Sul bordo del bosco ho incontrato un germoglio di foglie nuove e verdi che riconosco come un piccolo leccio. Quercus ilex, la più comune delle querce sempreverdi mediterranee, viene ampiamente utilizzato e sfruttato nel verde metropolitano. Qui dove la città finisce, ai confini di quel verde suburbano che non è più prigioniero ma neppure completamente libero, nel versante settentrionale che al mare volta le spalle, i lecci non vengono dal bosco, ma dalla città. Grandi lecci di fronte ad ogni chiesa, a Bavari, punta di valico, di fronte alla chiesa di San Giorgio, un albero possente fa ombra a tutto il sagrato, così come a Montesignano, quartiere popolare per niente campestre.
Scendendo più giù, verso il centro della città, nei giardini pubblici di piazza Martinez di fronte alla chiesa di San Fruttuoso, sono sempre i lecci a bordare i marciapiedi, più piccoli e dimessi perché probabilmente sottoposti a incessanti quanto impietose potature. Altri viali di lecci ornano le periferie, fra palazzoni e centri commerciali.
Albero solido, a volte imponente, severo, resiliente, coriaceo come la sue foglie, il leccio non è mai bello. La sua scorza è ruvida, il suo verde è oscuro e le sue foglie cadute sono polverose e rigide. Non potrebbe essere altrimenti per sopportare il nostro clima mediterraneo, asciutto e intensamente soleggiato, e anche l’aria pesante e torrida della città.
Un’altra quercia mediterranea, la sughera, sa farsi prediligere e desiderare per la sua unicità, perché ha sviluppato uno strato di corteccia di eccezionale porosità e leggerezza che si presta agli usi più disparati. Invece il leccio, che cosa ha da dare? Null’altro che quell’ombra opaca che dona sollievo dalla calura, ma non vera e propria frescura. Vero è che le sue piccole ghiande appuntite sono più appetibili di quelle delle altre querce. Dice il poeta Virgilio che prima dell’avvento dell’agricoltura (prima che ‘Cerere insegnasse ai mortali a rivoltar la terra con l’aratro’), la sacra selva forniva corbezzoli e ghiande, che certo venivano usate per farne farina, soprattutto le ghiande del leccio più dolci e meno astringenti. Si dice che nella Spagna quest’uso continuò fino a tempi relativamente recenti, ma i nostri antenati, si sa, avevano esigenze alimentari meno sofisticate e più schiette delle nostre.
Ora che i boschi costieri sono stati sterminati, il leccio sopravvive come inevitabile compagno di strada, torvo signore dei marciapiedi, aggrovigliato testimone delle lordure urbane.
Però come tutte le creature, anche quelle meno attraenti, i giovani virgulti, come i cuccioli, sono teneri e nobili. Il loro verde è brillante e luminoso, la loro scorza più morbida. Chissà se questo piccolo germoglio cresciuto fra essenze diverse, allori, carpini, robinie e pioppi, diventerà mai un albero. Ad arricchire e impreziosire un bosco che potrebbe tornare alle sue origini più genuine.