Ambretta

knautia arvensis
La botanica non è un scienza statica, è sempre in movimento come la natura. O forse, con un pizzico di malizia, si potrebbe dire che i botanici non vogliono annoiarsi e sono sempre alla ricerca del ‘pelo sul fiore’. Così’ ho fatto appena in tempo a imparare che tutte le vedovelle, scabiosa (13 agosto 2008), knautia o succisa (21 ottobre 2009) che siano, appartengono alla famiglia della dipsacaceae, che già me le hanno spostate nelle caprifoliaceae. Insomma, sarà meglio che mi aggiorni e mi dia regole certe.
Certo è il colore di queste ambrette, perse e svettanti in mezzo all’erba lussureggiante e verdissima del parco Burcina (Biella), lilla brillante i fiorellini a quattro lobi, violette le magiche antere appese. Non conosco il nome dell’ospite, ma credo che ci si trovasse bene.
Anche questa pianta era utilizzata, ai tempi in cui non si buttava nulla. Sarà un’interessante coincidenza, ma il mio libro di etnobotanica(1) ne menzioni l’uso ‘in minestre primaverili’, citando tale Alfonso Sella, autore di un articolo sulla ‘Flora popolare biellese’. Insomma deve essere di quelle parti, quelle pendici di Alpi pulite e ventose, quelle radure nitide, quegli orizzonti inquieti. Il nome knautia è omaggio di Linneo all’insigne botanico Christian Knauth (1656-1716). Perchè si chiami ambretta, invece, non saprei, meglio ancora di Ambra sarebbe un nome grazioso per una bambina.

(1) Paolo M. Guarrera Usi e tradizioni della flora italiana – Aracne Ed – 2006

Bistorta

bistorta officinalis
L’ho fotografata un po’ da lontano, sempre al parco Burcina a Pollone di Biella, perchè era in mezzo all’erba alta, ma ero certa che fosse proprio lei. E’ una pianta di montagna, cresce sopra i 900 m almeno, e credo quindi che nel parco, che delle montagne è solo alle pendici, non ci si trovi per caso. Il suo nome più famoso è Polygonum bistorta, ma più recentemente viene sempre indicata come Bistorta officinalis. Appartiene all’originale famiglia delle poligonaceae, pianticelle che potrebbero persino apparire insignificanti, ma che racchiudono preziosi segreti. Come il grano saraceno, Fagopyrum esculentum , che si crede una graminacea, tanto che si fa mangiare sia come pane che come polenta. O le piante del genere Rheum, più noto come rabarbaro. Le foglie delle polygonaceae hanno una guaina caratteristica, detta ocrea, che circonda lo stelo alla base delle foglie. I fiori sono minutissimi e non hanno veri e propri petali, ma sepali colorati, bianchi, verdi o rosa (vedi anche la persicaria, 13 agosto 2009, e il poligolo convolvolo, 22 agosto 2009).
La bellezza della bistorta (il buffo nome deriva dalla forma della radice) si ammira meglio da lontano, quando sembra un’esplosione di luce rosata sopra l’erba spessa dei pascoli montani.
Che sia pianta officinale, il nome stesso non lascia dubbi; ma è anche commestibile ed ottima foraggera.

Ginestra dei carbonai

cytisus scoparius
Finalmente l’ho trovata, senza ombra di dubbio, la ginestra dei carbonai, nel parco Burcina (Biella). Assomiglia, ma non troppo alla ginestra maggiore (27 maggio 2008), o sparzio, quella che tinge di giallo le colline di maggio. Anche la ginestra dei carbonai, cytisus scoparium, a giallo non scherza e ha fiori brillanti e lucidi su rametti verde scuro, quadrangolari, ornati di piccole triplici foglie tondeggianti. Il legume termina con una filamento a viticcio. Ha molteplici usi domestici, oltre a quello tradizionale di farne scope per pulire, per esempio, le canne fumarie. Veniva usata per coprire il tetto delle capanne, per coperture e paraventi, per legacci e sarmenti, per accendere il fuoco e per riparare le piccole piante dal sole. Era la ginestra più domestica, salutata con gioia perchè si diceva, penso con qualche fondamento, che una ricca fioritura di ginestre promettesse un’abbondante vendemmia. Tante cose ancora su questa ginestra, la ginestra ‘buona’. Per rito o per scienza veniva impiegata come erba officinale, nonostante la presenza di una moderata quantità di sostanze tossiche. Digestiva e diuretica, contro l’ipertensione e cardiotonica, persino indicata per contrastare il morso della vipera e per curare le verruche. Curativa anche per il bestiame, in Maremma ne legavano i rami alla bocca di pecore e capre per curarle dall’indigestione, e cibo per i conigli. Il vero pericolo è confonderla con lo sparzio, che è una pianta molto velenosa. Ma lo sparzio forma cespugli più alti, ha steli rotondeggianti e, quando è fiorito, è privo di foglie.

Silene dioica

silene dioica
Questa volta ci siamo, deve essere proprio lei, Silene dioica, che si chiama anche Melandrium dioicum ovvero licnide. Vicino casa trovo soltanto Silene alba o meglio latifolia subsp albae,  così è capitato che mi sia confusa (28 novembre 2009).
Questa pianta, molto pelosa, rossiccia nel fusto e nelle foglie, deliziosamente rosa brillante nel fiore, l’ho trovata in Piemonte, davvero non molto lontano da casa. Essendo pianta dioica, porta fiori maschili e femminili che tuttavia non mi pare presentino caratteri morfologici distinti, a parte, ovviamente, l’apparato riproduttivo. Come tutte le silene, nonostante l’innegabile grazia e delicata bellezza da fiore di campo, deve il suo nome a un personaggio grottesco, Sileno, maestro e seguace di Dioniso o Bacco. Così lo descrive la mitologia: un essere biforme, sempre ubriaco con il corpo umano enormemente gonfio di grasso, con orecchie e coda di cavallo, e cavalcante un asino , sul quale sempre trasporta un otre pieno di vino. La somiglianza con una creatura tanto brutta la dolce silene la deve al calice rigonfio, che la rende inconfondibile, nelle sue varie specie.
La silene è anche pianta commestibile, le foglie si consumavano lesse nelle minestre e nelle torte di verdura; e come una sua parente, la saponaria, che è della stessa famiglia, ma è velenosa, la radice mescolata con l’acqua veniva usata come succedaneo del sapone.

Boccione maggiore

Boccione maggiore Urospermum dalechampii

Boccione maggiore – Urospermum dalechampii

Boccione maggiore Urospermum dalechampii

Boccione maggiore – Urospermum dalechampii

Il nome scientifico di questa bella asteracea di campo, Urospermum dalechampii,  significa ‘seme con la coda’ e la ragione è ancora una volta la forma del frutto, che in questo caso è un achenio particolarmente lungo. L’attributo specifico è un omaggio al grande studioso di botanica Dalechamps.

Per non confonderla con il tarassaco e altre margherite gialle solitarie, basta guardare i boccioli, tondi tondi, che nella fantasia popolare ricordavano le mammelle. O i capolini giallo brillante, con le ligule esterne vistosamente macchiate di rosso bruno. L’ho sempre trovato un fiore bellissimo.

Si chiama anche lattugaccio o radicchione perchè le sue foglie sono erba commestibile, anche se piuttosto amare. Da lessare insieme ad altre erbe e usare nei ripieni di verdura della pasta.

Rosa

rosa
Questa rosellina nana è stata la prima a fiorire, presto seguita dalla sue sorelle più grandi, anche loro ormai grondanti di fiori.

La più piccola, la più precoce, la più spavalda. Una delle mie rose fra tutte le rose di maggio.

Barba di becco violetta

tragopogon porrifoliusQuesta fotografia non rende giustizia a questo bel fiore di campo, modesto ed elegante, dal colore caldo e raffinato, la forma precisa e nitida. Le foglie, sottili e lanceolate, sembrano erba. I capolini sono ampi e solitari, con petali rosso viola, ornati da un’aureola di bratteee, più lunghe dei petali. Tutto questo si vede un poco in questo esemplare quasi sfiorito, ma ancora nobile e prestante, come un vecchio signore che non rinuncia alla sua classe.
La primavera è anche questo, fiori di rara bellezza che si disfano rapidamente, così che il loro aspetto non possa mai essere noioso come la gelida perfezione di ciò che non è vivo. Ma anzi lascino al loro sfiorire l’ansia di tornare a rivederli ancora.
Come già dicevo il 16 giugno 2008 a proposito della barba di becco comune, il nome tragopogon ha significa proprio barba di capro, per via dei semi alati di pappi che ne assicurano la dispersione nel vento. La barba di becco è una pianta commestibile, addirittura prelibata come insalata cruda o verdura cotta. Soprattutto era ricercata la radice, definita dalgi arboristi ‘di sapor dolce e ricca di latte mucoso e nutrientissimo’ e venduta nei mercati di ortofrutta come scorzonera bianca o raperonzolo selvatico. Il genere ha anche virtù terapeutiche, emollienti ed espettoranti.
Quando i capolini si chiudono, dopo il sole di mezzogiorno, e quando è finita la loro breve stagione, il fiore assume una forma conica che lo rende inconfondibile. Ma il fiore non resta chiuso a lungo, poco dopo le bratte si riaprono, e compare un soffione a forma di sfera, formato dagli acheni, ciascuno con il suo pappo piumosetto, simile a un paracadute.

Geranio lucido

geranium lucidum
Un tipo di geranio un po’ singolare, con le sue foglioline, manco a dirlo, lucide e il calice costoluto, come rigonfio. I botanici invece direbbero che ha semplicemente i sepali acuminati con tre nervi longitudinali e 5 coste trasversali. Diffuso in tutte le regioni, non è una piante molto comune. Un’altra aggiunta alla varietà incredibile sul tema del geraneo.

Fotografato nel parco esterno di villa Lante di Bagnaia (Viterbo), maggio 2010.

Fior d’angelo

philadelphus coronarius
L’ho per molto tempo confuso con la vegelia, ma non appartiene neppure alla stessa famiglia. Questo meraviglioso arbusto da giardino è della famiglia delle Hydrangeae, cioè le ortensie. Il suo nome si potrebbe tradurre ‘fiore dell’amore fraterno’, ma per qualche ragione è più noto come fior d’angelo, per il colore immacolato della cascata di fiori o anche come siringa (ma syringa vulgaris è invece il nome scientifico del lillà). Questa pianta ha una storia antica e complicata ed è stata in passato inserita nella famiglia delle Saxifragaceae, le piante delle rocce (letteralmente ‘che rompono i sassi’). Anche il nome potrebbe avere origini quasi mitologiche, oppure semplicemente legate al profondo profumo, profondo, secondo alcuni, proprio come l’amore fraterno.
Superfluo dire che lo vorrei in giardino e che brucio d’invidia ad ammirarne la fioritura voluttuosa che sporge dal muretto di una casa vicina. Sono questi arbusti che fanno unici e irripetibili i giardini di maggio. Esistono molte specie di philadelphus, anche se il più comune, spontaneo in varie regioni italiane è il philadelphus coronarium , rustico e generoso, originario dell’Austria (forse viene anche lui dalle Alpi come le sue ex-parenti “rompirocce”?).

Ravanello selvatico

Raphanus raphanistrum

Raphanus raphanistrum

Si chiama Raphanus, ma non ha molto in comune con il rafano o cren, armoracia rusticana, se non ovviamente la famiglia che è quella delle brassicaceae. Invece è parente stretto del ravanello, Raphanus sativum, la piccola e piccante rapa rossa da insalata.
Questo ravanello selvatico è assai comune ai margini delle strade, con quei suoi fiori da broccoletto, ma più larghi e con le venature scure. Quello della fotografia è Raphanus raphanistrum L. subsp. landra, la sottospecie a fiori gialli, frequente infestante delle colture, mentre Raphanus raphanistrum L. subsp. raphanistrum ha fiori bianchi, molto simili a quelli di eruca sativa, la rucola comune (13 ottobre 2008).
raphanus raphanistrum
Ma ciò che rende il ravanello selvatico assolutamente inconfondible, anche dalle altre brassicaceae gialline, che sono tante e tutte somiglianti, sono i suoi frutti, già maturi, silique lunghette, contenenti fino a 8 semi, ma strozzate fra un seme e l’altro, come bacelli bitorzoluti (vedi foto sotto).

Sarei curiosa di vedere se anche il ravanello coltivato ha simili frutti, ma del ravanello non ho in realtà mai visto neppure i fiori, impaziente com’ero di assaggiarne la saporita radice.

Anche il ravanello selvatico non tradisce la sua appartenenza alla famiglia dei cavoli, ed è pianta commestibile, utilizzata un tempo sia per le foglie che venivano consumate lesse, sia per la radice che veniva ovviamente usata come la rapa.