realtà un’insalata prelibata, se raccolta pulita e fresca, e può essere consumata cruda, con pomodori e cipolla, o lessata come gli spinaci, o fritta con le uova, come sempre ottimamente suggerisce Primo Boni nel suo insostituibile manuale “Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche” (Ed. Paoline 1977). Selvatiche, appunto, non urbane, perchè seppure questa pianticella ci sorprende e allieta con la sua esuberanza, non credo che cibarsi di questi esemplari cittadini sia poi così salutare.

Fitolacca a Ravecca beach

Fitolacca, cremesina uva turca e persino amaranto(1), quanti nomi per quest’erba, irruente e robusta, che cresce con grande velocità, infesta campi e fossati, ruderi e cortili, rivi e scarpate, con travolgente esuberanza.

Phytolacca americana

Neofita invasiva, ormai naturalizzata ovunque (ma da dove viene si capisce dal nome specifico), ha fiori, disposti in sorta di pannocchiette (tecnicamente racemi) bianchi verdastri (ma non sono petali, piuttosto elementi sepaloidi) che si traformano in lucide bacche verdi, poi porpora e infine nero-purpureo. Tutti i nomi di questa pianta ne richiamano l’uso come colorante, anche alimentare(2) e, seppur certamente tossica, è specie officinale, usata dagli indiani d’America per vari usi medicamentosi, e oggetto di studio per possibili proprietà antivirali e antitumorali. Commestibili sarebbero i germogli, se si fanno a lungo bollire (coglieteli lontano da traffico e fumi e provateli a vostro rischio) e le bacche, se opportunamente trattate (come spero lo siano quando vengono usate per colorare il vino). Per crescere non chiede davvero permesso e si trova nei luoghi più inaspettati.

Fitolacca

Phytolacca americana

Eccola prosperare indisturbata nelle aiuole incolte, padrona dell’improbabile ‘Ravecca beach’, ai margini di quella storica, antica direttrice che va dalla porta Soprana o di Sant’Andrea a piazza Sarzano, nel cuore del centro antico di Genova. Via di Ravecca, toponimo di origine sconosciuta, era popolata fin dal medioevo, prima da nobili (Embriaci e Fieschi) poi da ceti sempre più popolari. Le vicissitudini delle guerre l’hanno ferita più volte, dalle bombe francesi del 1648, a quelle anglo americane dell’ultima guerra mondiale, che rasero al suolo la vicina via Madre di Dio, oggi totalmente ricostruita. Negli ultimi decenni del XX secolo, la zona era ancora ingombra di macerie e piuttosto degradata e fu una delle ultime ad essere rinnovata. Oggi brulica di vita e commercio; ma anche di erbacce. Come la fitolacca, che in fondo mi è simpatica, come tutte le piante, belle, che crescono in mezzo a pietre e rovine, riconquistando con leggerezza e noncuranza lo spazio che era stato loro strappato dalle effimere costruzioni umane.

Sua sorella, Phytolacca dioica, maggiore perchè è un albero alto, imponente e decorativo, viene spesso piantata nei giardini e nei viali.

(1) L’amaranto, quello vero, è una pianta differente.
(2) Il nome americano è pokeweed, e deriva da come la chiamavano gli algonchini, gli indiani di Pocahontas; ma viene usato anche inkberry, che richiama nuovamente le sue proprietà coloranti.

Vite americana

La chiamano vite americana, oppure canadese, ma il suo vero nome è Parthenocissus ed è comune sui muri dei giardini nelle specie tricuspidata o quinquefolia.

Vite americana

Parthenocissus tricuspidata

E’ una pianta liquida che prende la forma del contenitore. O meglio, è una pianta gassosa, perché del tutore assume anche la dimensione, e si espande fino a riempire ogni spazio consentito, inarrestabile, multiforme, imprevedibile. Qui a destra si vede come riesce a ricoprire interamente un palo della luce.

Il Parthenocissus colonizza i muri, li adatta a sua immagine e somiglianza, li adorna, li popola e alla fine li divora. Avevo una vite americana sul muro di una fascia del giardino. A primavera le morbide foglioline in tenere sfumature di verde crescevano lungo uno stelo sottile, che si arrotolava con grazia sul palo di un lampioncino del giardino. Io la lasciavo fare, mi deliziavo alla sua grazia e semplicità. Pochi mesi dopo aveva ricoperto il piccolo lampione di uno strato di foglie così spesso che non solo oscurava la fioca luce della lampadina, ma rischiava persino di compromettere la stabilità del palo. Ho dovuto reciderla senza pietà e mai più consentirle di spingersi così tanto avanti.

Vite americana

Parthenocissus quinquefolia

La vera seduzione della vite americana sono i suoi colori autunnali, tutte le sfumatura del rosso. Proprio in questi giorni comincia a screziarsi, con macchie che sembrano tracciate con un pennello. Quando sarà tutta rossa, assomiglierà a quella che ho mostrato sul muraglione dell’ascensore di Castelletto o  su un muro nelle vicinanze di Finalborgo (3 ottobre 2008), rosso fuoco più del tramonto.

Però in città si trova dappertutto, in tutte le sfumature dal verde al rosso. Ho riempito libri e quaderni di foglie rosse, rosa e arancio, di Parthenocissus. Disidratate con cura i colori si conservano immutati per decine di anni.