L’ippocastano di piazza Manin

Ippocastani (Aesculus hippocastanum)

Ippocastani in piazza Manin
(Aesculus hippocastanum)

Genova, piazza Manin angolo con via Assarotti. Un imponente albero di ippocastano allunga i suoi rami verso un elegante palazzo d’epoca (clicca per ingrandire). In tutte le stagioni, lo orna e impreziosisce con i suoi colori. In tutte le stagioni io pensavo: ecco un albero da fotografare. Il verde intenso delle larghe foglie a ventaglio contro l’azzurro del cielo primaverile. I perfetti coni di fiori che sembrano merletti. Le foglie stanche, accartocciate, cariche dei colori dell’autunno. E infine i rami, alti e spogli, eretti contro il grigio dell’inverno. Sullo sfondo, il palazzo, splendida inquadratura.

Aesculus hippocastanum

Troppo tardi. L’albero non c’è più e ne è rimasto soltanto un corto moncone. Forse era malato (ma sani sembrano i suoi primi vicini). Forse appariva un pericolo così alto e maestoso sul bordo dell’incrocio. Forse, semplicemente, i suoi rami esuberanti e frondosi si erano avvicinati troppo all’intimità di qualche ricca signora. Non so, ma ci sono rimasta male.
A quel che resta dell’albero, dedico questi bellissimi versi di Primo Levi (già pubblicati in questa pagina)

Il mio vicino di casa è robusto.
E’ un ippocastano di Corso Re Umberto
Ha la mia età, ma non la dimostra
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
in aprile, di spingere gemme e foglie.
Fiori fragili a maggio,
a settembre ricci dalle spine innocue
Con dentro lucide castagne tanniche.
E’ un impostore, ma ingenuo: vuol farsi credere
emulo del suo bravo fratello di montagna
signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
i tram numero otto e diciannove,
ogni cinque minuti, ne rimane intronato.
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno succhia lenti veleni
dal sottosuolo saturo di metano
E’ abbeverato d’orina di cani.
Le rughe del suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali.
Sotto la scorza pendono crisalidi
morte che non diverranno mai farfalle.
Eppure nel suo torbido cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.

Qui sotto altre immagini di fratelli ippocastani di città
Aesculus hippocastanumAesculus hippocastanumAesculus hippocastanum

per le descrizioni, altri link sui miei blog
19 aprile 2009
10 dicembre 2008
19 maggio 2010

Gennaio

Gennaio:l'olivo e l'orniello

Olea europea
Fraxinus ornus

E’ cominciato un nuovo anno, almeno così si usa dire. Il primo giorno di gennaio, una breve passeggiata lungo il percorso dell’acquedotto storico genovese fra roverelle, carpini e ornielli ormai spogli e argentei olivi.

Il tempo delle mele

Malus domestica

Malus domestica

San Cosimo di Struppa

San Cosimo di Struppa

In un novembre passato, un po’ meno fradicio di quello di oggi, un altro generosissimo melo non risparmia  i suoi frutti. Molti cadranno, abbandonati per terra, perduti per il nostro palato e la nostra fame, ma non sprecati per la pianta, non per i vermetti che in tanti che se ne saranno nutriti, alla terra che accoglierà i loro semi. Bello piccolo melo di periferia, lungo una crosa di collina, a San Cosimo di Struppa.

L’evonimo e le ville di Fontanegli

Euonymus europeus

Euonymus europeus

Fontanegli è una piccola frazione del comune di Genova abbarbicata sulla collina. Un gruppo di case vecchiotte, fra cui la mia, circondano la chiesa di San Pietro e l’oratorio di San Giacinto. Ci sono anche tre antiche ville nobiliari che risalgono al XVI e XVII secolo ed erano le residenze estive di famiglie nobili che durante l’anno risiedevano nei palazzi di città.
La villa più alta e anche quella più in alto di tutte, villa Raggi, si trova a due passi dalla chiesa parrocchiale ed è stata ristrutturata nel 1994, con modifiche profonde dell’interno per ricavarne più appartamenti. Quella più in basso, più a valle delle tre, è la più nascosta, ed è la storica villa Thellung, dove si narra Goffredo Mameli compose il suo inno.
A metà costa, poco sotto la chiesa  scendendo per salita superiore alla Chiesa di Fontanegli e per la carrozzabile via Giovanni da Verrazzano, ecco villa Ferretto, la più vasta di tutte. Attualmente è una casa di riposo per anziani, ma nel 1500 era una residenza privata. Di proprietà delle suore domenicane, fu convento, asilo, collegio e scuola. La villa possiede una cappella dove veniva celebrata privatamente la messa, ed è proprio questa cappella che appare in questa foto, dietro ai tranci secchi dell’evonimo, ornati di bacche rosa scuro. Ho visto questa cappella aperta solo in occasione delle cerimonie funebri per qualche ospite della casa di riposo, una porta aperta invece del portone mezzo chiuso che usava nei palazzi ai tempi della mia infanzia per testimoniare il lutto del condominio.

Euonymus europeus

Euonymus europeus


Pianta singolare, selvatica e raffinata, l’evonimo, con le sue bacche, velenose, a quattro scomparti come il berretto dei preti (da cui il suo secondo nome), con il suo legno duro e particolare con cui si fabbricavano i fusi per filare la lana (da cui il suo terzo nome, fusaggine).

Le notizie sulle ville le ho lette su un cartello illustrativo che si trova a Bavari all’inizio della discesa di via San Colombano, scritto a cura dagli alunni della scuola elementare di Fontanegli anni scolastici 2000, 2001 e 2002. Ho fatto bene a fotografarlo e ricopiarlo per bene perchè la pioggia lo ha ormai completamente cancellato, e non so neppure se esiste ancora la scuola elementare.

Altri post sull’evonimo:
fiori dell’evonimo
12 agosto 2008
31 dicembre 2009

Alberi a Washington

Washington - The white house

Washington  –  The white house

La grande città di Washington, bella, per chi ama le città. I viali, ampi, le aiuole, comode, gli alberi, maestosi. Coloratissimi d’autunno, si può provare a indovinarli , da lontano; in giallo sono i ginkgo, in rosso vivo le querce, e gli aceri.

Il ginkgo (Ginkgo biloba)è un albero antichissimo, dalla storia leggendaria e affascinante. Spontaneo in certe regioni dell’Estremo Oriente, ove si racconta sia stato salvato dall’estinzione dagli instancabili monaci buddisti, è oggi largamente usato in Occidente a scopo ornamentale.Si classifica come conifera,  o meglio gimnosperma, letteralmente ‘dal seme nudo’, perché i suoi semi non sono racchiusi nell’ovario.

Ginkgo biloba

Ginkgo biloba

E’ l’unico sopravvissuto della famiglia delle Ginkgoaceae che, come testimoniano i resti fossili, erano molto diffuse 150-200 milioni di anni fa ed appartenevano a un ordine ancora più antico delle conifere. Per questo a volte  viene chiamato ‘fossile vivente’. Ha foglie decidue, disposte a grappolo, di forma molto caratteristica, a volte profondamente incise (da cui l’aggettivo biloba), che prima di arrendersi all’inverno si colorano di giallo canarino. Nella bella stagione, cresce delle bacche voluminose che ricordano grosse prugne dal lungo picciolo, anche se non sono propriamente frutti (assenti nelle gimnosperme), ma piuttosto involucri carnosi che ricoprono i semi. Emanano un odore abbastanza sgradevole, ma l’interno, semi compresi, è commestibile e ricco di sostanze di interesse farmacologico, i ginkgolidi.

Acer rubrum

Acer rubrum

Gli aceri americani sono famosi per i colori, e per lo sciroppo, che si ricava dalla linfa primaverile. La pianta che ne produce di più è l’acero del Canadà (Acer saccharum), la cui foglia appare appunto sulla bandiera canadese. Ma lo zucchero si ricava anche dalla linfa dell’acero rosso (Acer rubrum), che si incontra sovente per le strade di Washington, insieme all’Acer pensylvanicum, acero della Pensilvania. L’acero rosso si chiama così non tanto a causa del colore del fogliame autunnale, ma perchè dello stesso colore rosso sono i fiori, e le samare, le ali dei semi.

Acer pensylvanicum

Acer pensylvanicum

L’acero della Pensilvania viene anche detto acero striato perché la sua corteccia è cosparsa di sottili nervature, come la pelle di un serpente. Questa caratteristica che può aiutare ad identificarlo non si vede però in questa fotografia. Si vedono solo le foglie, rosso arancio, che spiccano con stridente contrasto contro la gelida vetrata azzurrata di un grattacielo.

Sono belli gli alberi di Washington, e sembrano quasi felici. Soprattutto nei piccoli giardini, crescono vasti e liberi. Non ho visto malattie evidenti, anche se certo la sofferenza esiste anche per loro. La città non è proprio un luogo a misura d’albero, anche se l’albero può adattarvisi, se non è violentato da potature troppo violente che lo umiliano e lo indeboliscono.

Per i vecchi post degli alberi di Washington (che ho riproposto in parte oggi) vedi
26 e 27 novembre 2008
17 novembre 2009

Ponte Pila

Ponte Pila

A  Bice
Smarrita,
sotto cumuli d’anni
e di cemento,
pur la memoria
di quel ponte
che traghettava
i nostri passi di bambine.
Ma non sconfitto
è il vento;
ora si è fatto
spirito del Borgo,
ha la sua dimora
nelle cavità di androni e palafitte
e ancora,
al varco ci travolge e dice
quel che è perduto
e quello che rimane.
… tra noi questa lunghissima alleanza
e immagini lontane
che il ricordo scompiglia
e ricompone.
Sul ponte
improvviso,
l’uragano.
Le nostre mani unite
a trattener l’ombrello rovesciato,
il turbine del vento
che confonde
quella tua sciarpa gialla
con la mia sciarpa rosa.
Santina de Angelis
(Trani 1913 – Genova 2005)

Ponte Pila

Il Bisagno del tempo che fu, in un post un po’ OT rispetto al mio solito sguardo verde. Oggi mi fermo al bianco e nero, ai grigi del nitrato d’argento. Il ponte Pila, nei pressi di Brignole, oggi non c’è più perché in quel tratto il torrente è stato coperto nel 1929, mentre l’arredo del ponte, ringhiere e lampioni,  è stato trasferito sul ponte Monteverde, di fronte all’ ingresso del cimitero monumentale di Staglieno. I versi sono di mia madre Santina, insegnante e poetessa, che negli anni ’20 del Novecento era una bambina.

Vi presento il Bisagno

Torrente Bisagno

Bisagno nel rione  San Gottardo e
e fioritura autunnale di topinambur (Helianthus tuberosus)

Il Bisagno torna a far parlare di sè. Quando sento menzionare il suo nome nei notiziari di radio e televisione come ‘il fiume di Genova’, mi viene in mente il sorriso divertito e beffardo della mia amica Irena, polacca di Stettino, che abita sulle sponde del vasto estuario del fiume Oder.
“… and this is the river.”
“River?!?”

Naturalmente il Bisagno non è un fiume, è un corso d’acqua a regime torrentizio, che d’estate talvolta di acqua ne ha proprio niente. Nasce da modeste colline dell’Appennino che stringono la città a nord. Della sua storia, e dell’alta valle, ho parlato in una pagina diversi anni fa.

Torrente Bisagno

Torrente Bisagno in via Piacenza presso il ponte Guglielmetti

Il torrente, che talvolta diventa cattivo, è sempre abbastanza brutto. E’ giallastro e disadorno, ingombro di vegetazione selvaggia, invadente, rami spezzati e spazzatura. Proprio perchè è così brutto, nell’ultimo tratto, poco più di un chilometro, il torrente è stato coperto, tombinato si direbbe oggi, con una di quelle opere pubbliche del ventennio fascista, che hanno cambiato, per sempre, l’aspetto di tanti luoghi del nostro paese. Opere contestabili, ma durature. Almeno fino a quando l’incuria non finirà di distruggerle. Già l’antico ponte di Sant’Agata è stato una delle vittime della scarsa manutenzione della copertura, quando nel 1970 l’acqua “che porta via, che porta via la via” lo travolse senza pietà per la sua storia millenaria. E’ invece sopravvissuto a memorabili piene, tanto devastanti quanto improvvise, il settecentesco ponte Carrega, che si trova più a nord e al riparo dall’onda di ritorno del tunnel di copertura. Peccato che un ponte così bello sia relegato all’ombra dell’ingombrante e antiestetico viadotto della A12.

Bisagno

Il Bisagno a San Gottardo lungo via Emilia
ancora topinambur

Nel lungo tratto aperto al cielo, l’acqua scivola stretta fra rive incolori, sormontate da disordinate costruzioni, che hanno forse l’unico pregio di essere tutte diverse, alte, basse, esili, grasse, ingombranti, accatastate (nel senso di catasta e non di catasto). I palazzoni alti e grigiastri gli incombono addosso, così vicini alla sponda che sembra quasi non credano che sia un vero corso d’acqua.

Lungo il lurido greto crescono in ogni stagione piante e fiori sorprendenti. Talvolta monotoni, come le distese autunnali di topinambur (Helianthus tuberosus, vedi 4 settembre 2008), che è il fratello tuberoso del girasole (Helianthus annuus). Oppure aggressivi come d’estate le cardogne, Scolymus hispanicus, sgargianti margherite gialle che è meglio guardare e non toccare perchè interamente ricoperte di tenacissime spine. A volte si incontra qualche esotica avventizia, perfettamente a suo agio, come la verbena del Brasile (Verbena litoralis).

Scolymus hispanicus

Cardogne (Scolymus hispanicus) sul ponte Feritore

E in primavera si inalzano i verbaschi, Verbascum sinuatum, piante comunissime, ma attraenti. Come scrivevo il 29 giugno 2008, il verbasco sinuoso è snello, ma ha un portamento regale, sembra un grande candelabro a più bracci, e ogni braccio regge numerosi gruppi di fiori giallo brillante, corolle di cinque petali e stami dalla peluria violetta.

Verbascum sinuatum

Verbascum sinuatum presso il ponte Carrega

Ponte Carrega

Il settecentesco ponte Carrega, sopravvissuto a tutte le devastanti piene

Linaria da marciapiede

Linaria vulgaris

Linaria vulgaris

La linaria (Linaria vulgaris, vedi 13 giugno 2008) è una piccola pianticella vagabonda con graziosi fiori gialli a forma di bocche di leone. Proprio come la bocca di leone, sua sorella maggiore (Antirrhinum majus, vedi 26 settembre 2009), era in passato classificata nelle scrophulariaceae, mentre secondo la classificazione più moderna fa parte delle plantaginaceae. Il suo nome deriva dalla forma delle foglie, lanceolate e sottili come quelle del lino, o forse anche dal fatto che delle colture del lino è infestante caratteristica.

Fiorisce dalla tarda primavera fino a autunno inoltrato, fiori abbondanti e fieri, ma delicati ed eleganti. E cresce davvero dappertutto. Perfino sul bordo di un marciapiede di un polveroso viale di periferia, incastrata fra l’asfalto e la pietra, dove sia il terriccio che la accoglie è difficile immaginare. Esile e sinuosa, tenacissima, fiorisce, e si fa sberleffi di tutte quelle piante raffinate che hanno bisogno di humus e attenzioni per partorire magari poche stentate corolle.

Principessa vitalba

Clematis vitalba

Clematis vitalba

Le sue parenti più strette, le clematidi, sono fra le più raffinate interpreti dei romantici giardini inglesi. Hanno petali sottili e lisci come seta dai ricercati colori pastello. Avvinghiano con circospezione i loro esili steli su ordinati tutori, allungando garbatamente verso il cielo i loro germogli.
La vitalba, invece, è una ragazzaccia scapestrata, disordinata, impudente, vorace.

Come è risaputo, le brave ragazze vanno in paradiso, ma quelle cattive vanno dappertutto. Ed ecco che la vitalba si diffonde invadente in ogni angolo verde, in ogni giardino, campo o bosco. Si arrampica sugli alberi secolari e li avvinghia, gettando liane possenti fra tronco e tronco.Tesse trame robuste nel folto delle foreste e nelle siepi, e non disdegna affatto le recinzioni e le ringhiere di città.
Come scrive Mirna Medri nella scheda che ha curato per actaplantarum, si adatta alla maggior parte dei suoli, e, seppure ora appaia in regresso a seguito alla scomparsa di siepi e di arbusteti, ha la capacità di ricolonizzarsi repentinamente, sui muri abbandonati, in luoghi selvatici, al margine di fossati e canali.

Più che una protagonista della flora urbana, la vitalba ne è la principessa. Delle sue sorelle clematidi da giardino ha mantenuto gran parte della bellezza. D’estate si copre di profumatissimi fiori bianchi, dai petali, o per meglio dire sepali petaloidi, vellutati, e d’autunno di curiosi frutti piumosi (10 agosto 2008), che formano nuvole impalpabili sugli steli nudi. Si spoglia d’inverno. Ma resistono i suoi lunghissimi fusti bruni, possenti come cavi d’acciaio.
Qui la incontro, fiorita, lungo una crosa di collina, ad allietare un magazzino quasi abbandonato.

Ailanto

Ailanto

Ailanthus altissima

L’ailanto (Ailanthus altissima) viene dalla Cina ed è uno dei più esuberanti colonizzatore dei piccoli spazi verdi urbani e suburbani. Chiamato albero del Paradiso, forse perché sale così in alto, è anche noto come l’albero di Brooklin, dal fortunato romanzo di Betty Smith, che citavo in questa pagina.
Spunta e cresce ovunque con grande facilità, nei cortili, ai bordi delle strade di grande traffico, nelle zone poco curate, fra gli edifici abbandonati e fra le macerie. Si riproduce velocemente grazie ai rizomi che corrono sottoterra e ai semi che sono racchiusi in
samare alate. E’ considerata una pianta esotica invasiva, e quindi addirittura un pericolo per l’ambiente naturale.
Fu importato in Europa, certo contro la sua volontà, per ragioni economiche (lo si voleva impiegare per l’allevamento di un baco simile al filugello della seta, ma l’esperimento non ebbe fortuna) e la sua unica colpa è quella di avere successo nella lotta per l’esistenza. Da decenni ormai è un ricercato speciale, vituperato, odiato, insultato, braccato, sterminato, distrutto. Lo si accusa di impedire la crescita delle specie autoctone a causa dell’ampia ombra delle sue foglie; di avere un cattivo odore e di contenere sostanze irritanti. Ma successo continua ad averne davvero molto, perché nonostante la persecuzioni insistere a prosperare, sempre più rigoglioso. La sua crescita è veloce e inarrestabile, tanto che in brevissimo tempo sorgono boschetti di ailanti praticamente dappertutto.

Ailanto

Ailanthus altissima

Come albero non è per niente brutto. Ha un portamento snello e lunghissime foglie composte, morbide e affusolate. In questa stagione, sfoggia gruppi di frutti giallo rossicci (vedi foto a destra) che si muovono graziosamente alla brezza. Certo, a volte, preferirei vedere altri alberi al suo posto, un magico tiglio o un solido ippocastano. Ma quale di loro sopravviverebbe in uno spazio angusto, fra inferriate arrugginite e copertoni di camion, fra fumi di scappamenti e rifiuti speciali? Vedo soffrire i platani urbani, grigi di malattia; piegarsi persino i pittospori, neri di catrame.
Tutto sommato sto dalla parte dell’ailanto, della sua rozza bellezza e spavalderia, un albero che tutto può sopportare, rimanendo verde e continuando a fiorire e a riprodursi.

Questo post è riproposto dall’originale del 25 agosto 2008