Lauroceraso

Prunus laurocerasus

Prunus laurocerasus

Una siepe dalle grandi foglie coriacee, che regala ombra e intimità e, a primavera, dispensa una profusione di fiori bianchi disposti in pannocchie. Foglie simii a quelle dell’alloro (da cui lauro) e frutti tondi e neri (da cui ceraso), il lauroceraso non è particolarmente attraente, nè fastidioso. Piuttosto tollerante, e generoso.
Qui in piena fioritura presso l’antica casa di riposo ed educazione di Genova Doria, oggi sede di ambulatori e residenza sanitaria assistita. L’edificio, ampio e vetusto, con larghissimi corridoi e alti soffitti, fu costruito, nel 1911 nella proprietà, ceduta al pubblico utilizzo, di Antonio Doria, da cui appunto il nome della circoscrizione.

Moresco - di Giulio Monteverde

Moresco – di Giulio Monteverde

Pastorino

Luigi Pastorino

L’investimento aveva richiamato proventi da molti magnati della città, che per questo sono ricordati nelle sculture marmoree di celebrati artisti dell’epoca, come Giulio Monteverde e Luigi Orengo, gli stessi che hanno lasciato tante opere nel cimitero monumentale di Staglieno

Castagnola_Orengo

GioBatta Castagnola di Luigi Orengo

Giglio di San Giuseppe

 

Hemerocallis fulva detto Giglio di San Giuseppe

Giglio di San Giuseppe
Hemerocallis fulva

Ogni giglio ha il suo santo. Per il giglio di San Giovanni (Lilium bulbiferum) la ragione di tale attribuzione è ovvia, dato che i fiori sbocciano verso la fine di giugno, proprio in corrispondenza del giorno dedicato al celebre santo. Invece questo  falso giglio, che giglio non è, ma un lilioasfodelo o Hemerocallis (famiglia Asphodelaceae), fulvo perchè di acceso colore rosso arancio, la dedica a san Giuseppe è quantomeno bizzarra. Hemerocallis fulva sboccia alla fine della primavera, quando la ricorrenza del santo, 19 marzo, è trascorsa da tempo.  La confusione aumenta quando si scopre che le Hemerocallis si chiamano anche gigli di san Gaetano (Thiene da Vicenza), che si festeggia il 7 agosto, non lontano dalla loro stagione di fioritura. Ma San Giuseppe? Questo santo spesso viene rappresentato con il bambinello in braccio e un giglio in mano (a lui o al bambino), ma ahimè il giglio è sempre bianco, quel Lilium candidum, giglio propriamente detto, che si chiama anche giglio di San Pietro e fiorisce anche lui alla fine di giugno. Pare quasi che ogni santo esiga il suo giglio, e fra santi e gigli non ci si raccapezza facilmente.

Hemerocallis fulva detto Giglio di San Giuseppe

Hemerocallis fulva

Meno male che questo bellissimo fiore, che spopola nei giardini perché è anche facile da coltivare, ha il suo nome scientifico, preciso, e volgarmente si può chiamare anche giglio turco, il che concorda con la sua origine asiatica. Emerocallide significa bellezza del giorno, o di un giorno, un nome che sembra suggerire il fatto che i fiori durano poco e velocemente appassiscono.  Neofita naturalizzata, in questo angolo di strada, che corre sulle sponde del torrente Bisagno, davanti a una cabina elettrica, questi gigli sono stati probabilmente piantati per ingentilire la lapide di ricordo di uno dei tanti sacrifici partigiani.

Ailanto fiorito

Ailanthus altissima

Ailanthus altissima

Ancora ailanto! Il più prepotente invasore degli spazi verdi di città e periferie, ora ribattezzato addirittura killer dei boschi. Di lui è stato detto di tutto, e di più, e anch’io ho dato il mio contributo. Ma i fiori, quelli non li fa vedere nessuno. Forse perché mostrare i fiori, come mostrare i cuccioli, intenerisce gli animi e rischia di creare simpatia nei confronti di una pianta, o di una razza, che si vorrebbe bandita per sempre. Eccoli i fiori bianchi dell’ailanto, sbocciati su un bell’albero sul ciglio della strada, in via Mogadiscio, appena sopra la chiesa di Montesignano di cui parlavo l’altro giorno, in direzione di sant’Eusebio. Un bell’albero che ha già sparso germogli in giro, senza ritegno, fra asfalto e marciapiede. Che coraggio impudente!

Ailanthus altissima

Ailanthus altissima

Il leccio di Montesignano

Leccio Quercus ilex

Quercus ilex
Leccio  di Montesignano

Il leccio (Quercus ilex), albero ampio e robusto, semplice, ma di nobile animo, è raramente fotogenico. Di questo non mi capacito bene e ne ho discusso anche nelle foto pubblicate in passato, il 10 novembre 2008, con foglie e ghiande, e il 28 aprile 2010, con gli straordinari fiori. Il leccio è uno dei miei alberi custodi, così vicino alla natura della mia vita, in questa assolata, umida e ariosa striscia di terra di fronte al mare. Per questo quando mi sono trovata davanti questo bell’esemplare sul sagrato della chiesa di Montesignano, poche decine di metri sopra il greto del Bisagno, non mi sono lasciata sfuggire la voglia di fotografarlo. Mi piaceva la luce, mi piaceva l’ambiente, mi piaceva soprattutto lui e il suo portamento massiccio, anche se vagamente scapigliato (raramente il leccio si fa spettinare dal vento).
La chiesa di Montesignano mi porta ricordi di gioventù, quando studentessa del primo anno di superiore (allora si chiamava quarta ginnasio) facevo un semplice doposcuola a ragazzini delle elementari in quella parrocchia di un quartiere che si definirebbe ‘difficile’. Era un po’ fuori mano quella chiesa, ma piacevole la trasferta, un piccolo viaggio di libertà. Non mi ricordo molto in verità, soltanto il profilo slanciato della chiesa, oggi simile ad allora, anche grazie a una recente ristrutturazione, quel piazzale ordinato, appena sopraelevato sulla strada, il campanile eretto e nitido fra casermoni di case popolari.
Poco prima della chiesa, c’è una breve aiuola con qualche cespuglio di pittosporo, dietro a uno spesso recinto di legno. Tre cartelli invitano a non gettare immondizie, specificando che si tratta di un’aiuola, non di un immondezzaio. Non si riesce neppure a vedere se l’invito sia stato rispettato.
Non so se la mia foto rende giustizia alla bellezza del leccio, continuo a pensare che sia poco fotogenico. Ma sono contenta che ci sia, alto e folto, compatto e pulito.

Gladiolo spartitraffico

Gladiolus italicus

Gladiolus italicus

La strada a scorrimento veloce che corre parallela al Bisagno è intitolata ai primi cittadini ‘storici’ della città di Genova, prima Gelasio Adamoli, e poi, in questo ultimo tratto, Augusto Pedullà. Il ponte vicino ricorda invece Nicholas Green, un bambino americano che correva verso le vacanze ed è stato ucciso per sbaglio,  in Calabria, da un piccolo criminale in odore di ‘ndrangheta, ma sopravvive ancora nelle numerose persone che hanno ricevuto tutti, ma proprio tutti i pezzi di lui che ancora potevano funzionare. E non molto lontano da quel ponte, così defilato e scarno, sull’aiuola spartitaffico di via Augusto Pedullà sono nati dei gladioli. Non i gladioli da fioraio che i contadini liguri coltivavano ai bordi dell’orto o nel giardinetto sottocasa per farne grandi mazzi da offrire alle feste estive della Madonna.

Gladiolus italicus

Gladiolus italicus

Questi sono gladioli selvatici, e davvero non mi pare concepibile che qualcuno ce li abbia piantati apposta, sono arrivati proprio da soli, nel bel mezzo di questa aiuola quasi inaccessibile, accanto a silene bianca e sanguisorba, e tanta tanta valeriana rossa. Che commozione incontrare un fiore così delicato e selvaggio in mezzo ai rumori e ai fumi della città. Un’altro gladiolo era nato sulle sponde ripide della collina alle spalle di piazza Rotonda a Borgoratti, sponde squarciate da un progetto di garage interrati che da mesi avanza lentamente, fra smottamenti e voragini impreviste. Quel gladiolo non sono riuscita a fotografarlo, troppo breve la sua stagione e troppo affannato il mio tempo.Invece avevo fotografato su quel dirupo le distese bianche degli agli (Allium neapolitanum), più rampanti e tenaci. Per non farmeli scappare, a questi gladioli ho dedicato una deviazione nell’assolata domenica e un intero servizio fotografico. Meno male perchè oggi, ormai giovedì, sono già scomparsi.

Sanguisorba minor

Poterium sanguisorba

Allium neapolitanum

Allium neapolitanum

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(cliccate sulle fotografie per vederle più grandi, in un’altra scheda)

Il tempo delle mele

Malus domestica

Malus domestica

San Cosimo di Struppa

San Cosimo di Struppa

In un novembre passato, un po’ meno fradicio di quello di oggi, un altro generosissimo melo non risparmia  i suoi frutti. Molti cadranno, abbandonati per terra, perduti per il nostro palato e la nostra fame, ma non sprecati per la pianta, non per i vermetti che in tanti che se ne saranno nutriti, alla terra che accoglierà i loro semi. Bello piccolo melo di periferia, lungo una crosa di collina, a San Cosimo di Struppa.

L’evonimo e le ville di Fontanegli

Euonymus europeus

Euonymus europeus

Fontanegli è una piccola frazione del comune di Genova abbarbicata sulla collina. Un gruppo di case vecchiotte, fra cui la mia, circondano la chiesa di San Pietro e l’oratorio di San Giacinto. Ci sono anche tre antiche ville nobiliari che risalgono al XVI e XVII secolo ed erano le residenze estive di famiglie nobili che durante l’anno risiedevano nei palazzi di città.
La villa più alta e anche quella più in alto di tutte, villa Raggi, si trova a due passi dalla chiesa parrocchiale ed è stata ristrutturata nel 1994, con modifiche profonde dell’interno per ricavarne più appartamenti. Quella più in basso, più a valle delle tre, è la più nascosta, ed è la storica villa Thellung, dove si narra Goffredo Mameli compose il suo inno.
A metà costa, poco sotto la chiesa  scendendo per salita superiore alla Chiesa di Fontanegli e per la carrozzabile via Giovanni da Verrazzano, ecco villa Ferretto, la più vasta di tutte. Attualmente è una casa di riposo per anziani, ma nel 1500 era una residenza privata. Di proprietà delle suore domenicane, fu convento, asilo, collegio e scuola. La villa possiede una cappella dove veniva celebrata privatamente la messa, ed è proprio questa cappella che appare in questa foto, dietro ai tranci secchi dell’evonimo, ornati di bacche rosa scuro. Ho visto questa cappella aperta solo in occasione delle cerimonie funebri per qualche ospite della casa di riposo, una porta aperta invece del portone mezzo chiuso che usava nei palazzi ai tempi della mia infanzia per testimoniare il lutto del condominio.

Euonymus europeus

Euonymus europeus


Pianta singolare, selvatica e raffinata, l’evonimo, con le sue bacche, velenose, a quattro scomparti come il berretto dei preti (da cui il suo secondo nome), con il suo legno duro e particolare con cui si fabbricavano i fusi per filare la lana (da cui il suo terzo nome, fusaggine).

Le notizie sulle ville le ho lette su un cartello illustrativo che si trova a Bavari all’inizio della discesa di via San Colombano, scritto a cura dagli alunni della scuola elementare di Fontanegli anni scolastici 2000, 2001 e 2002. Ho fatto bene a fotografarlo e ricopiarlo per bene perchè la pioggia lo ha ormai completamente cancellato, e non so neppure se esiste ancora la scuola elementare.

Altri post sull’evonimo:
fiori dell’evonimo
12 agosto 2008
31 dicembre 2009

Vi presento il Bisagno

Torrente Bisagno

Bisagno nel rione  San Gottardo e
e fioritura autunnale di topinambur (Helianthus tuberosus)

Il Bisagno torna a far parlare di sè. Quando sento menzionare il suo nome nei notiziari di radio e televisione come ‘il fiume di Genova’, mi viene in mente il sorriso divertito e beffardo della mia amica Irena, polacca di Stettino, che abita sulle sponde del vasto estuario del fiume Oder.
“… and this is the river.”
“River?!?”

Naturalmente il Bisagno non è un fiume, è un corso d’acqua a regime torrentizio, che d’estate talvolta di acqua ne ha proprio niente. Nasce da modeste colline dell’Appennino che stringono la città a nord. Della sua storia, e dell’alta valle, ho parlato in una pagina diversi anni fa.

Torrente Bisagno

Torrente Bisagno in via Piacenza presso il ponte Guglielmetti

Il torrente, che talvolta diventa cattivo, è sempre abbastanza brutto. E’ giallastro e disadorno, ingombro di vegetazione selvaggia, invadente, rami spezzati e spazzatura. Proprio perchè è così brutto, nell’ultimo tratto, poco più di un chilometro, il torrente è stato coperto, tombinato si direbbe oggi, con una di quelle opere pubbliche del ventennio fascista, che hanno cambiato, per sempre, l’aspetto di tanti luoghi del nostro paese. Opere contestabili, ma durature. Almeno fino a quando l’incuria non finirà di distruggerle. Già l’antico ponte di Sant’Agata è stato una delle vittime della scarsa manutenzione della copertura, quando nel 1970 l’acqua “che porta via, che porta via la via” lo travolse senza pietà per la sua storia millenaria. E’ invece sopravvissuto a memorabili piene, tanto devastanti quanto improvvise, il settecentesco ponte Carrega, che si trova più a nord e al riparo dall’onda di ritorno del tunnel di copertura. Peccato che un ponte così bello sia relegato all’ombra dell’ingombrante e antiestetico viadotto della A12.

Bisagno

Il Bisagno a San Gottardo lungo via Emilia
ancora topinambur

Nel lungo tratto aperto al cielo, l’acqua scivola stretta fra rive incolori, sormontate da disordinate costruzioni, che hanno forse l’unico pregio di essere tutte diverse, alte, basse, esili, grasse, ingombranti, accatastate (nel senso di catasta e non di catasto). I palazzoni alti e grigiastri gli incombono addosso, così vicini alla sponda che sembra quasi non credano che sia un vero corso d’acqua.

Lungo il lurido greto crescono in ogni stagione piante e fiori sorprendenti. Talvolta monotoni, come le distese autunnali di topinambur (Helianthus tuberosus, vedi 4 settembre 2008), che è il fratello tuberoso del girasole (Helianthus annuus). Oppure aggressivi come d’estate le cardogne, Scolymus hispanicus, sgargianti margherite gialle che è meglio guardare e non toccare perchè interamente ricoperte di tenacissime spine. A volte si incontra qualche esotica avventizia, perfettamente a suo agio, come la verbena del Brasile (Verbena litoralis).

Scolymus hispanicus

Cardogne (Scolymus hispanicus) sul ponte Feritore

E in primavera si inalzano i verbaschi, Verbascum sinuatum, piante comunissime, ma attraenti. Come scrivevo il 29 giugno 2008, il verbasco sinuoso è snello, ma ha un portamento regale, sembra un grande candelabro a più bracci, e ogni braccio regge numerosi gruppi di fiori giallo brillante, corolle di cinque petali e stami dalla peluria violetta.

Verbascum sinuatum

Verbascum sinuatum presso il ponte Carrega

Ponte Carrega

Il settecentesco ponte Carrega, sopravvissuto a tutte le devastanti piene

Linaria da marciapiede

Linaria vulgaris

Linaria vulgaris

La linaria (Linaria vulgaris, vedi 13 giugno 2008) è una piccola pianticella vagabonda con graziosi fiori gialli a forma di bocche di leone. Proprio come la bocca di leone, sua sorella maggiore (Antirrhinum majus, vedi 26 settembre 2009), era in passato classificata nelle scrophulariaceae, mentre secondo la classificazione più moderna fa parte delle plantaginaceae. Il suo nome deriva dalla forma delle foglie, lanceolate e sottili come quelle del lino, o forse anche dal fatto che delle colture del lino è infestante caratteristica.

Fiorisce dalla tarda primavera fino a autunno inoltrato, fiori abbondanti e fieri, ma delicati ed eleganti. E cresce davvero dappertutto. Perfino sul bordo di un marciapiede di un polveroso viale di periferia, incastrata fra l’asfalto e la pietra, dove sia il terriccio che la accoglie è difficile immaginare. Esile e sinuosa, tenacissima, fiorisce, e si fa sberleffi di tutte quelle piante raffinate che hanno bisogno di humus e attenzioni per partorire magari poche stentate corolle.

Principessa vitalba

Clematis vitalba

Clematis vitalba

Le sue parenti più strette, le clematidi, sono fra le più raffinate interpreti dei romantici giardini inglesi. Hanno petali sottili e lisci come seta dai ricercati colori pastello. Avvinghiano con circospezione i loro esili steli su ordinati tutori, allungando garbatamente verso il cielo i loro germogli.
La vitalba, invece, è una ragazzaccia scapestrata, disordinata, impudente, vorace.

Come è risaputo, le brave ragazze vanno in paradiso, ma quelle cattive vanno dappertutto. Ed ecco che la vitalba si diffonde invadente in ogni angolo verde, in ogni giardino, campo o bosco. Si arrampica sugli alberi secolari e li avvinghia, gettando liane possenti fra tronco e tronco.Tesse trame robuste nel folto delle foreste e nelle siepi, e non disdegna affatto le recinzioni e le ringhiere di città.
Come scrive Mirna Medri nella scheda che ha curato per actaplantarum, si adatta alla maggior parte dei suoli, e, seppure ora appaia in regresso a seguito alla scomparsa di siepi e di arbusteti, ha la capacità di ricolonizzarsi repentinamente, sui muri abbandonati, in luoghi selvatici, al margine di fossati e canali.

Più che una protagonista della flora urbana, la vitalba ne è la principessa. Delle sue sorelle clematidi da giardino ha mantenuto gran parte della bellezza. D’estate si copre di profumatissimi fiori bianchi, dai petali, o per meglio dire sepali petaloidi, vellutati, e d’autunno di curiosi frutti piumosi (10 agosto 2008), che formano nuvole impalpabili sugli steli nudi. Si spoglia d’inverno. Ma resistono i suoi lunghissimi fusti bruni, possenti come cavi d’acciaio.
Qui la incontro, fiorita, lungo una crosa di collina, ad allietare un magazzino quasi abbandonato.