Finalmente l’ho trovata, senza ombra di dubbio, la ginestra dei carbonai, nel parco Burcina (Biella). Assomiglia, ma non troppo alla ginestra maggiore (27 maggio 2008), o sparzio, quella che tinge di giallo le colline di maggio. Anche la ginestra dei carbonai, cytisus scoparium, a giallo non scherza e ha fiori brillanti e lucidi su rametti verde scuro, quadrangolari, ornati di piccole triplici foglie tondeggianti. Il legume termina con una filamento a viticcio. Ha molteplici usi domestici, oltre a quello tradizionale di farne scope per pulire, per esempio, le canne fumarie. Veniva usata per coprire il tetto delle capanne, per coperture e paraventi, per legacci e sarmenti, per accendere il fuoco e per riparare le piccole piante dal sole. Era la ginestra più domestica, salutata con gioia perchè si diceva, penso con qualche fondamento, che una ricca fioritura di ginestre promettesse un’abbondante vendemmia. Tante cose ancora su questa ginestra, la ginestra ‘buona’. Per rito o per scienza veniva impiegata come erba officinale, nonostante la presenza di una moderata quantità di sostanze tossiche. Digestiva e diuretica, contro l’ipertensione e cardiotonica, persino indicata per contrastare il morso della vipera e per curare le verruche. Curativa anche per il bestiame, in Maremma ne legavano i rami alla bocca di pecore e capre per curarle dall’indigestione, e cibo per i conigli. Il vero pericolo è confonderla con lo sparzio, che è una pianta molto velenosa. Ma lo sparzio forma cespugli più alti, ha steli rotondeggianti e, quando è fiorito, è privo di foglie.
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Silene dioica
Questa volta ci siamo, deve essere proprio lei, Silene dioica, che si chiama anche Melandrium dioicum ovvero licnide. Vicino casa trovo soltanto Silene alba o meglio latifolia subsp albae, così è capitato che mi sia confusa (28 novembre 2009).
Questa pianta, molto pelosa, rossiccia nel fusto e nelle foglie, deliziosamente rosa brillante nel fiore, l’ho trovata in Piemonte, davvero non molto lontano da casa. Essendo pianta dioica, porta fiori maschili e femminili che tuttavia non mi pare presentino caratteri morfologici distinti, a parte, ovviamente, l’apparato riproduttivo. Come tutte le silene, nonostante l’innegabile grazia e delicata bellezza da fiore di campo, deve il suo nome a un personaggio grottesco, Sileno, maestro e seguace di Dioniso o Bacco. Così lo descrive la mitologia: un essere biforme, sempre ubriaco con il corpo umano enormemente gonfio di grasso, con orecchie e coda di cavallo, e cavalcante un asino , sul quale sempre trasporta un otre pieno di vino. La somiglianza con una creatura tanto brutta la dolce silene la deve al calice rigonfio, che la rende inconfondibile, nelle sue varie specie.
La silene è anche pianta commestibile, le foglie si consumavano lesse nelle minestre e nelle torte di verdura; e come una sua parente, la saponaria, che è della stessa famiglia, ma è velenosa, la radice mescolata con l’acqua veniva usata come succedaneo del sapone.
Boccione maggiore
Il nome scientifico di questa bella asteracea di campo, Urospermum dalechampii, significa ‘seme con la coda’ e la ragione è ancora una volta la forma del frutto, che in questo caso è un achenio particolarmente lungo. L’attributo specifico è un omaggio al grande studioso di botanica Dalechamps.
Per non confonderla con il tarassaco e altre margherite gialle solitarie, basta guardare i boccioli, tondi tondi, che nella fantasia popolare ricordavano le mammelle. O i capolini giallo brillante, con le ligule esterne vistosamente macchiate di rosso bruno. L’ho sempre trovato un fiore bellissimo.
Si chiama anche lattugaccio o radicchione perchè le sue foglie sono erba commestibile, anche se piuttosto amare. Da lessare insieme ad altre erbe e usare nei ripieni di verdura della pasta.
Rosa
Barba di becco violetta
Questa fotografia non rende giustizia a questo bel fiore di campo, modesto ed elegante, dal colore caldo e raffinato, la forma precisa e nitida. Le foglie, sottili e lanceolate, sembrano erba. I capolini sono ampi e solitari, con petali rosso viola, ornati da un’aureola di bratteee, più lunghe dei petali. Tutto questo si vede un poco in questo esemplare quasi sfiorito, ma ancora nobile e prestante, come un vecchio signore che non rinuncia alla sua classe.
La primavera è anche questo, fiori di rara bellezza che si disfano rapidamente, così che il loro aspetto non possa mai essere noioso come la gelida perfezione di ciò che non è vivo. Ma anzi lascino al loro sfiorire l’ansia di tornare a rivederli ancora.
Come già dicevo il 16 giugno 2008 a proposito della barba di becco comune, il nome tragopogon ha significa proprio barba di capro, per via dei semi alati di pappi che ne assicurano la dispersione nel vento. La barba di becco è una pianta commestibile, addirittura prelibata come insalata cruda o verdura cotta. Soprattutto era ricercata la radice, definita dalgi arboristi ‘di sapor dolce e ricca di latte mucoso e nutrientissimo’ e venduta nei mercati di ortofrutta come scorzonera bianca o raperonzolo selvatico. Il genere ha anche virtù terapeutiche, emollienti ed espettoranti.
Quando i capolini si chiudono, dopo il sole di mezzogiorno, e quando è finita la loro breve stagione, il fiore assume una forma conica che lo rende inconfondibile. Ma il fiore non resta chiuso a lungo, poco dopo le bratte si riaprono, e compare un soffione a forma di sfera, formato dagli acheni, ciascuno con il suo pappo piumosetto, simile a un paracadute.
Geranio lucido
Un tipo di geranio un po’ singolare, con le sue foglioline, manco a dirlo, lucide e il calice costoluto, come rigonfio. I botanici invece direbbero che ha semplicemente i sepali acuminati con tre nervi longitudinali e 5 coste trasversali. Diffuso in tutte le regioni, non è una piante molto comune. Un’altra aggiunta alla varietà incredibile sul tema del geraneo.
Fotografato nel parco esterno di villa Lante di Bagnaia (Viterbo), maggio 2010.
Fior d’angelo
L’ho per molto tempo confuso con la vegelia, ma non appartiene neppure alla stessa famiglia. Questo meraviglioso arbusto da giardino è della famiglia delle Hydrangeae, cioè le ortensie. Il suo nome si potrebbe tradurre ‘fiore dell’amore fraterno’, ma per qualche ragione è più noto come fior d’angelo, per il colore immacolato della cascata di fiori o anche come siringa (ma syringa vulgaris è invece il nome scientifico del lillà). Questa pianta ha una storia antica e complicata ed è stata in passato inserita nella famiglia delle Saxifragaceae, le piante delle rocce (letteralmente ‘che rompono i sassi’). Anche il nome potrebbe avere origini quasi mitologiche, oppure semplicemente legate al profondo profumo, profondo, secondo alcuni, proprio come l’amore fraterno.
Superfluo dire che lo vorrei in giardino e che brucio d’invidia ad ammirarne la fioritura voluttuosa che sporge dal muretto di una casa vicina. Sono questi arbusti che fanno unici e irripetibili i giardini di maggio. Esistono molte specie di philadelphus, anche se il più comune, spontaneo in varie regioni italiane è il philadelphus coronarium , rustico e generoso, originario dell’Austria (forse viene anche lui dalle Alpi come le sue ex-parenti “rompirocce”?).
Ravanello selvatico
Si chiama Raphanus, ma non ha molto in comune con il rafano o cren, armoracia rusticana, se non ovviamente la famiglia che è quella delle brassicaceae. Invece è parente stretto del ravanello, Raphanus sativum, la piccola e piccante rapa rossa da insalata.
Questo ravanello selvatico è assai comune ai margini delle strade, con quei suoi fiori da broccoletto, ma più larghi e con le venature scure. Quello della fotografia è Raphanus raphanistrum L. subsp. landra, la sottospecie a fiori gialli, frequente infestante delle colture, mentre Raphanus raphanistrum L. subsp. raphanistrum ha fiori bianchi, molto simili a quelli di eruca sativa, la rucola comune (13 ottobre 2008).
Ma ciò che rende il ravanello selvatico assolutamente inconfondible, anche dalle altre brassicaceae gialline, che sono tante e tutte somiglianti, sono i suoi frutti, già maturi, silique lunghette, contenenti fino a 8 semi, ma strozzate fra un seme e l’altro, come bacelli bitorzoluti (vedi foto sotto).
Sarei curiosa di vedere se anche il ravanello coltivato ha simili frutti, ma del ravanello non ho in realtà mai visto neppure i fiori, impaziente com’ero di assaggiarne la saporita radice.
Anche il ravanello selvatico non tradisce la sua appartenenza alla famiglia dei cavoli, ed è pianta commestibile, utilizzata un tempo sia per le foglie che venivano consumate lesse, sia per la radice che veniva ovviamente usata come la rapa.
La stagione degli iris
La fioritura degli iris dura poco, per ciascun fiore non più di una settimana, per una pianta intera solo poco di più. Gli ultimi a fiorire, in ordine di tempo, sono le varietà dette ‘olandesi’. Questi iris non sono in verità originari dell’Olanda come piante spontanee, ma sono ibridi realizzati da un vivaista olandese utilizzando varie specie, fra cui i. xiphium and i. lusitanica. Quest’ibrido ha avuto molta fortuna non soltanto per l’avvenenza, ma anche per la varietà di colori con cui si presenta e la facilità di coltivazione. Tutti gli iris, ma soprattutto i giaggioli, o iris barbata, si prestano molto per le ibridazioni. Con un po’ di garbo e un pizzico di fortuna, anche il giardiniere dilettante può realizzare il suo ibrido personale, strofinando lo stigma di una pianta con il polline di un’antera matura di un’altra. Nel giro di due o tre mesi, i frutti raggiungeranno la maturazione e si potranno ricavare i semi. Ma per vedere il risultato vero e proprio, cioè il fiore frutto dell’incrocio, si devono aspettare almeno due anni e naturalmente non è affatto garantito che il risultato sia all’altezza delle aspettative. Però si tratterà di un fiore tutto nostro, qualcosa che prima non esisteva, che è stato creato da noi. (per saperne di più: G.Batini e M.N. Batini Presenti – Divertirsi con le piante – Vallecchi Ed. 1987 – libro di veramente piacevole lettura)
L’iris olandese è sbocciato nel mio giardino da un bulbo che mi ha regalato Irena, la mia amica polacca, insieme agli agli. L’iris giallo qui a fianco invece sembra cresciuto per caso, a ridosso di una rete di recinzione di un campo, in mezzo alla parietaria e sotto i viticci di una passiflora. Alto, giallo, altezzoso, come un nobile fra la spazzatura.
Sia che crescano super coccolati nei giardini, sia che sboccino quasi randagi sui bordi della strada, gli iris quando fioriscono non badano a spese e si ricoprono di un’eleganza sfacciata. E così accade che gli si perdoni di quelle lunghe foglie nastriformi e stoppose, l’unica cosa che ci resta di loro per tutto il resto dell’anno.
Becco di gru maggiore
E’ il becco di gru più grande, il fiore più largo di tutti quelli del genere Erodium, con petali fino a 8 mm di lunghezza, di un vivo colore fra il blu e il lilla. Anche il becco di grù è pianta officinale e per le sue proprietà doveva essere un tempo ricercata appositamente, anche se non deve essersi mai fatta molto desiderare. Infatti cresce un po’ dappertutto, nei campi e prati di tutte le regioni, ma anche nelle aiuole delle periferie, e sul bordo di strade ed autostrade. Questo genere, tuttavia, non è frequente dalle mie parti (alture di Gernova) e l’ho fotografato in Lazio, in un prato a Palombara Sabina (Roma). La singolare forma dei suoi frutti, comune a tutte le geraniacee, ma molto pronunciata per Erodium, gli ha meritato un nome che significa letteralmente ‘airone cicogno’.