Prunus cerasifera in via Terpi
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Viburno a ponte Carrega
Mai un ponte fu più bistrattato e amato nello stesso tempo. Questo ponte settecentesco (di cui ho già parlato, per lodare la sua resistenza alle piene del Bisagno) sarebbe molto bello a vedersi, e piacevole da percorrere, se non fosse che si trova nel bel mezzo di un punto nevralgico e congestionato della città, e per giunta proprio sotto l’immane viadotto dell’autostrada A12, a cui auguriamo lunga vita. Negli ultimi anni il ponte Carrega ne ha veramente passate di tutti i colori, dovendo resistere non soltanto alle inondazioni periodiche del suo irrequieto corso d’acqua, ma anche alle assurde proposte di abbatterlo perchè “non compatibile con le vigenti norme idrauliche” e “ostacolo alla messa in sicurezza del torrente”. Come altri ponti antichi, ha già dovuto subire un ridimensionamento da sedici a sei arcate, in ragione dell’inevitabile quanto dissennata espansione della città. Dissennata perchè, come non è il cervo che attraversa la strada, ma la strada che attraversa il bosco, dovremmo dire che non è il fiume che rompe gli argini, ma gli argini che si sono messi al posto del fiume. Tant’è il ponte Carrega resiste e ci piace guardarlo, anche in mezzo al traffico, fra asfalto, cemento, polvere e spazzatura.
Come il ponte, il viburno non è arbusto che si faccia intimidire. Su questa riva negletta, d’inverno crescerebbe solo sterpaglia, se non fosse per lui, precoce nella fioritura, tenace e nobile nell’aspetto. Le foglie sono persistenti e coriacee, tipiche da essenza della macchia mediterranea, dove si accoppia al ligustro e fa compagnia all’altra splendida coppia di lentisco e terebinto. I fiori bianco rosati (vedi 6 marzo 2009) sono aggraziati e precisi; diventeranno bacche scure (18 settembre 2008), tossiche, anche se impiegate dall’antica medicina.
Banano in città
Il banano non è un albero. Secondo la nomenclatura botanica, è una pianta erbacea gigante del genere Musa, famiglia della Musaceae. In Italia i frutti di questa pianta maturano soltanto nell’estremo Sud della penisola e soprattutto in Sicilia, ma le piante sono piuttosto diffuse, anche nelle città. Misconosciute ai più, le larghe foglie del banano sono abbastanza attraenti e non è difficile scorgere qualche casco di piccoli frutti verdi fare capolino. Ma bisogna osservare e le persone, di solito, non guardano le piante. Ricordo ancora lo stupore negli occhi di una signora che visitava con il figlio i giardini di villa Hanbury a Ventimiglia quando, rispondendo a una sua domanda, le dissi che la pianta che stava osservando era un banano. E ancora più grande la sorpresa quando le ho fatto notare i frutti, piccoli e verdi, ma inconfondibili. Non li aveva visti.
Chissà se questi bimbi colorati, in attesa a una fermata dell’autobus di periferia, riconoscono quest’erba maestosa, così comune nella loro terra di origine.
per saperne di più, rimando al già menzionato link.
Il platano, questo sconosciuto
Alcuni alberi crescono in modo bizzarro, come questo possente tronco contorto che si trova sulla sponda del Bisagno presso il ponte di Sant’Agata. Penso a quante piene rovinose e disperate siccittà ha contemplato dalla sua sinuosa altezza. Soprattutto penso a come mai sia cresciuto così storto, il grosso tronco ricurvo, come volesse dare una ginocchiata a qualche gigante di passaggio. Gli alberi del bosco sono in competizione per la luce, crescere diritti verso l’alto è spesso la migliore opportunità per sopravvivere. Ma gli alberi di città, distanziati e composti per far spazio al traffico cittadino, non hanno regole naturali ad istruirli. Eppure qualche principio li guida, non arte, ma necessità, non capriccio, ma regola, e vengono su storti, ma sempre spavaldi.
Il platano è uno degli alberi più comuni ovunque nelle città. E’ maestoso e robusto, eppure pallido, con quella corteccia sfogliata e le foglie grigie. Non sempre felice, soffre di innumerevoli acciacchi, viscide pestilenze che lo sfiancano. Ma resiste e, in primavera, è bello come un giovinetto, gagliardi rami chiari e foglie verde tenero. Il platano è anche un mistero perchè chi si addentri alla comprensione del suo genere, sempre si scontra con infinite complicazioni. Certo, gli esemplari adattati alle aiuole spartitraffico non sono specie pure ed orgogliosamente tramandate dai semi degli avi, sono ibridi. Già, ma di che?
Le due specie più diffuse di platani originari sono il Platanus orientalis, europeo, più snello e morbido, foglie lobate frastagliatissime, corteccia sfogliante maculata, e il Platanus occidentalis, americano, più possente, foglie a tre lobi arrotondati, corteccia che si sfalda lasciando scoperte grandi chiazze grigio chiare. Gli alberi che più comunemente si incontrano sul bordo delle nostre strade sono ibridi di queste due specie, incroci, meticci. Si chiamano Platanus x acerifolia o anche Platanus hispanica, perchè descritti per la prima volta in Spagna intorno al 1600 dove vicino ai platani europei, erano stati piantati dei platani americani. Il platano comune, come lo chiameremo per comodità, ha foglie con lobi un poco più appuntiti dell’americano, ma più semplici e netti dell’europeo.
per altri platani cittadini, vedi anche:
Il vecchio rudere e
28 dicembre 2008
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Piantaggine e altre erbe da crepe
Ci sono le piante da vaso, da balcone, da aiuola, da giardino, da bosco, le piante che crescono nella brughiera, sul serpentino, sulla sabbia, nel letame (le più felici…). E poi ci sono le piante da crepe della strada, quelle che crescono al limitare fra il cemento e l’asfalto, dentro una buca del selciato o soltanto una ruga della carreggiata. Sui muri sbrecciati dal tempo e dall’incuria, basta una manciata di terra, o molto meno per far crescere una pianta. Una nocciola caduta nel canale di scolo è germogliata e ha messo cinque foglie. Un microscopico rosmarino è nato per sbaglio su uno scalino. La parietaria, un tempo canigea, ricercata come medicina al veleno dell’ortica, oggi temuta allergenica, cresce assolutamente dappertutto.
Piantaggine, valeriana rossa, sanguisorba non sono piante reiette, nè disprezzabili. Le piante si adattano e si camuffano, a volte irriconoscobili.
Ecco oggi alcune piante da crepe:
Plantago lanceolata
Piantaggine femmina, Piantaggine lanciuola, Arnoglossa, Cinquenervi, Mestolaccio, Piantaggine minore, Lingua di cane, Lanciola, Petacciola, Pio quinto, Erba di S.Antonio, Erba pitocchina, Scontamano, Piantana
Sanguisorba minor
Pimpinella, Salvastrella minore, Bibinella
Centranthus ruber
Camarezza comune, Valeriana rossa, Centranto rosso
Nevicata in via Terpi
Sono ormai due anni che a Genova non viene la neve. E anche quando viene davvero, come quell’indimenticabile 3 marzo 2005 che imbiancò Boccadasse come fosse sul mare del Nord, la neve dura poco e velocemente diventa una poltiglia grigia. No, quest’anno non è nevicato, ma la coltre bianca che copre gli alberi di marzo, quella non tradisce mai.
Via Terpi è una strada di periferia che si arrampica su per il pendio in val Bisagno nel quartiere di Montesignano, fra san Gottardo a valle e sant’Eusebio in collina. Sobborgo popolare, polveroso e scomposto, alti palazzi pallidi, addossati gli uni sugli altri nella salita, la strada angusta e contorta, soffocata dai motori. La collina è ripida, questo non è un paese per pigri, ma a tratti si fa dolce, adatta ad ospitare giardini. Nei terrapieni di cemento, la primavera imbianca gli alberi e ne fa gioielli, nuvole impalpabili e solide, sospese fra l’asfalto e il cielo.
La chiesa di via Terpi, parrocchia di san Michele Arcangelo chiesa di Santa Maria del Carmine e San Giustino, è un edificio moderno, con il tetto di lamiera e il campanile a spirale. Una costruzione bizzarra, di una forma che ancora non ha deciso se essere chiesa o capannone. Ma forse è un’opera d’arte, anche perchè racchiude un interno sorprendente, dominato da una grande, spettacolare vetrata, realizzata dall’ artista greco, da anni residente a Genova, Giorgio Oikonomoy nel 1988. Da fuori, è ovvio, non si vede assolutamente nulla. Ma quando mi lascio alle spalle la grigia piazza che circonda la chiesa, una sorta di parcheggio terrazzato, spingo la grande porta di legno chiaro e lucido, mi compare davanti quest’universo di colori, di forme scolpite nel disegno di vetro, a cui la luce dà vita. Splendido.
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Tutti i colori della piracanta
L’aiuola spartitraffico della Val Bisagno, lungo le strade dedicate ai sindaci di Genova (Gelasio Adamoli e poi Augusto Pedullà) è adorna di essenze mediterranee.
In mezzo a varie erbacce (per le quali però io ho sempre un occhio di riguardo), in autunno spiccano superbi i frutti del corbezzolo (Arbutus unedo), dell’agazzino (Pyracantha coccinea) e del viburno (Viburnum tinus). Non mancano certo pittospori e lagerstroemie, ma il colore dominante è quello delle piracante.
La piracanta, il cui nome comune agazzino è ormai poco usato, è una rosacea fieramente spinosa, che nasconde i suoi aghi micidiali dietro amabili fiorellini bianchi (vedi 18 maggio 2008) e poi bacche dai colori sgargianti, dal giallo all’arancio al rosso. Così si adatta egregiamente per realizzare siepi invalicabili e variopinte bordure che richiamano i colori dell’autunno.
Pioppo vanitoso
Sono arrivati (finalmente …) i primi acquazzoni autunnali. La temperatura si è abbassata e la terra, secca e ruvida, ha accolto l’acqua come una benedizione. Anche in città. Nonostante la paura delle inondazioni, anche questa città costruita su un labirinto di rigagnoli pronti a straripare, accoglie la pioggia con una gioia cristallina. Perchè la pioggia è bella, nonostante tutto.
Questo pioppo nato per sbaglio sul ciglio della strada, addossato al grigio cemento, si specchia in una grande pozzanghera ingombra di varia immondizia e il suo riflesso mi ricorda quello di altri alberi che hanno avuto in sorte di crescere sulle rive di laghetti, fiumi e specchi d’acqua naturale. Più fortunati, forse, ma non meno vanitosi.
Melograno alla COOP
Non so come questo modesto e dignitoso alberello di melograno sia arrivato in un posto tanto bizzarro, così inusuale per un nobile albero da giardino e frutteto, il terrapieno erboso fra la strada e l’arido edificio di un centro commerciale di periferia, che ospita fra gli altri un supermercato Coop. Che sia stato il caso, il vento o qualche altra forma di inseminazione naturale mi sembra improbabile. Allora qualcuno ce l’ha messo? E perchè? Forse per le lucide foglie verdi e i fiori che, come è poeticamente noto, sono vermigli? Stupendi i fiori del melograno, magici i suoi frutti. Ho già detto di questo nel vecchio blog (23 giugno 2009) e in un post più recente (31 dicembre 2011).
Per volere, o destino, o fortuna, cresce un melograno vicino alla Coop di Molassana (Lungo Bisagno Dalmazia, Genova). Dentro al supermercato sono in vendita i frutti ipertrofici di un suo qualche fratello, molto gonfi e molto rossi, che ho scoperto essere cileni. Sono stata in Cile, amo i cileni e la loro agricoltura, ma è un po’ triste e stupido che i melograni debbano fare mezzo giro del mondo per essere mangiati. Dentro al supermercato sono in vendita anche varie marche di succo di melograno, le cui virtù salutari sono rinomate per combattere il logorio del progresso che ci ossida l’esistenza.
Qui fuori, sulla sponda dell’asfalto, questi frutti probabilmente non hanno un buon sapore. Il melograno ornamentale ha frutti secchi ed acidi e questo per di più, anche se ornamentale non è, cresce sul ciglio di una strada a grande percorrenza, fra i vapori dei carburanti e i miasmi degli scappamenti. Non fa venire voglia di assaggiarlo.
A primavera ce l’ha certo messa tutta a fiorire, e, ornato delle sue carnose campane rosso fuoco, sarà stato, non ho dubbi, magnifico. Non so perchè, ma mi stringe il cuore pensare, che, nella fretta fra il parcheggio e la spesa, davvero in pochi lo avranno notato. D’altra parte è assai raro che la gente, in città, guardi gli alberi. Ben diversa la sua sorte sarebbe stata se invece che dietro le sbarre di un centro commerciale fosse cresciuto in un frutteto o in un elegante giardino, potato, concimato e riverito. In realtà non c’è di che stupirsi, il melograno è un albero di poche pretese, che cresce bene anche su terreni poveri e, in posizione soleggiata e al riparo da forti gelate, non conosce avversità. Guerriero di antiche origini e dalla storia millenaria, pronto ad adattarsi persino fra catrame e petrolio.
Grespino della strada
Il grespino si può consumare in insalata, è un ingrediente della zuppa lucchese di magro, così come del genovese preboggion, ed ha un posto importante nell’elenco delle erbe commestibili. Perciò ha anche tanti nomi popolari, come cicerbita, crespigno, lattarolo, e perfino cicoria, rubando il nome alla cicoria propriamente detta che fra l’altro i fiori ce li ha azzurri. Ma in fondo in fondo questa deliziosa insalatina selvatica un vero e proprio nome non ce l’ha. Il suo nome scientifico è Sonchus, uno degli innumerevoli generi di margherite gialle della sterminata famiglia delle asteracee. Insieme al suo fratello Sonchus oleraceus, che ha foglie più molli e rotondeggianti, è un’erba urbana rampante che ha colonizzato tutti, ma proprio tutti gli ambienti antropizzati ed è oggi, almeno a Genova, il fiore più comune negli incolti, sui bordi dei marciapiedi, fra pietra e pietra, ed ovunque negli angoli più impensabili delle strade.
In un vecchio post (vecchio blog, 9 febbraio 2009 ) (dove forse avevo fatto un po’ di confusione, come sempre da dilettante quale sono, fra S.olearaceus e S.asper) già lo avevo descritto.
“Il grespino è un’erbaccia qualsiasi, con i fiori giallo oro del tarassaco, ma più piccoli, i soffioni bianchi del senecio e steli lunghi, lunghi e cavi che se spezzati grondano lattice. Spunta negli orti e negli incolti, ma anche sui bordi delle strade e sui ruderi, sul bordo di un muro, in quelle crepe dell’intonaco dove la pioggia e il vento trascinano quel po’ di terra che basta a far crescere le piante pioniere.”
Commestibile o no, quello che mi sorprende, mi indigna ed intenerisce insieme, è la capacità di questi fiori di crescere alti e fioriti, belli come il sole, in mezzo ai rifiuti dell’umanità.