Radicchio

Radicchio Hyoseris radiata

Radicchio
Hyoseris radiata

Hyoseris radiata è un’altra pianta alimurgica, usata nella zuppa lucchese di magro e certamente anche nel preboggion ligure. Riprendo per lei un post antico del mio vecchio blog (11 marzo 2010), a cui voglio dare una nuova visibilità.

Siamo nella stagione della raccolta delle erbette di campo, per chi ha tempo e fantasia per dedicarsi a questa occupazione e ai suoi sapori. Con il nome di radicchio sono conosciute erbe anche parecchio differenti fra loro, composite dai bei fiori colorati, non necessariamente gialli, come per esempio Cichoria intybus che il fiore ce l’ha azzurro. E’ sempre naturalmente il nome scientifico che fa testo, mentre i fiori non contano perché per lo più quando la pianta è fiorita le foglie non sono più buone a nulla.  Nel caso di questa pianticella, le foglie sono inconfondibili, stracciate in segmenti a dente, che tendono a sovrapporsi. Per il resto è un’altra margherita gialla, la corolla luminosa, solare, singola sullo stelo come il tarassaco, ma più esile di quello.

Mandragora

Mandragora autumnalis

Mandragora autumnalis

L’assolata costa siciliana, in un novembre che aveva i colori dell’estate, mi ha regalato il primo incontro della mia vita con un’erba magica che pensavo non avrei mai incontrato. La specie più famosa, Mandragora officinarum L., dalla fioritura primaverile, non si incontra più in Italia. La sua presunta magia le derivava non tanto dall’umore, tossico e medicamentoso, che contiene, quanto dall’inquietante e straordinaria forma antropomorfa della sua radice. Un po’ stilizzata nella stampa antica, credenze popolari le attribuivano virtù afrodisiache caMandragorepaci di aumentare la fertilità.
Oggi sulle coste italiane meridionali si incontra abbastanza facilemente questa specie autunnale, dalle grandi campanule azzurre. Mescolata a erbacce di campo, non bisogna confondere la sua foglia, ampia, ovale, verde carico con ampie nervature carnose. Mi chiedo se anche la radice di questa specie ha la forma bizzarra della leggenda. Ma resterò nel dubbio, già abbiamo perduto la officinarium, proteggiamo almeno questa autumnalis senza sradicarla. E lasciamola alle farfalle.

Mandragora autumnalis

Fotografata sulla costa di Palma di Montechiaro (Agrigento), presso il castello detto del Gattopardo perchè appartenuto alla famiglia Tomasi di Lampedusa, in una mattinata limpida e fresca, prima della notte oscura di Parigi.

So poco di Palma, una piccola città sconosciuta, ornata di chiese e edifici barocchi, dove abbiamo acquistato deliziosi dolcetti di mandorla in un convento di clausura. Leggo però che questa cittadina è stata la settimana scorsa teatro di un oscuro episodio di violenza con il rinvenimento di un rudimentale ordigno nei pressi di un orfanotrofio, una bomba di piccolo potenziale esplosivo, ma certo in grado di far molto male a un bambino che l’avesse manipolata. Strane coincidenze e tristi realtà, oltre le  favole e le leggende di piante e castelli.

Ficus macrophylla, l’albero più grande d’Europa

Ficus macrophylla

Ficus macrophylla – Palermo, piazza Marina

 

Ecco un altro albero venuto da lontano e piacevolmente (per lui) acclimatato nella soleggiata Sicilia. In realtà più che semplicemente acclimatarsi, parrebbe ne abbia preso sconsideratamente possesso.

Secondo l’autorevole parere dell’Accademia dei Georgofili, riportata qui dal prof. Giuseppe Barbera, il Ficus macrophylla subsp. columnaris, di piazza Marina a Palermo con i suoi 10.000 metri cubi  di chioma fogliare è il più grande albero d’Europa. Sotto le sue chiome, la domenica mattina, si svolge un animato e piacevole mercatino delle pulci (vedi foto a destra). La specie è più conosciuta con il vecchio sinonimo, Ficus magnolioides Borzì, un nome che fa riferimento alla somiglianza della sue foglie con quelle della Magnolia grandiflora, con la quale continua ad essere confuso. Tanto che i palermitani chiamano queste piante  ‘magnolie’ ed esiste un viale costeggiato da questi fichi che si chiama appunto Viale delle Magnolie.

Ma è naturalmente nell’orto botanico, dove non mancano altri esemplari che contendono il primato al gigante di piazza Marina, che tutta la storia dei fichi magnolioidi palermitani è cominciata. E proprio lì leggo le loro gesta.

Ficus macrophylla subsp. columnaris

Ficus macrophylla subsp. columnaris – Orto botanico di Palermo

Nel suo ambiente naturale, l’isola di Lord Howe in Australia, il Ficus macrophylla subsp. columnaris comincia la sua vita come ‘epifita’, ovvero avvinghiandosi ad altre piante senza tuttavia diventarne un vera e proprio parassita. Gli uccelli si cibano dei suoi frutti e trasportano i semi disperdendoli sui rami più alti, dove essi germogliano. Dopo un breve tempo di crescita, le giovani piante emettono radici aeree che si spingono fino a terra trasformandosi in pseudo tronchi che sostengono e nutrono la pianta. Questi pseudo tronchi si fondono insieme formando una gigantesca e compatta massa legnosa indistinta che progressivamente ingloba e inviluppa la malcapitata pianta ospite. L’albero possiede anche delle grandi radici tabulari a forma di lama che principalmente servono a mantenere l’equilibrio. Queste radici emergono dal terreno spesso estendendosi fino a lunga distanza.  Le foglie coriacee hanno la lamina superiore glabra di colore verde scuro e quella inferiore lanuginosa e color ruggine. Le infiorescenze, siconi o fichi, sono raggruppati alla sommità dei rami. Esse non producono frutti in Italia perchè manca l’insetto impollinatore specifico (1).

Ficus macrophylla

Particolare dell’enorme tronco di Ficus macrophylla dell’orto botanico

L’esemplare delle foto fu introdotto nell’orto botanico all’inizio del 1800. Da qui si è diffuso e sparso in tutti i parchi e giardini della costa siciliana. Oggi si incontrano comunemente individui di proporzioni monumentali la cui crescita esuberante ha irreparabilmente trasformato l’ambiente immediatamente circostante, comprese le costruzioni. Insieme al Ficus aurea, una specie originaria della Florida e ad altre specie di varia provenienza, questo Ficus costituisce un gruppo noto come ‘fichi strangolatori’ o ‘necat plantas‘, piante assassine, in ragione delle loro abitudini di crescita aggressiva, nella quale inglobano ogni altra pianta o materiale che trovano sul loro cammino.

Ricordo che si può, anzi si deve, cliccare sulle immagini per vederle più grandi

(1) La straordinaria storia dell’impollinazione dei fichi è raccontata nel bellissimo libro di Giuseppe Barbera “Tuttifrutti”  Mondadori, 2007

Ceiba a Palermo

Ceiba speciosa

Ceiba speciosa

Ceiba speciosa

Ceiba speciosa

 

Ceiba speciosa, detta albero bottiglia o addirittura “palo boracho” cioè albero ubriaco, cresce in Sicilia con prorompente vitalità. E’ capitato spesso che specie importate da luoghi esotici si siano acclimatate fin troppo bene sulle coste mediterranee, soprattutto nel sud. Quest’albero però è bello, ed originale, e si fa voler bene. Fiorisce a profusione fino a novembre inoltrato e i suoi fiori sono grandi, pesanti e riccamente colorati, dal bianco al giallo, al rosa fino al lilla più intenso. Originario del Sud America, è stato importato nel secolo XIX nell’orto botanico di Palermo da dove si è diffuso nelle zone vicine. Nell’orto botanico, ci sono ampi viali di Ceibe, alte sui loro curiosi tronchi bombati e ricoperti di spine legnose. La incontro di nuovo sul belvedere di Monreale, accanto allo storico chiostro, da dove si gode una vista spettacolare sul golfo di Palermo.

Ma già la conoscevo, come Chorisia speciosa, il suo nome precedente, e se non ne avevo visto i fiori, ne avevo incontrato le bacche, e le spine, nei pressi della villa Pallavicini di Pegli (Genova) e precisamente di fronte al Museo Archeologico ligure (vedi post del 9 gennaio 2010).

Ceiba speciosa

Viale di ceibe all’orto botanico di Palermo

Ceiba speciosa

Ceiba a Monreale


Come dicevo allora, ” il suo robusto tronco tende a gonfiarsi in modo curioso, assumendo un po’ la forma di otre. E’ proprio a causa di questa proprietà che può essere chiamato albero bottiglia, soprannome che condivide con altre piante, sempre tropicali, ma alquanto diverse, come Brachychiton discolor (vedi 16 settembre 2008).  La corteccia del fusto e dei rami è cosparsa di spine, coniche, non saprei dire quanto pungenti, ma certo fastidiose per gli intrusi che volessero avventurarsi a scalarla. I frutti sono grosse capsule e costudiscono i semi racchiusi in una lanugine soffice, che può essere usata per imballaggio, tanto da meritarsi il nome di falso kapok.”

La Ceiba appartiene alla famiglia delle bombacaceae, nome che già fa pensare a una struttura bombata, insieme al mitico baobab, alla cugina Ceiba pentandra, da cui si ricava il vero kapok,  e a vari altri ‘alberi del cotone’, come l’indiana Bombax ceiba (28 febbraio 2010).  E’ grazie al fantastico clima delle nostre coste che possiamo vedere da vicino alcune di queste meraviglie della lussureggiante natura tropicale.

Aconito, l’erba veleno

Aconito azzurro

Aconito screziato
Aconitum variegatum

L’aconito sfoggia dense spighe di grandi fiori blu dall’elegante forma di elmo o di cappuccio. Fra i suoi nomi inglesi c’è proprio monkshood, cappuccio di monaco. Ma anche devil’s helmet, elmo del diavolo, perché la fama di questa pianta, piuttosto comune in tutta l’Europa temperata, dai Balcani alla Francia all’Ucraina e pure apprezzata come ornamentale, non è certo legata alla sua bellezza. L’aconito, si legge un po’ ovunque, è la pianta più velenosa presente nella flora europea e la sua lunga storia è costellata di aneddoti funesti. C’è chi lo ha scambiato con il rafano e ha grattugiato la sua radice per accompagnare l’arrosto e chi l’ha sgranocchiata ingenuamente durante una gita sui monti. Pochi hanno riportato testimonianza di che cosa sappia.
Doveva essere noto anche in Grecia, perché greco è il suo nome. L’etimologia è controversa, ma qualsiasi ne sia l’origine è certissimo che il primo significato è “erba velenosa”. I nomignoli gli fanno il verso, veleno di lupo, veleno di leopardo, veleno di topo e persino veleno di donna.

Aconito Aconitum napellus

Aconitum variegatum

Ho già parlato della sinistra fama dell’aconito giallo, suo fratello più rustico e forse meno avvenente, ma altrettanto perfido.

Di questa specie, forse A.variegatus, di una tonalità fra il celestiale e l’angelico, una fioritura sterminata ornava i bordi di una strada collinare della Val Brevenna verso la fine del mese di agosto.

La tossicità dell’aconito deriva dalla presenza di alcaloidi, principalmente aconitina e nepalina, che sono fra i veleni vegetali più potenti che esistono. Essi si legano a proteine essenziali per la conduzione nervosa e il funzionamento del cuore. Questa stessa pianta tuttavia è utilizzata come farmaco nelle medicine tradizionali, prima fra tutte quella cinese, che indica varie metodiche per ridurne la tossicità. Le specie usate dalla medicina cinese sono differenti da quelle europee e sono A.kusnezoffii e A.carmichaeli, ma il loro aspetto è veramente simile alle nostre specie.  L’aconitina viene menzionata già nel più antico libro di fitoterapia cinese, Shennong Bencao Jing ( 神农本草经 ), un trattato la cui origine è leggendaria, ma la cui edizione è storicamente collocata fra 200 avanti Cristo e 200 dopo Cristo. Catalogato fra le medicine ad azione violenta, l’aconito è consigliato in casi critici, malattie croniche e di difficile eradicazione, ed anche in tempi decisamente più moderni ne è riconosciuta l’efficacia come anti-infiammatorio, analgesico e antitumorale. La strategia che permette di recuperare queste virtù salutari da un preparato così tossico è appassionante come una formula magica. Si parla di immergere in acqua e sale per giorni, bollire, cucinare a vapore, e soprattutto combinare con altre sostanze, liquirizia, soia, peonia, zenzero, rabarbaro, cannella, che hanno il potere di neutralizzarne il veleno. Quello che chimicamente avviene mediante questi trattamenti è una reazione di idrolisi, ovvero la decomposizione degli alcaloidi diterpenoidi diestere in alcaloidi monoestere, meno tossici, fino agli alcaloidi diterpenoidi non-esterificati che non presentano più tossicità. L’aconitina diventa aconina e si converte da strega in fata buona. Ma che ne è della sua efficacia? I cinesi sono convinti che ne mantenga abbastanza per fare dell’aconito un rimedio significativo per malattie cardiache, reumatiche e nella terapia del dolore. D’altronde che servirebbe una medicina che uccide il paziente? Si rammaricano tuttavia i cinesi di non essere ancora riusciti a convincere gli occidentali che i loro metodi di detossificazione siano sicuri ed efficaci e che ancora dalle nostre parti si preferisca guardare quest’enigmatica affascinante ranuncolacea da opportuna distanza.

Lupino ornamentale

Lupinus polyphyllus

Lupinus polyphyllus


 
Negli ultimi anni ho avuto diversi lupini da fiore in giardino, affini a quel Lupinus polyphyllus che avevo mostrato dopo la fioritura in un giardino botanico polacco (agosto 2010). Quello della foto a destra è nato da una bustina di semi comprata nel 2010 in California, seminato l’anno dopo, è fiorito nell’anno successivo, ma per sole due stagioni. Questo specie di lupino, originario proprio del Nord America, non è una specie pura, ma un ibrido ottenuto dal vivaista inglese George Russel e dovrebbe essere perenne. Ho però ricavato molti semi e l’anno scorso ho provato a seminarlo di nuovo. E’ stato allora che ho imparato a mie spese come il lupino sia, insieme ad altre fabaceae, in primo luogo i piselli, pianta molto gradita a lumache e chiocciole, che si sono moltiplicate in maniera impressionante negli ultimi anni nel mio giardino. Nonostante le attenzioni, e con mio grande dispiacere, nessuna piantina dell’anno scorso è sopravvissuta  all’attacco.
Quest’anno ci ho riprovato e ho per ora ottenuto quattro piantine, figlie del californiano a fiori blu, che sono ancora in vasetto, mentre ho acquistato una pianta nuova, che è cresciuta felicemente per il primo mese, regandomi una splendida fioritura rosa acceso. Per poco tuttavia perchè di nuovo i voracissimi molluschi sono tornate alla carica e hanno divorato le basi dei fiori, spezzandoli entrambi in una notte. Tragedia!! Temevo di non salvare il lupino e ho dovuto, mio malgrado usare l’odiatissimo veleno per lumache a palline blu. Lotta impari per le povere chicciole, che tuttavia avevano meritato una lezione. Il lupino rosso, ferito e mutilato, è riuscito con grande coraggio a fiorire nuovamente, un’infiorescenza più piccola e pallida, che ha prodotto almeno due baccelli e forse, quindi, altri semi. Se la mia lotta contro le lumache sarà vittoriosa, potrei avere lupini ornamentali di due colori diversi in qualche anno a venire.

 

Lupinus  polyphyllus

Lupinus polyphyllus

Lupinus  polyphyllus

Lupinus polyphyllus

Reichardia grattalingua

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Lattughino, insalatina di monte, grattalingua, caccialepre, caccialebbra, latticino, terracrepoli, latticrepolo, paparrastello, più un centinaio di nomi dialettali, è una delle erbette spontanee più ricercate per l’impiego alimentare. Regina del prebogiòn, la mescolanza di erbe selvatiche commestibili usata in Liguria per minestre e ripieni, ingrediente del mazzo delle erbe spontanee della zuppa lucchese di magro, consumata fresca, ma più frequentemente lessa, è apprezzata per il sapore particolare di ‘olive nere’. Ha inoltre proprietà officinali, depurative e lassative.

Reichardia picroides

Reichardia picroides

Eppure ne ho cercato inutilmente informazioni e notizie su testi commerciali per il riconoscimento delle piante che, forse perchè il suo aspetto è così ordinario, frequentemente la ignorano. I testi più competenti, invece, ricordano che di questo genere esistono in Italia due specie, la R.picroides, pianta perenne, comune e diffusa quasi ovunque nella penisola, e la R.tingitana, grattalingua marocchina, endemica delle isole pelagie di Linosa e Lampedusa, oltre a una varietà intermedia, annuale e apparentemente davvero simile a quella più comune. Come pianta alimentare, stranamente, persinoPrimo Boni nel suo “Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche” non la menziona. Credo che sia una svista, invece nei testi di etnobotanica locale ha inevitabilmente un posto di rilievo. E se lo merita. Qui a destra, alla mostra di erbe commestibili dell’Accademia della Zuppa Lucchese di magro, Mura infiore, Lucca marzo 2015

Camassia

Camassia cusickii

Camassia cusickii

Pianta americana, è arrivata nel mio giardino in un grande pacco di bulbi, regalo della mia amica polacca, o meglio di sua madre, esperta giardiniera. Tutti questi bulbi, crochi precocissimi e tulipani dai colori inaspettati, scille a campanelle di ogni dimensione e colore, hanno forse una stagione più lunga nei freddi climi polacchi. Splendidi e stupefacenti, molti di loro compaiono e scompaiono nel giro di pochi giorni nella nostra primavera. Così questa camassia, simile ai lilioasfodeli dei nostri prati, un tempo membri tutti, come i giacinti,  delle Hyacinthaceae, ora appartiene, secondo la moderna classificazione, alla famiglia delle Asparagaceae, in compagnia di agavi e asparagi. Gli asfodeli propiamente detti sono invece transitati per la famiglia delle Asfodeliaceae, per approdare, insieme alle aloe, nelle Xanthorrhoeaceae. Ricordare le classificazioni non è per me sterile esercizio di memoria, ma è un aiuto creativo per ricordare nomi e storie dei fiori.

Camassia, semi

Camassia cusickii, semi


Tornando alla camassia, i suoi tuberi sono biancastri, come quelli delle scille, e gli steli alti, con pesanti infiorescenze. Ci si aspetta una fioritura esplosiva, ma i fiori, bianchi nella C. cusickii, specie a cui attribuisco la mia, sono invece sorprendentementi esili e fugaci, e scompaiono velocemente per fare posto a pesanti semi poliedrici, che viceversa durano qualche mese.
Ragiono che in questo caso l’impollinazione deve essere rapida e fortunata, di modo che i fiori hanno utilità breve. Quando anche i semi imbruniscono e cadono, restano solo lunghe foglie molli che lentamente appassiscono. Piccola stella senza cielo la camassia bianca, dura poco, ma sempre si fa desiderare.

Coride di Montpellier

Coris monspeliensis

Coris monspeliensis

E’ arrivato il tempo della gita a Dolcedo per rinnovare le nostre scorte d’olio d’oliva. L’anno passato non è stato un anno positivo per la raccolta delle olive, ma le colline imperiesi hanno resistito alla cattiva sorte e, seppure più costoso, l’olio c’è. La gita è molto piacevole perchè l’ambiente e la stagione sono fra i più favorevoli per le scoperte botaniche. Dopo una tappa a Civezza, piccolo borgo alle spalle di Imperia che ancora non conoscevo, ci dirigiamo verso Dolcedo lungo la strada provinciale 79, poi SP43 e SP42. Tutto la regione ligure di ponente è conosciuta come riviera dei fiori, soprattutto per le coltivazioni, ma meriterebbe questo nome anche per le varietà botaniche spontanee e l’abbondanza delle loro fioriture. Fra tutte mi sorprende questa piccola pianta sconosciuta che ho potuto poi identificare, grazie a Carlo Cibei di actaplantarum. Appartiene alla famiglia delle Primulaceae e proprio per questo mi è stato molto difficile darle un nome, perchè a quella famiglia non avevo davvero pensato. I suoi graziosissimi, minuscoli fiori si raggruppano in racemi (forse volgarmente le chiameremmo spighette?) in cima a steli quasi legnosi, con foglie appuntite e carnosette che potrebbero ricordare quelle del sedum. Fiori privi di peduncolo, serrati nell’infiorescenza, fatto questo che, con un po’ di fatica, ne rivela la parentela con le più vistose primule. E’ pianta da giardini rocciosi, a volte assimilata, sbagliando, alle eriche nane e cresce soprattutto nel bacino del Mediterraneo occidentale, ma in Italia è presente anche in alcune regioni del Sud. Trovo notizie di lei soltanto nel bellissimo testo “Fiori di Liguria” di Nicolini e Moreschi (Ed.SIAG, Genova, vecchiotto, ma senza data) che la descrivono come “curiosa pianta cespugliosa, fedele abitatrice di luoghi aridi e di zone a substrato roccioso dove non soffe della concorrenza di specie più rigogliose che necessitano di terreni più ricchi”. Io l’ho incontrata in buona compagnia di asfodeli, orchidee e ginestre, altre piante che amano i crinali assolati e verdeggianti delle colline in odor di mare.

Geranio selvatico

Geranium dissectum

Geranium dissectum

Il nome geranio selvatico non è molto preciso; quasta specie si chiama più propriamente geranio a foglie divise o geranio sbrandellato, perchè, come suggerisce anche il nome scientifico (quello vero), la sua principale caratteristica sono le foglie profondamente incise, che assomigliano a un merletto o a un centrino di carta ritagliata. I fiori sono minuscoli, ma di colore brillante, rosa acceso, non passano inosservati. Come tutti i gerani ha singolari frutti a forma del becco di una gru (il nome del genere e anche dell’intera famiglia deriva da géranos che significa gru in greco).

Cresceva indisturbato in un vaso, insieme a una calendula sopravvissuta all’inverno, e già abbondantemente rifiorita. Ho atteso che facesse i fiori, e anche qualche frutto. Poi ho deciso di destinare il vaso a qualche altra semina e questo discreto geranio è stato sacrificato alla floricultura. Non so se è giusto. Non so se è giusto mangiare i broccoli ramosi calabresi che sono le cime fiorite di brassica oleracea, esattamente come le cime di rapa lo sono di brassica rapa. Da sempre vorrei chiedere a un vegano se pensa che le piante non soffrano ad essere recise, saccheggiate, eradicate. Per cibo, coltura o cultura che sia, il sacrificio di tante piante sta nell’ordine delle cose. Come le lumache che mi hanno divorato le lattughe, e ahimè, anche un bellissimo lupino rosso che si apprestava ad aprire fiori spettacolari. Come il fungo armillaria che mi ha ucciso un piccolo melo che produceva un’impressionante quantità di frutti dolcissimi. Sarà che più conosco gli animali, più amo le piante, ma la scelta vegetariana stretta in base a motivi squisitamente etici mi pare vagamente  contro natura. Io mangio verdura, il che comporta anche l’assassinio di molte piante o comunque la loro mutilazione, perchè la verdura è buona e fa bene, perchè la verdura è un alimento più ecocompatibile e più sano. Ma uccidere animali per mangiare sta semplicemente nell’ordine naturale e non mi pare condannabile di per sè.

Geranium dissectum

Geranium dissectum
foglia

 

Geraneum dissectum

Geraneum dissectum
frutti

Per questo piccolo geranio, chiedo perdono anche se non lo merito. Amo molto i gerani selvatici tutti (vedi elenco dei post che ne trattano in calce) perchè mi sembrano più liberi e puri dei pur generosissimi pelargoni (25 febbraio 2009) che fioriscono sui balconi di tutto il mondo. I gerani sono piccole piante con fiori graziosi e garbati, per fortuna piuttosto resistenti all’estinzione, diffussissimi direi, e alcuni di loro, come l’erba Roberta, decisamente infestanti.

 

Per ricordo, ecco varie immagini di questa pianta e i link ad alcuni (un bel po’ di) gerani menzionati in questo blog, vecchio e nuovo.

 

Geranio robertiano o Erba roberta, Geranium robertianum – 30 aprile 2008
Geranio crestato, Geranium macrorrhizum – 12 giugno 2010
Geranio comune, Geranium molle – 27 marzo 2010
Geranio lucido, Geranium lucidum – 6 maggio 2011
Geranio malvaccino, Geranium rotundifolium – 3 maggio 2010
Geranio minore, Geranium pusillum – 3 maggio 2010
Geranio nodoso, Geranium nodosum – 16 maggio 2009
Geranio sanguigno, Geranium sanguineum – 5 giugno 2010