Melia sulla sopraelevata

Melia azedarach

Melia azedarach

Questa pianta, Melia azedarach, anche detta anche albero dei rosari, cresce insieme ad altre simili sotto il muraglione che da corso Aurelio Saffi sovrasta la strada sopraelevata Aldo Moro. Si può alzare gli occhi e vederle, mentre si percorre la sopraelevata all’altezza della collina di Carignano. Oppure affacciarsi sul parapetto del corso, guardare in basso e scorgerle, bianche di fiori all’inizio della primavera e gravide di bacche bianco giallastre fra maggio e giugno.

Melia azedarach

Melia azedarach

Dal nome scientifico abbastanza astruso (per l’origine e il significato vedi qui), si capisce che si tratta di una pianta esotica, originaria dell’Asia e importata in Italia dal vagabondare, imposto o casuale, di semi ed essenze per il globo. Coltivata e perfino spontaneizzata in varie regioni d’Italia centro meridionale, anche se non in Liguria, predilige climi caldi e soleggiati. Nelle città si adatta, come altre essenze straniere, ammirata o misconosciuta, vezzeggiata o disprezzata, a seconda dell’umore e della presunzione di chi la guarda.

Piantaggine e altre erbe da crepe

Ci sono le piante da vaso, da balcone, da aiuola, da giardino, da bosco, le piante che crescono nella brughiera, sul serpentino, sulla sabbia, nel letame (le più felici…). E poi ci sono le piante da crepe della strada, quelle che crescono al limitare fra il cemento e l’asfalto, dentro una buca del selciato o soltanto una ruga della carreggiata. Sui muri sbrecciati dal tempo e dall’incuria, basta una manciata di terra, o molto meno per far crescere una pianta. Una nocciola caduta nel canale di scolo è germogliata e ha messo cinque foglie. Un microscopico rosmarino è nato per sbaglio su uno scalino. La parietaria, un tempo canigea, ricercata come medicina al veleno dell’ortica, oggi temuta allergenica, cresce assolutamente dappertutto.
Piantaggine, valeriana rossa, sanguisorba non sono piante reiette, nè disprezzabili. Le piante si adattano e si camuffano, a volte irriconoscobili.

Ecco oggi alcune piante da crepe:

Plantago lanceolata

Plantago lanceolata

Plantago lanceolata
Piantaggine femmina, Piantaggine lanciuola, Arnoglossa, Cinquenervi, Mestolaccio, Piantaggine minore, Lingua di cane, Lanciola, Petacciola, Pio quinto, Erba di S.Antonio, Erba pitocchina, Scontamano, Piantana

Sanguisorba minor

Sanguisorba minor

Sanguisorba minor
Pimpinella, Salvastrella minore, Bibinella

Centranthus ruber

Centranthus ruber

Centranthus ruber
Camarezza comune, Valeriana rossa, Centranto rosso
 

La palma nel leccio

Quercus ilex & Chamaerops humilis

Quercus ilex & Chamaerops humilis

E’ spuntata una palma nell’incavo di un largo tronco di leccio. E’ cresciuta, le foglie estranee sembrano germogliare dallo stesso tronco. E’ successo nel bosco di lecci poco distante dal parco del’Acquasola (un parco che doveva scomparire, ma che i cittadini hanno difeso dall’aggressione del cemento) proprio nel centro di Genova.
Palma e leccio godono di ottima salute.

Si tratta di un fatto assai comune, un adattamento simbiotico abbastanza innocuo.
Ci sono piante che naturalmente si servono di altre piante per crescere, talvolta solo per sostenersi, come le  rampicanti che si abbarbicano ai loro tronchi, fino a coprirli

Quercus ilex & Chamaerops humilis

Quercus ilex & Chamaerops humilis

completamente, a cammuffarli da altro.  Altre piante sono ancora più sfrontate,  utilizzano  altri vegetali per la loro sopravvivivenza, da emiparassite (si servono parzialmente di altre specie per rifornirsi di acqua e sali)  o parassite totali, che sfruttano tutto, radici e energia fotosintetica, delle altre per la sopravvivenza.

Ma no, la piccola palma nana non ha fatto niente di ciò. Ha semplicemente trovato un buchetto confortevole dove adagiare le sue radici nell’incavo di un tronco.
Anche se non mi stupirei che qualche cittadino incallito scambiasse le snelle frange della palma per le foglie del leccio.

Gli oleandri di via Bruno Buozzi

Nerium oleander

Nerium oleander – Apocynaceae

Sono fioriti, abbondanti e variopinti, gli oleandri di via Bruno Buozzi, una strada raggiante e polverosa che corre lungo il mare del porto, dalla stazione marittima alla Lanterna. E’ una strada ampia perchè limitata da palazzi solo da un lato, e sono case antiche, popolari e ordinate. Dall’altra parte il mare si perde, oltre i piloni della strada sopraelevata, cantieri mai dismessi e larghe banchine. La strada è congestionata dal traffico, ma, in questa stagione, gli oleandri fioriti la adornano come fosse un viale elegante.

Nerium oleander

Nerium oleander – Apocynaceae

L’oleandro è alberello bistrattato e incompreso. Serena Dandini nel suo celebratissimo ‘Dai diamanti non nasce niente’ (Rizzoli, 2011) lo definisce pianta banale, quasi scema. Mi chiedo se abbia mai guardato un oleandro da vicino. Isabella Casali di Monticelli nel suo raffinato ‘Nel giardino si incontrano gli dei’ (Sperling&Kupfer, 2004) confessa di averlo sempre considerato una pianta da autostrada o da parco cittadino trascurato; finchè lo ha incontrato in Marocco ed ha cominciato a capirlo.

L’oleandro cresce incurante di miasmi e fumi, di offese e disprezzo, nel clima caldo e asciutto del mediterraneo.  La sua fioritura così ricca e appariscente è quasi scontata, così ovvia da correre quasi inosservata. Oppure è guardata con sospetto per la sua fama sinistra di avvelenatrice. E velenosa è sicuramente tutta la pianta, perchè contiene tra l’altro l’oleandrina, un glicoside cardiotonico che provoca nausea e grave aritmia cardiaca. Chissà se sono proprio vere le storie di bambini fatalmente avvelenati perchè avevano masticato le foglie dell’oleandro, di campeggiatori uccisi per aver consumato spiedini di carne alla griglia infilzati in bastoni di oleandro, fino all’immancabile moglie che tenta di liberarsi dell’odiato marito preparandogli un manicaretto con un trito di foglie di oleandro (tutte storie deliziosamente narrate da Amy Stewart nel suo ‘Wicked plants’, Algonqin Books of Chapel Hill, New York, 2009).

Nerium oleander

Nerium oleander – Apocynaceae

Molte persone sfuggono l’oleandro come una maledizione. Un amico barista è stato apostrofato duramente da una signora con l’accusa di avvelenare i bambini, per aver posizionato due meravigliosi vasi con oleandri fioriti ai lati della porta del bar, frequentato da ragazzi di una vicina scuola. Un benzinaio mi ha raccontato di clienti che si erano lamentati di un fastidio alla testa causato dal profumo della siepe fiorita di oleandro. E’ vero, l’oleandro è una pianta velenosa. Ma all’ingresso di un bar dovremmo preferirgli i distributori di sigarette e il suo profumo è davvero più fastidioso di quello della benzina?

Meraviglioso oleandro, con quella fioritura aggressiva e robusta, che non ha paura di nulla. Tollera i nostri veleni, anzi li ignora. Molto più potente ed antico è il suo personale. I suoi colori sono voluttuosi, sfacciati, il bianco luminoso, il rosa acceso, il rosso più schietto. Le sue foglie sono spesse, coriacee, i suoi frutti solidi, ingombranti. E la sua fioritura, lunga e lussureggiante, è qualcosa di cui davvero le nostre città non possono fare a meno. Come mi diceva un’amica belga, lei che veniva dal Nord “Mi sentivo scoraggiata, ma poi attraversavo il giardino, gli oleandri fioriti mi davano coraggio, sono così belli gli oleandri, da noi non ci sono.”

Capperi di città

Capparis spinosa

Capparis spinosa

Credo che sia noto a tutti, i capperi crescono, e prosperano, sui muri. Ma anche sulle rocce, e sugli scogli in riva al mare. Si infrattano praticamente dovunque e poi ricadono, formando rigogliose cascate verdi. Non pare davvero che abbiano bisogno di molta terra, sembra viceversa che amino l’aridità e l’aria salmastra. Tuttavia la propagazione dei capperi ha aspetti alquanto bizzarri. Pare che i semi aspettino anni per germinare dal momento in cui si staccano dalla pianta, mettendo a dura prova la pazienza dei coltivatori. Si dice che sia necessario introdurli proprio in fondo alle spaccature dei muri, e spingerli più dentro possibile. E’ consigliato l’uso di una cerbottana.  Molti raccontano di aver messo a dimora semi e di essersene dimenticati, avendo infine perduto le speranza di vedere un germoglio. Finchè, dopo anni di immobilità, nel bel mezzo di altre piante più giovani, e come obbedendo a una segnale antico e mai sopito, il cappero era esploso, incontenibile.

Capparis spinosa

Capparis spinosa
Strada Aldo Moro (sopraelevata)

Se però si lascia fare tutto a loro, coi i soliti metodi naturali, quali vento insetti vari, uccelletti e formichine o quant’altro, i capperi ce li ritroviamo più o meno dappertutto, in mezzo ai calcinacci che prediligono, sui muri a fianco di strade e autostrade, se abbastanza vicini al mare e ben esposti a sud, pronti a far sbocciare in ogni estate i loro straordinari fiori bianchi.
La pianta della foto in alto cresce sul muro della torre di Vernazza, parte del sito UNESCO delle Cinque Terre. Ma altrettanto a loro agio e rigogliose, anche se un po’ più impolverate, sono le piante di cappero che crescono sui muraglioni della strada sopraelevata che attraversa Genova da levante a ponente costeggiando il mare. E i sorprendenti frutti pendono a grappoli  sui muri esterni del giardino dell’Acquasola, un parco cittadino recentemente scampato a un progetto di parcheggio.

Capparis spinosa (frutti)

Capparis spinosa (frutti)
Mura dell’Acquasola

I capperi crescono allegramente anche nel mio giardino, versante occidentale delle colline liguri, lontano dal mare.Che poi i germogli, o i frutti siano commestibili e gradevoli è un altro discorso. Per la buona tavola magari sarà meglio affidarsi ai capperi di Pantelleria.

Erba dei cantori

Sisymbrium officinale

Erba dei cantori
(Sisymbrium officinale)

Erbaccia da strada, come tutte le sue simili passa inosservata e negletta per la maggior parte dell’anno; ma nella bella stagione si impreziosisce, umile e sfacciata, di gialli fiorellini a crocetta, stretti in un’infiorescenza alla sommità di aerei steli sottili, che ne rivelano inequivocabilmente l’appartenenza alla famiglia della crucifere, ovvero brassicaceae, ovvero cavoli. Il suo nome scientifico, quello vero, è Sisymbrium officinale e gode anche di ottima fama, essendo erba riconosciuta benefica da molti secoli, buona per la voce e per questo indicata per risolvere qualche inconveniente alla gola dei giovani cantori. Il suo nome comune più frequente ne svela l’origine umile, erba cornacchia, un uccello dalla voce non proprio dolce. Oppure erisimo, generando una di quelle confusioni tanto frequenti in botanica, essendo Erysimum un altro genere delle brassicaceae diverso da Sisymbrium. Quest’erba cornacchia in città si trova proprio bene e si infila dappertutto, dalle aiuole ai bordi dei marciapiedi, a suo agio nei posteggi e davanti ai portoni, ma anche negli anfratti più rovinati delle costruzioni umane. Stento a credere che da questi esemplari, saturi di polvere e piombi, si possano ottenere medicamenti per il cavo faringeo; ma mi inchino al coraggio delle praterie di erba cornacchia e dell’esplosione delle loro timide pupille gialle, a frotte, come fuochi d’artificio.

Sisymbrium officinale

Erba dei cantori
(Sisymbrium officinale)

Sisymbrium officinale

Erba dei cantori
(Sisymbrium officinale)

Dell’erba cornacchia, più nobilmente detta erba dei cantanti, avevo già parlato qui

L’acero del rabbino

Acer pseudoplatanus

Acer pseudoplatanus

L’acero di monte della foto si trova proprio davanti al tempio israelitico o sinagoga di Genova, in via Bertora, una traversa di via Assarotti. L’acero è un albero imponente e aggraziato. Se ha foglie palmate e fiori penduli è quasi certamente Acer pseudoplatanus, detto acero di monte, acero fico o sicomoro (per la descrizione vedi anche 1 maggio 2009). Questa è senza dubbio la stagione in cui da il meglio di sè, con le nuove foglie tenere e brillanti e i grappoli di fiori luminosi; in autunno, le larghe foglie palmate assumeranno colori piacevoli, anche se non così emozionanti come quelli degli aceri americani. La città è ricca di grandi alberi di bosco, alcuni felici, altri un po’ meno, tutti rinvigoriti dalla bella stagione; e in mezzo al verde cupo di pini e lecci, è piacevole scoprire questo fresco colore di primavera. La sinagoga di Genova è un edificio maestoso e severo, abbastanza blindato per comprensibili motivi; ma la pittura sulla facciata e le iscrizioni in alfabeto ebraico la arricchiscono di un vago fascino esotico, addomesticato dall’albero, così domestico, europeo, nostrano.
Salendo oltre la sinagoga, attraverso un breve intrico di scale, si raggiunge velocemente corso Solferino, circonvallazione a monte.

L’ippocastano di piazza Manin

Ippocastani (Aesculus hippocastanum)

Ippocastani in piazza Manin
(Aesculus hippocastanum)

Genova, piazza Manin angolo con via Assarotti. Un imponente albero di ippocastano allunga i suoi rami verso un elegante palazzo d’epoca (clicca per ingrandire). In tutte le stagioni, lo orna e impreziosisce con i suoi colori. In tutte le stagioni io pensavo: ecco un albero da fotografare. Il verde intenso delle larghe foglie a ventaglio contro l’azzurro del cielo primaverile. I perfetti coni di fiori che sembrano merletti. Le foglie stanche, accartocciate, cariche dei colori dell’autunno. E infine i rami, alti e spogli, eretti contro il grigio dell’inverno. Sullo sfondo, il palazzo, splendida inquadratura.

Aesculus hippocastanum

Troppo tardi. L’albero non c’è più e ne è rimasto soltanto un corto moncone. Forse era malato (ma sani sembrano i suoi primi vicini). Forse appariva un pericolo così alto e maestoso sul bordo dell’incrocio. Forse, semplicemente, i suoi rami esuberanti e frondosi si erano avvicinati troppo all’intimità di qualche ricca signora. Non so, ma ci sono rimasta male.
A quel che resta dell’albero, dedico questi bellissimi versi di Primo Levi (già pubblicati in questa pagina)

Il mio vicino di casa è robusto.
E’ un ippocastano di Corso Re Umberto
Ha la mia età, ma non la dimostra
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
in aprile, di spingere gemme e foglie.
Fiori fragili a maggio,
a settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
E’ un impostore, ma ingenuo: vuol farsi credere
emulo del suo bravo fratello di montagna
signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
i tram numero otto e diciannove,
ogni cinque minuti, ne rimane intronato.
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno succhia lenti veleni
dal sottosuolo saturo di metano
E’ abbeverato d’orina di cani.
Le rughe del suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali.
Sotto la scorza pendono crisalidi
morte che non diverranno mai farfalle.
Eppure nel suo torbido cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.

Qui sotto altre immagini di fratelli ippocastani di città
Aesculus hippocastanumAesculus hippocastanumAesculus hippocastanum

per le descrizioni, altri link sui miei blog
19 aprile 2009
10 dicembre 2008
19 maggio 2010

Dove osano i fichi

Ficus carica Dove osano i fichi

Ficus carica – Bisagno

Il fico è un albero rampante, zingaresco, indomabile. La città, senza accorgersene, ne è piena. Li ho incontrati sul bordo del torrente, addossati alle muraglie più antiche, abbarbicati sopra la sopraelevata. Su e su, per crose e scale, i fichi non hanno paura di niente e crescono dappertutto. Spavaldo e spoglio,  in un piccolo giardino, ancora offriva due piccoli frutti rinsecchiti nel gelo di febbraio (3 febbraio 2009).

Ficus carica - BisagnoDove osano i fichi

Ficus carica – Bisagno

Il fico è un albero rozzo e popolare. Le sue radici si allungano attraverso pietre e travi, penetrano nel cemento, distruggono, come poche altre sanno fare, muri e palizzate. Così il tenero, e soltanto apparentemente gracile, germoglio di fico che immancabilmente fa capolino fra le rughe del selciato non è una sorpresa piacevole e viene prontamente estirpato. Ma rinasce, vorace e altero, con le piccole foglie, già palmate e ruvide, già aggressive. Le foglie dei fichi, larghe e spesse, hanno un odore pungente e acre, quasi marcescente. Forse sono state davvero loro a coprire “le vergogne” di Adamo ed Eva?

Ficus carica - via Quadrio

Ficus carica – via Quadrio

Il legno dei fichi, tenero e poco innervato,  è considerato infido.Tanto che l’avvertimento di non arrampicarsi mai su un albero di fico mi ha accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza, quando salire sugli alberi era uno dei giochi preferiti. I rami del fico, mi dicevano i grandi, sono traditori, capaci di spezzarsi di colpo, senza preavviso, senza inclinarsi nè piegarsi. Ma ironia della sorte, era proprio un fico l’albero sui cui rami possenti più sovente trascorrevo i pomeriggi a chiacchierare con un’amica, protette da una chioma fittissima che formava una capanna naturale e ci nascondeva agli sguardi indiscreti. Era veramente un albero maestoso e, malgrado la fama, non ci ha mai tradite.

Ficus carica - Strada Aldo Moro

Ficus carica – Strada Aldo Moro

Questo albero rozzo e volgare, è anche singolarmente prezioso, perchè, a differenza di altra frutta che ha conquistato il mercato di vaste zone del mondo, il fico si presta poco a conservazione e trasporto come frutto fresco ed si può consumare soltanto in regioni dal clima caldo e secco, come quello mediterraneo, assetato e dolce come la sua polpa zuccherina. Altrove, si possono gustare soltanto i fichi secchi, che però sono tutt’altra cosa.
Albero magico e ambiguo, per lungo tempo, l’impollinazione del fico era avvolta da un’aura di mistero. Infatti l’albero che produce le dolci infruttescenze (siconi) non possiede fiori maschili, e quindi polline, e dipende da un’altra pianta, il caprifico, per la fecondazione, compiuta per intervento di un insetto, un moscerino in cerca di un luogo idoneo per deporre le uova. Ormai il problema è superato, perchè sono state selezionate le varietà che non necessitano della fecondazione per produrre frutti e la storia del piccolo insetto e del ‘doppio’ fico è entrata nell’aurea della leggenda.

ficus carica

Ficus carica – via Burlando

Ficus carica - piazza Sturla

Ficus carica – piazza Sturla

 

In città i fichi si ostinano a crescere negli angoli più negletti, abbandonando i pesanti, dolcissimi frutti al marciume dei marciapiedi. Che spreco!

 

 

 

…cliccare sulle immagini per vederle ingrandite in un’altra pagina…

Il ninfeo di palazzo Lomellino

Piante del n infeo

Begonia e capelvenenre

Palazzo Nicolosio Lomellino è uno dei palazzi più rappresentativi fra i cosidetti palazzi dei Rolli, sito che fa parte del patrimonio Mondiale UNESCO. Edificato intorno al 1570, il palazzo Nicolosio Lomellino si trova proprio accanto al municipio (Palazzo Tursi). Essendo proprietà privata, non si può visitare sempre, ma sempre si può occhieggiare dalla via Garibaldi, attraverso l’atrio e i suoi mirabile stucchi, verso il cortile interno, fino all’imponente ninfeo settecentesco, il ninfeo di Fetonte. Dove c’è acqua, le piante prosperano, e questo luogo non fa eccezione, nonostante gli sforzi dei manutentori di liberarlo dalle intruse. Pare, mi hanno raccontato, che dopo essere state estirpate con violenza, mettendo anche a repentaglio la pietrosa superficie del ninfeo, queste siano tutte tornate, come prima e più di prima. Per lo più si tratta di capelvenere, la morbida felce dei muri umidi, e poi qualche altra intrusa, di quelle che stanno dappertutto come la Conyza o Erigeron che dir si voglia . Infine ci sono queste belle foglie, grassocce, cuoriformi, con picciolo e venature rossicce. Subito ho pensato a una begonia, e continuo a pensarci. La somiglianza più stretta è con Begonia evansiana, che produce graziosi fiorellini rosa a fine estate. Io credo che queste foglie siano un abbellimento per il prezioso ninfeo e spero non vengano estirpate troppo presto, che rimangano ancora un pochino e sia loro permesso di fiorire. Magari a fine estate potrò avere una conferma della mia determinazione.