Quando fiorisce il ligustro

Ligustro

Ligustro
Ligustrum vulgare

Il ligustro comune è un piccolo arbusto che si può incontrare spesso ai bordi dei boschi. Si fa notare soprattutto in questa stagione  per le dense pannocchie di fiorellini bianchi, come la pianta della foto a destra, in via Montelungo, una strada di collina che congiunge Bavari con Sant’Eusebio.
Comune nella zona Mediterranea (ma anche in tutta Europa), il nome Ligustrum potrebbe addirittura far pensare che sia ‘pianta della Liguria’. Tuttavia mi sembra proprio un’etimologia azzardata. Piuttosto i rami flessibili si prestavano molto a farne dei legacci, e quindi Ligustrum deriverebbe se mai dal latino ligare.

Ligustro piazza Tommaseo

Ligustrum lucidum
piazza Tommaseo

Questo piccolo arbusto si incontra talvolta nelle fioriere anche in piazzette cittadine, ma per ornamento urbano viene usata soprattutto un’altra specie, importata dall’estremo oriente. Si tratta di Ligustrum lucidum, un alberello di media statura, fino a otto metri, dalle foglie sempreverdi ovali, lucide (da cui il nome), e fiori bianchi in pannocchie lasse e piramidali, da cui nasceranno tante, ma proprio tante bacche sferiche blu opache (vedi 16 dicembre 2008).
La città ne è piena. Le pennellate bianco latte dei fiori si accendono in queste lunghe giornate, le più lunghe dell’anno, come lampi di luce, immersi nel verde cupo delle foglie.

Albero schivo, di poche pretese, resistente all’inquinamento, molto sfruttato e poco amato, si vendica delle scarse attenzioni che riceve quando i frutti sono maturi e li distribuisce senza ritegno ad ingombrare i marciapiedi. I fiori bianchi, invece, sono una visione leggera, quasi rinfrescante, nell’afa immota che strangola le strade.

Fiori sulle rovine in via di Francia

via di Francia
La stazione ferroviaria di via di Francia è una stazione a metà. Esiste solo per i treni diretti a levante, mentre quelli che vanno verso ponente transitano senza fermarsi. E’ una stazione metropolitana, utilizzata soprattutto per il trasporto locale e abbastanza frequentata. Naturalmente solamente su uno dei due binari. L’altro esiste, ma non serve a nulla perchè i treni in transito passano altrove, su diverse rotaie che si trovano in posizione rialzata rispetto alla stazione.

La stazione di via di Francia sta da anni nel bel mezzo di un grande cantiere, che avanza come i ghiacciai, un passo avanti e due indietro. Dietro la stazione, dietro il cantiere, ci sono edifici abbandonati e irraggiungibili che raccontano storie sconosciute.  Imponenti nel loro disfacimento, certe costruzioni conservano intatta l’impronta della loro originaria, rispettabile e quasi gloriosa, destinazione d’uso. Così anche se rovine propriamente non sono, mi affascinano non tanto per il loro abbandono, quanto perchè resti di una vita precedente. via di FranciaDi indistruttibili ruderi, protagonisti loro malgrado di importanti angoli della città, avevo già scritto.

Stupefacenti, è ovvio, le piante che li popolano, li hanno colonizzati e non li abbandonano. Come questa bignonia,  Campsis radicans  (vedi anche 14 luglio 2008), incontenibile arrampicatrice, con le sue fronde sgargianti e con le inconfondibili trombe rosso arancio.  Mi avventuro nei pressi del cantiere per fotografarla, nella canicola del torrido pomeriggio. La costruzione gialla scrostrata su cui si abbarbica sembra davvero un’antica stazione, ma purtroppo io non ne so nulla. Forse occorrerebbe intervistare qualche vecchio sampierdarenese attento alle modificazioni urbanistiche e architettoniche del suo quartiere. Esisteva anche in passato una stazione da queste parti? Non siamo lontani dalla villa Grimaldi, La Fortezza, e neppure dalla cinquecentesca villa Scassi. Le rovine a metà si mescolano con nuovi colossi, già a loro modo fatiscenti, come il grattacielo di 24 piani denominato Torre Cantore, di un improbabile cemento rosa, costruito nel 1968.

La bignonia è una pianta americana che d’inverno perde le foglie e quasi scompare, sorprendendoci con il suo ritorno, anche molto lontano da dove l’avevamo lasciata all’inizio dell’inverno, sempre più esuberante, sempre più temeraria.

Alberi da tetti

Alberi da tetti

Alberi da tetti
Fraxinus ornus

Sono di moda i giardini pensili. Non da oggi, ma oggi più che mai. Si chiamano tetti verdi e richiedono piante resilienti, che vivono con poca acqua e sono disponibili a lasciarsi arroventare dal sole. Come tappeti fioriti, pare che funzionino bene le margherite australiane, Chrysocephalum apiculatum  oppure qualche pianta grassoccia, aizoacea come Carpobrutus  (12 maggio 2009), o meglio Disphyma crassifolium.
Ma gli alberi? In generale, ben piantati nella terra, hanno bisogno di meno acqua dei fiori. Il che non vuol dire che non ne abbiano bisogno per niente. Certamente hanno bisogno di terreno, ma sui tetti possono crescere, o almeno cominciare.
Fra i più famosi alberi da tetti, ci sono i lecci che prosperano sulla sommità della  torre Guinigi a Lucca. Il leccio è  albero resiliente per eccellenza, avvezzo alla calura mediterranea, con foglie coriacee e asciutte.

Alberi da tetti

Fraxinus ornus

Anche l’orniello, Fraxinus ornus, ci prova, su questo tetto del castello De Albertis, affascinante edificio che si erge su una collinetta, Montegalletto, prospiciente il porto di Genova. Sotto di lui domina il denso verde degli immancabili pini, e sullo sfondo gli alveari da crociera ricoprono il mare. Per ora è davvero piccolo, poco più di un germoglio, una fraschetta affacciata in una crepa del cornicione, che spinge per salire, anche se sarà davvero difficile che diventi grande.
Verrà, temo, divelto quanto prima, perchè l’estetica del luogo è perfetta e lui un passeggero clandestino. Potrebbe persino, se ci si mette d’impegno, danneggiare l’integrità della costruzione. Non si può prevedere quale sarà la sua sorte perchè, anche lasciato a se stesso, per incuria più che per pietà, forse non sarà mai simile ai suoi simili che crescono nella terra piena. Ma l’orniello è un albero testardo e vagabondo, capace di riempire di fiori e profumi anche gli angoli più spogli e grigi della città e potrebbe riservare delle sorprese.

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Vita da pino

Pino

Pinus pinea
Pino domestico, corso Firenze

In un piccolo belvedere in circonvallazione a monte, sull’ultima curva di corso Firenze, il lungo viale alberato che sovrasta e circonda Genova dall’alto, un robusto pino è cresciuto storto. Che più storto di così non si può.

Il pino domestico, Pinus pinea, chiamato anche pino ad ombrello o pino da pinoli, è forse l’albero più diffuso e conosciuto nel nostro paese (vedi 27 gennaio 2010).  Le alte fronde verdastre, compatte eppure sfuggenti, la sua corteccia che si sfalda in larghe squame, le grandi pigne, costruite come uno scrigno per racchiudere i semi legnosi, piccole noccioline dolcissime, tutto di lui ci è familiare e nella nostra immaginazione pino è sinonimo di albero. Troppo familiare e troppo ovvio, troppo familiare e troppo trascurato.
La sua vasta chioma è uno dei sui misteri. Tutti i suoi più vicini parenti, le conifere, si assottigliano verso l’alto; lui, invece, si allarga, e il perchè di questo rovesciamento non è ovvio. Sembra che questa forma sia dovuta alla  competizione per lo spazio con altri alberi nel suo ambiente originario. Ipotesi lecita, ma insoddisfacente. Neppure è certo qual era il suo ambiente originario; mentre quello che si sa è che il pino cresce prevalentemente su ambienti sabbiosi e non alimenta quasi alcun sottobosco.
La sua bella forma è anche una sua debolezza. Imponente e fragile, è la vittima più frequente dei venti maligni e per questo talvolta guardato con sospetto per il potenziale pericolo che rappresenta.  In realtà è instabile perchè non ha quasi mai abbastanza posto per le radici, letteralmente soffocato da asfalto e cemento. O peggio, obbligato a crescere in posizioni scomode e improbabili. Come questo esemplare, così robusto e così deformato, quasi penzolante dalla ringhiera di una terrazza.

Pino

Pinus pinea

Se l’albero della prima foto rappresenta l’esempio estremo di contorto adattamento, nessuno dei pini di questo scampolo di giardino ha un portamento naturale, tutti un po’ vittime dell’urbanizzazione dei fusti e delle radici. Il suo compagno nella foto a destra, selvaggiamente capitozzato, ha cresciuto un fusto ausiliario, più sottile, che si è anch’esso inevitabilemte piegato, sospinto da chissà quali urgenze, venti, o necessità, sempre alla ricerca di un migliore spazio vitale.

Sulla capitozzatura degli alberi (tree topping) riprendo quanto scrivevo il giorno 8 dicembre 2008, dal sito di Plant Amnesty, un’organizzazione internazionale no profit dedicata alla promozione delle corrette tecniche di giardinaggio e potatura.
– La capitozzatura è il danno più serio che si possa infliggere a un albero. Essa provoca la carie del legno e affama la pianta, rimuovendo la fonte di cibo, cioè le foglie, che sintetizzano il suo nutrimento. Oltre ad essere fortemente nociva, questo sistema non funziona quasi mai per contenere le dimensioni dell’albero. Infatti l’albero, dopo la mutilazione, aumenta disperatamente il ritmo di crescita dei rami nel tentativo di rimpiazzare rapidamente la superficie fogliare perduta. Inoltre non può in nessun caso essere efficace per contenere le dimensioni di una grande pianta: un acero giapponese o un maggiociondolo potranno crescere da tre a nove metri, mentre una quercia e un frassino raggiungeranno comunque 25, 30 metri e non è possibile fermarli capitozzando. Se ci si riesce, allora si è ucciso l’albero. Infatti, solo se l’albero è così danneggiato da essere prossimo alla morte, la drastica potatura arresta per sempre la sua crescita.
Inoltre la capitozzatura è costosa, per la necessità di continue correzioni dei succhioni (nuovi germogli lunghi e magri) e, se causa, come spesso accade, la morte dell’albero, per la sua rimozione.
La capitozzatura è brutta. Branche e rami appena tagliati ricordano moncherini di gambe e braccia amputate. L’albero perde per sempre la sua linea e non riacquisterà più l’armonica forma naturale.
La capitozzatura è pericolosa: la carie causa la perdita dei rami, la fame lo rende suscettibile di marciume radicale, causa comune del crollo, i nuovi rami sono più deboli e non hanno l’integrità strutturale di quelli originali; inoltre la densa ricrescita dei succhioni rende la chioma molto pesante e molto meno permeabile ai venti e ciò aumenta la possibilità di schianti in caso di tempeste. –

Purtroppo passano gli anni e continuiamo ad assistere a questi scempi ad ogni stagione.

Comme un arbre dans la ville…

Comme un arbe dans la ville

Via Mogadiscio – aprile

Comme un arbre dans la ville
Je suis né dans le béton
Coincé entre deux maisons
Sans abri sans domicile
Comme un arbre dans la ville

J’ai grandi loin des fûtaies
Où mes frères des forêts
Ont fondé une famille

Entre béton et bitume
Pour pousser je me débats
Mais mes branches volent bas
Si près des autos qui fument
Entre béton et bitume

J’ai la fumée des usines
Pour prison et mes racines
On les recouvre de grilles

Ginkgo biloba

Ginkgo biloba
via di Francia – febbraio


Ginkgo biloba

Ginkgo biloba
via di Francia – aprile


J’ai des chansons sur mes feuilles
Qui s’envoleront sous l’oeil
De vos fenêtres serviles

Carpinus betulus

Carpinus betulus
via di Francia – aprile



Entre béton et bitume
On m’arrachera des rues
Pour bâtir ou j’ai vécu
Des parkings d’honneur posthume
Entre béton et bitume

Comme un arbre dans la ville
Ami fais après ma mort
Barricades de mon corps
Et du feu de mes brindilles
Comme un arbre dans la ville

Ailanthus altissima

Ailanthus altissima
porto di Genova – maggio

Come un albero in città
Sono nato nel cemento
Costretto fra due case
Senza rifugio senza domicilio
Come un albero in città

Sono cresciuto lontano dalle fustaie
Dove i miei fratelli delle foreste
Hanno messo su famiglia

Celtis australis

Celtis australis
Via Mogadiscio – dicembre


Cercis siliquaster

Cercis siliquaster
via Isonzo – aprile


Fra cemento e catrame
Per crescere devo lottare
Ma i miei rami volano bassi
Così vicino ai fumi delle auto
Fra cemento e catrame

Il fumo delle fabbriche
È la mia prigione e le mie radici
Vengono coperte da griglie


Sulle mie foglie ho canzoni
Che si alzeranno in volo sotto gli occhi
delle vostre servili finestre

Fra cemento e catrame
Mi strapperanno dalle strade
Per costruire dove io vivevo
Parcheggi postumi in mio onore
Fra cemento e catrame

Comme un arbre dans la ville

Paulownia tomentosa
Terminal Traghetti – maggio

Come un albero in città
Amici dopo la mia morte
Fate barricate del mio corpo
E falò con i miei ramoscelli
Come un albero in città

Maxime le Forestier

Becco di gru, la grazia di un trampoliere

Becco di gru Erodium malacoides

Erodium malacoides
Becco di gru malvaceo

Fiori rosa malva e frutti a forma di becco di trampoliere, questo fiorellino si presenta anche agli sconosciuti, Erodium malacoides, da ερωδιóσ, airone e μολόχα, malva. D’altra parte tutti e tre i generi della famiglia delle Geraniaceae derivano il loro nome dalla caratteristica forma dei frutti, Geranium deriva dal greco γερανός che significa gru e Pelargonium deriva dal greco πελαργός che significa cicogna (vedi 25 febbraio 2009).

Sono tutti gerani, parenti stretti dei fiori da balcone che accompagnano tutte, ma proprio tutte, le nostre belle stagioni, dal Nord al Sud, dal mare ai monti. I gerani che crescono nei vasi sono perlargoni, ma sempre di trampolieri si tratta.

Questo, invece, si spenzola da un muraglione, quasi volesse alzarsi in volo, e si troverebbe a suo agio in una qualsiasi aiuoletta, crepa o interstizio, fessura baciata dalla pioggia e bagnata dal sole. Quando incontro un fiorellino rosa, robusto e lucido, in qualche angolino solitario, è molto probabile si tratti di un becco di gru, un Erodium di qualche specie.

Becco di gru comune Erodium cicutarium

Erodium cicutarium
Becco di gru comune

Il più diffuso, come suggerisce il nome, becco di gru comune, è Erodium cicutarium; impossibile non scovarlo prima o poi in qualche terrapieno, aiuola ben concimata oppure abusiva, come avevo gia mostrato qui. Non facciamoci spaventare dal nome, non ha nulla della cicuta se non una certa somiglianza nelle foglie frastagliate (il termine tecnico è ‘pennatosette’). Ubiquitaria in Italia e nella regione mediterranea, è specie vagabonda, pronta a colonizzare terre lontane. Già da centinaia di anni si è diffusa in America(1) dove oggi è considerata invasiva(2).

Forse la sua irruente diffusione è favorita dalla dispersione dei semi, che sono del tipo che esplode dal frutto come Impatiens. I semi hanno una piccola coda arrotolata (resta spiralata) che si attacca al pelo degli animali per farsi trasportare in giro. Lontano, più lontano possibile da dove sono nati, per girare il mondo, conoscerlo e conquistarlo.

(1)Mensing and Byrne. 1998. Pre-mission invasion of Erodium cicutarium in California. Journal of Biogeography 25:757–762.
(2)Latimer et al. 2019 Parallel functional differentiation of an invasive annual plant on two continents. AoB Plants. 11(2):plz010.

Crataegus urbani

Crataegus crus-galli

Crataegus crus-galli
piazza Giovanni Martinez – maggio

Il nome Crataegus deriva da una parola greca, κρατοσ, che significa forza e robustezza, come forte e robusto è il legno di queste piante. Volgarmente detto biancospino, il genere però comprende anche specie che non sono nè bianche nè spinose (vedi qualche tempo fa Biancospino rosa alla Garbatella). La fioritura primaverile è tanto breve quanto straordinaria e difficilmente passa inosservata. Eccolo in tutto il suo splendore di nuvola bianca,  in piazza Giovanni Martinez (quartiere di San Fruttuoso, Genova), in un giorno di maggio di qualche tempo fa, piovoso come quest’anno. Si tratta, credo, di C.crus-galli, biancospino piede di gallo, specie originaria del Nord America, ormai diffuso anche da noi come alberello ornamentale, adatto alle zone periurbane.

Crataegus crus-galli

Crataegus crus-galli
piazza  Martinez – febbraio

Se i fiori durano poco, caparbi sono i frutti che talvolta resistono a tutto l’inverno. Quando li avevo fotografati in un febbraio di molti anni fa, sempre in piazza Giovanni Martinez (foto a sinistra), ero rimasta molto perplessa, incapace di dare un nome a questi alberelli, rassegnata ad ammettere che molto oltre la famiglia, Rosaceae, non riuscivo ad andare (leggi 19 febbraio 2010).

Certamente un biancospino propriamente detto, C. monogyna, è invece la bella pianta scovata in un giardino condominiale piuttosto incolto, quasi in cima alla salita degli Angeli di San Teodoro. Peccato che la fioritura sia già finita e rimangano soltanto piccole bacche verdi.

<em>Crataegus monogyna</em> <br>Salita dgli Angeli

Crataegus monogyna
Salita degli Angeli

 Salita degli Angeli

Crataegus monogyna
Salita degli Angeli

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Noci e cachi in Salita degli Angeli

Salita Angeli

Salita degli Angeli
Pizzeria degli Angeli (chiusa)

Salita degli Angeli è una strada antica. Parte dalla chiesa di San Teodoro, a ridosso del porto, e sale, sale, ripida e stretta, vera creuza di montagna, più che di mare. Proprio all’inizio una targa ricorda che “fino al 17° secolo questa strada costituiva il percorso principale per raggiungere la val Polcevera, dove incrociava la via Postumia, che saliva a valicare l’Appennino.”
Un pezzo di centro storico fuori dal centro che appare oggi ferito dal degrado e dall’incuria, invaso dalle erbacce, troppe, e sfregiato dall’asfalto, irregolari chiazze di bitume nero che soffocano la mattonata.

Salita degli Angeli - Anagallis arvensis

Anagallis arvensis

Ma non importa, salgo. La ‘montata’ si inerpica. A Genova le vie si chiamano tutte ‘salite’, da qualsiasi parte le si guardi. Perchè il punto di partenza è sempre in basso, perchè è dal mare che ci si mette in cammino(1). O meglio ‘montate’, perchè dal mare si arriva subito ai monti. Salgo, e in pochi passi sono già in alto, con il porto sullo sfondo.

Salgo guardandomi intorno, alla ricerca di qualche incontro significativo. Ecco un grande albero che si affaccia dal muro. Il portamento fiero, il verde regale delle foglie e delle drupe non lasciano dubbi, è un noce (Juglans regia), con le sue “ghiande care agli dei”.

Salita degli Angeli <em>Juglans regia</em>

Salita degli Angeli 
Juglans regia

Salite Angeli - Juglans regia

Juglans regia

Narra ancora la targa che “questa strada era la direttiva principale verso la Val Polcevera perchè la via della Lanterna non era che un piccolo sentiero scavato nel vivo sasso che aggirava con un tortuoso percorso il Colle di San Benigno. Più ampia delle altre crose e capace di sopportare il traffico nelle due direzioni di marcia, aveva ai lati costruzioni diverse, delle quali si riconoscono i segni fra gli edifici moderni che successivamente si sono aggiunti. Case rurali, palazzi con portoni e edicole sacre, muri di semplice recinzione con tracce evidenti di porte e portici, testimoni di facciate di case di pregio che riportano al tardo medioevo.”

Diospyros kaki

Diospyros kaki  –

Diospyros kaki

Diospyros kaki  –
(a destra un cespo di canigea)

Salgo. Piccole stradine senza sbocco intersecano il nobile tracciato, via San Fermo, via Melegari. Erbacce, sempre troppe, lo sfrontato centonchio, detto anche mordigallina (Anagallis arvensis, vedi foto sopra e 29 maggio 2009),  la coraggiosa malva (Malva sylvestris) e la spudorata e incontenibile canigea (Parietaria officinalis, 14 maggio 2008). Ma nei giardinetti sbocciano le rose. Un bucato è steso attraversa l’angusta via e, fra muri antichi e ponteggi moderni, un albero di cachi (Diospyros kaki) si fa spazio fra le antenne paraboliche. C’è posto per tutti, anche per i suoi fiori.

Cerco in rete notizie sulle ville di salita degli Angeli e trovo un lungo elenco, anche se la più significativa dovrebbe essere, al n.70, villa Tomati Cicala, residenza quattrocentesca parzialmente conservata.

Salgo. A un certo punto si arriva in cima, si attraversa la Porta degli Angeli verso le mura degli Angeli. Allora si apre il paradiso. Ma questo lo racconterò un’altra volta.

(1)Corinna Praga – A proposito di antica viabilità genovese, Fratelli Frilli Ed. 2008

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Gallinetta delle aiuole

Gallinetta Misopates orontium

Gallinetta comune
Misopates orontium

Non solo i grandi alberi trovano, in modi a volte inaspettati, la strada per la città. Le piccole erbe fiorite riempiono la primavera delle aiuole. Io, sempre alla ricerca, mi lascio sorprendere da questi delicati fiorellini rosa, ritti su lunghi steli dalle lunghe foglie. Crescono sul bordo di un’aiuola in via Bruno Buozzi, non troppo lontano dalla Paulownia di cui dicevo qualche giorno fa, ai piedi degli oleandri(1) che riempiono la strada di colore all’inizio dell’estate.
Qualche anno fa scovai la draba primaverile (Erophila verna) nelle aiuole di un centro commerciale nel bresciano e ho cominciato a fantasticare di un atlante floristico delle aiuole urbanizzate.
Gallinetta Misopates orontium

Oggi questa gallinetta (Misopates orontium) si merita un bel posto in quell’atlante. Sorella minore della bocca di leone, con cui fino a poco tempo fa condivideva il genere (si chiamava Antirrhinum orontium), è un’infestante diffusa in tutto il continente sui bordi stradali e coltivi abbandonati. Tuttavia nella scheda di Actaplantarum, si legge che è specie minacciata dall’uso dei pesticidi in agricoltura. Può darsi che nella sua fuga dai campi appestati, troverà rifugio in queste aiuole incolte e vagamente malsane, fra parietaria e mercorella e qualche trascurato cespuglio ornamentale di alloro e piracanta.

E’ lontana parente della digitale, entrambe inserite da qualche tempo nella famiglia delle Plantaginaceae, e forse qualche principio attivo lo contiene anche lei, sebbene nessun utilizzo farmacologico sia effettivamente documentato. Ma diffusa com’è non poteva sfuggire alla fantasia popolare e se ne tramanda l’uso in decotti contro il malocchio insieme ad altri ingredienti vegetali in diverse regioni italiane(2). Chissà se la gallinetta delle aiuole è altrettanto efficace.

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(1)A proposito degli oleandri di via Buozzi, ho notato che sono stati vigorosamente potati e temo che la loro fioritura quest’anno sarà meno copiosa.
(2)Paolo Maria Guarrera – Usi e tradizioni della flora italiana – Aracne Ed. 2006

Paulonia fiorita in via di Fassolo

Paulonia in via di Fassolo

Fiori e foglie di Paulownia tomentosa

La Paulonia, Paulownia tomentosa, è un albero di origine giapponese dalle grandi foglie a forma di cuore. Fu importato in Europa all’inizio dell’ottocento dal botanico Carl Peter Thunberg e battezzato in onore di Anna Paulownia, figlia dello zar di Russia Paolo I. Ha avuto molto successo come albero ornamentale per il fogliame generoso e la fioritura abbondante e appariscente. Bella, ma effimera, volubile come il sole di questa primavera. A causa della breve durata, è abbastanza difficile vedere una paulonia fiorita. In pochi giorni spuntano sui rami i frutti, caspule ovate prima verdi e poi nere, in grappoli pesanti, ma non molto attraenti. Così l’avevo fotografata in altre occasioni in città, vicino al parcheggio della stazione Brignole (21 agosto 2009) e  in un giardino della circonvallazione a monte, ormai sfiorita dall’inverno

Paulonia

Paulownia tomentosa in via di Fassolo

Qualche tempo fa c’erano molto paulonie nella zona fra la stazione marittima e il terminal traghetti. Nuvole del colore della lavanda comparivano in primavera, fra le Mura degli Zingari e la piazza Di Negro, repentine e inconfondibili. Negli ultimi anni quasi tutti gli alberi sono scomparsi, forse costretti a soccombere dalle ristrutturazioni dell’area portuale. Una paulonia tuttavia è rimasta, nella defilata via di Fassolo, uno stretto vicolo che corre sotto la ferrovia, parallelo alla via Bruno Buozzi. L’avevo osservata in marzo, mentre passeggiavo per la zona in cerca di qualche germoglio (e avevo infatti scoperto un boschetto di carpini in accrescimento), riproponendomi di coglierne la vistosa fioritura. PauloniaPerò sono arrivata un po’ tardi, troppo confidando sulla stagione lenta, che, nonostante pioggia e temperature rigide, tanto lenta non è. Ed eccola, stretta fra bastioni e muraglie, un po’ spellacchiata, ma audace, ancora sfoggia qualche trombetta violazzurra sulla sommità dei rami, già appesantiti dai frutti. Fa quello che può in questo angolino negletto dove veramente in pochi alzeranno il capo a guardarla e godranno dei suoi colori e della sua ombra. Eppure i fiori lambiscono le finestre del palazzo di fronte e le sue fronde verdi si specchiano su un vetro sul muro dirimpetto. Quanto durerà ancora quest’albero estraneo, ora che tutti i suoi compagni sono scomparsi? Certo in questo angolino buio non dà molto fastidio e posso augurarmi di ritrovarlo fiorito il prossimo anno, cercando di essere più tempestiva. Ricordo un altro esemplare di paulonia lungo una via popolare, via Camozzini, a Voltri. Piuttosto fuori mano per me, ma la fioritura di una paulonia urbana val bene un viaggetto.