Cardo mariano

Cardo mariano - Silybum marianum

Silybum marianum
Cardo mariano

Quest’erbaccia che cresce selvatica nel greto del torrente Bisagno è una pianta medicinale usata da migliaia di anni come rimedio per le affezioni più diverse.  E’ un cardo molto pungente, con grandi foglie verde scuro brillante, solcate da profonde venature bianche e ornate di spine robuste.  Il suo nome scientifico, Silybum, deriva dal grevo silibon, un termine usato per indicare appunto i cardi, mentre  l’epiteto specifico marianum è legato a una leggenda, che vorrebbe le foglie screziate di bianco perchè macchiate dal latte della Vergine durante la fuga in Egitto.  Il nome volgare, cardo mariano, nuovamente ricorda la Madonna, mentre il nome comune inglese è “milk thistle”, cardo del latte, oppure “wild artichoke”, carciofo selvatico, perchè al carciofo assomiglia davvero.

L’intervento della Madonna forse non si è limitato a colorare le foglie, ma ha concesso a questa pianta qualità eccezionali dal punto di vista farmacologico, riconosciute anche dalla moderna medicina scientifica. Dai suoi frutti, i piccoli acheni che sono contenuti nell’infiorescenza a capolino globoso, si ricava un estratto, detto silmarina, che agisce come antiossidante riducendo la produzione di radicali liberi e l’ossidazione lipidica ed è anche capace di bloccare il legame di tossine ai recettori presenti sulle membrane degli epatociti, le cellule del fegato.  La silmarina è un efficace epatoprotettore, utile nelle cirrosi, nelle epatiti virali acute e croniche, nelle malattie dovute all’abuso di alcool e a sostanze tossiche, persino come antidoto nel terribile avvelenamento causato dal fungo Amanita phalloide.

Cardo mariano - Silybum marianum

Silybum marianum

E’ singolare incontrare questa pianta anche sotto casa, in mezzo all’immondizia (nella foto in alto a sinistra contornata da non meglio identificati broccoletti),  mentre in passato  l’avevo vista soltanto in Sardegna e pensavo che in Liguria fosse rara. Forse lo è, ma le piante vanno e vengono e come vagabonde bisogna accettarle. Ci vuole molto poco a far viaggiare le piante e delle loro peregrinazioni, talvolta ovvie e talvolta impreviste, si sono occupati molto i botanici.  Leggo che il cardo mariano è specie mediterranea e tipicamente europea, ma coltivata come specie alimentare da moltissimi secoli,  fu portata in America dai primi coloni; così che oggi si è naturalizzata ed è diventata infestante anche laggiù.

La Zelkova di Maria Luigia

Zelkova carpinifolia

Zelkova carpinifolia
Reggia di Colorno

Il palazzo ducale, meglio conosciuto come reggia di Colorno, vicino a Parma, ha una storia travagliata e affascinante, durante la quale si sono intrecciati i destini di molte nobili famiglie, dai  Sanseverino e Sanvitale, ai Farnese, ai Borboni, fino a Maria Luigia d’Austria, moglie del deposto imperatore di Francia Napoleone.  Simili vicende travagliate ha vissuto il grande giardino, fra sfarzi, rifacimenti e abbandoni.  Nato come giardino all’italiana, poi modificato alla francese,  fu proprio Maria Luigia che volle trasformarlo in un giardino inglese, arricchendolo di essenze rare e ricercate, fra le quali spicca la Zelkova carpinifolia, importata dalle regioni del Caucaso in Europa all’inizio del 1800.  Questo grande albero, che ancora prospera in fondo al vasto parterre, deve il suo nome specifico alla forma delle foglie, che assomigliano a quelle del carpino.  Appartiene alla famiglia degli olmi, Ulmaceae, che ricorda per una leggerissima asimmetria nell’attaccatura della lamina fogliare.  Esemplare di notevoli dimensioni e in posizione dominante dinanzi all’imponente costruzione regale, è particolarmente affascinante perché appare  scavato all’interno e rinato dalle sue stesse viscere.  Il possente tronco spaccato alloggia e nutre  nuovi virgulti,  fusti slanciati e giovinetti, arricchiti di foglie fresche nell’incipiente primavera.
Zelkova carpinifolia
Dopo Maria Luigia, il destino della villa e del parco è ancora più disperato e contorto. Dal 1871, il palazzo fu sede di un ospedale psichiatrico, allora si chiamavano manicomi, che arrivò ad ospitare più di mille degenti dopo la seconda guerra mondiale ed fu dismesso negli anni ’70 del ‘900 dopo la legge Basaglia. Solo in tempi relativamente recenti il palazzo e il giardino sono stati ristrutturati e riportati agli antichi fasti per essere ammirati da visitatori e turisti. L’interno è alquanto spoglio perchè depredato dalla contorta storia di qualsiasi ricordo del suo passato. Ma l’albero antico sopravvive. Non so quando il tronco della centenaria Zelkova, testimone attento e silenzioso di tante miserie umane, si sia aperto e spaccato. D’altronde questo è il destino degli alberi antichi, narratori di infinite storie a chi è capace di ascoltarli.

Zelkova carpinifolia
Zelkova carpinifolia è uno delle tre specie di questo genere presenti nell’Eurasia occidentale.  Le altre due sono Z.sicula, endemica della Sicilia e Z.abelicea, endemica di Creta.  Quindi questa l’unica specie non mediterranea ed è anche più strettamente imparentata con le specie dell’estremo oriente (Z. serrata, Z. schneideriana e Z. sinica). Inoltre è una delle specie più antiche, considerata insieme a Z.serrata capostipite del genere(1).

(1)Naciri et al. Species delimitation in the East Asian species of the relict tree genus Zelkova (Ulmaceae): A complex history of diversification and admixture among species. Mol Phylogenet Evol. 2019 134:172-185.doi: 10.1016/j.ympev.2019.02.010.

Globularia

Globularia bisnagarica

Globularia bisnagarica

 

Pianta dai molti nomi, quasi uno per ogni regione d’Italia dato che è presente ovunque, conviene chiamarla con il suo nome universale di Globularia, attribuito semplicemente per la forma.  Il nome di questa specie dovrebbe essere vulgaris, essendo certamente la specie più comune,  ma in realta è bisnagarica, di etimologia astrusa(1).

Caratteristica del genere è la presenza di un glucoside, la globularina, che ha una decisa azione purgante, e come tale veniva impiegato dalla medicina popolare, insieme ad altre sostanze, fra cui la  globulariacitrina,  che hanno proprietà stimolanti simili a quelle della teina, ma che possono diventare tossiche a dosi elelvate.

(1)Tutte le fonti suggeriscono che derivi da un nome di origine Nahuat (Messico centrale), che significa circondato da raggi, nome attribuito a una cactacea irta di spine, la Echinocactus visnaga.

Kerria japonica, rosa giapponese

Kerria japonica

Kerria japonica ‘Pleniflora’
monte di Portofino

La Kerria japonica è una rosa giapponese, anche se rosa propriamente non è, e deve il suo nome a William Kerr, botanico scozzese che per primo la fece arrivare in Occidente.  La ricerca delle piante esotiche fu una nobile impresa dei secoli passati che vide in prima linea i britannici, da sempre grandi appassionati di giardini. Erano i mitici cacciatori di piante che si smarrivano nell’estremo oriente divisi fra la passione per la botanica e quella per l’avventura. Dapprima furono i missionari a inviare in patria semi e tuberi di specie botaniche esotiche sia dall’America che dall’Oriente; poi i commercianti di specie ornamentali, capitanati dagli olandesi a caccia di tulipani, al centro della prima grande bolla speculativa ante litteram della storia; infine anche gli studiosi nel Settecento intrapresero viaggi sistematici alla ricerca di piante interessanti  per medicina e farmacopea, per i loro principi attivi, ma anche nuove piante alimentari, o utili per la nascente industria moderna. Moltissime nuove specie venivano esportate in Europa non più solo come seme o radice, ma comeesemplari vivi, spediti via mare grazie ai nuovi veloci Clipper britannici o sulle prime navi a vapore in vere e proprie serre da trasporto, le Wardian Case.

William Kerr era proprio un cacciatore di piante, spedito in Cina da Joseph Banks, suo maestro e superiore nei  Kew Gardens, i giardini reali britannici. Disperso, forse vittima dell’oppio, in quelle terre esotiche, ha lasciato il suo nome a questo fiore generoso che, come altree rosacee, fiorisce prima di avere sviluppato pienamente il fogliame. La cultivar più diffusa in Europa è detta Pleniflora e ha fiori doppi e globosi come ponpon gialli, con doppia fioritura in primavera e autunno, come si vede da questa fotografia, scattata in aprile, e quella che ho già pubblicato qualche anno fa in settembre.

Kerr regalò all’Occidente anche un’altra bellissima rosa orientale, la rampicante Rosa banksiae, che battezzò in onore del suo maestro e di cui parlerò un’altra volta.

Sisymbrium irio, erba cornacchia iridata

Sisymbrium irio

Sisymbrium irio
Montegrosso d’Asti

 

Addossato alla possente scarpatura della fortezza medioevale di Montegrosso d’Asti, questa pianta, esuberante e selvatica, ha già quasi esaurito la sua fioritura e sta producendo i lunghi frutti, silique torulose, ovvero cilindriche, ma alternate da strozzature e rigonfiamenti.

Il genere Sisymbrium è quello della celebre erba cornacchia o dei cantanti (Sisymbrium officinale) e anche di altre specie meno nobili, ma altrettanto efficaci, come l’erba cornacchia biancastra (Sisymbrium erysimoides), che ho trovato in città, alloctona naturalizzata in Liguria.

Questa specie, detta, ma non saprei perchè,  erba cornacchia iridata, è diffusa in tutta Italia, isole comprese. Tuttavia  non ne è documentato alcun utilizzo, ad eccezione dell’uso alimentare in Sardegna, menzionato da Aldo Domenico Atzei nel suo monumentale trattato.  Però il Sisymbrium irio, che è diffuso come pianta indigena in tutto il continente euroasiatico e nel Nord Africa, è utilizzato dalla medicina tradizionale in Pakistan e molto probabilmente nelle regioni vicine, per il trattamento di distubi gastrointestinali, delle vie aeree e del sistema vascolare(1).   Gli autori dell’articolo citato lo presentano con i vari nomi con cui è conosciuto, sia in inglese (London rocket) che in arabo (Khubba) e in urdu (khaksi, khubkalan, shaba), testimoniando quanto la pianta sia importante.  La conclusione della loro ricerca è che l’estratto dei semi ha un effetto broncodilatatore e modulatore della motilità intestinale, probabilmente a causa del blocco dei recettori muscarinici (proteine a cui si lega il trasmettitore acetilcolina, fondamentali nel funzionamento del sistema nervoso autonomo), e ha anche un effetto vasodilatatore a causa del blocco dei canali del calcio.  L’uso tradizionale (in inglese si dice folkloristico, ma questo termine in italiano mi pare fuorviante)  di questa pianta pare quindi confermato da evidenze sperimentali scientifiche, e questo ci conforta non poco.  Resta il dubbio di come mai una pianta così ricca di principi attivi e di efficacia sia completamente sfuggita alla medicina popolare del nostro paese. E’ possibile che nella regione indo pakistana la pianta presenti una composizione  un po’ diversa da quella della pianta italiana.  Il che non è per nulla sorprendente, anzi è assolutamente normale che la chimica dei vegetali dipenda in modo determinante da dove e come crescono.  Si possono trovare differenze molto significative anche in piante della stessa specie provenienti da diverse regioni italiane, o addirittura nella stessa regione. Potremmo parlare del pesto alla genovese che assume un sapore caratteristico con il basilico cresciuto sulla sponde del mar Ligure, ma non altrove, anche se  sempre dello stesso Ocimum basilicum  si tratta.  Oppure  dello zafferano d’Abruzzo, che è più ricco di crocina, un efficace antiossidante, del Crocus sativus coltivato in altre località.  Si tratta di esempi casalinghi, ma altri ne potrebbero fare gli esperti di farmacologia e fitoterapia in tutto il mondo.

(1)Hussain et al. Anti-cholinergic and Ca2+-antagonist mechanisms explain the pharmacological basis for folkloric use of Sisymbrium irio Linn. in gastrointestinal, airways and vascular system ailments. J Ethnopharmacol. 2016 193:474-480 – doi: 10.1016/j.jep.2016.09.028

Kalanchoe fiorita

Kalanchoe daigremontiana

Kalanchoë daigremontiana
Orto botanico di Roma

Kalanchoë daigremontiana

Kalanchoë daigremontiana
fioritura nell’ingresso di casa

E’ passato un bel po’ di tempo da quando ho raccolto i propaguli della foglia di questa pianta, originaria del Madagascar e il cui nome corretto è Kalanchoë daigremontiana, sulle fasce di San Fruttuoso di Camogli, come ho già descritto brevemente in questo post.  Davvero non immaginavo che sarebbe stata così generosa. Fin troppo, direbbe qualcuno.

Il nome popolare americano di questa pianta è ‘Mother of Thousands’ ovvero ‘madre di mille’ e veramente la voglia di proliferare dei propagoli  è dirompente.  Non soltanto attecchiscono subito, generando pianticelle forti e rigogliose,  ma dalle nuove foglie madre si staccano in massa nuovi propagoli  che  germinano velocemente, infestando  con voracità tutti, ma proprio tutti, vasi e vasetti in cui capitano, costringendomi a estirpi massivi per lasciare spazio alle altre piante titolari dell’alloggio.

Nel frattempo ho scoperto che questa Kalanchoë  produce dei bellissimi fiori.  Li ho conosciuti per la prima volta nel 2012, durante una visita all’Orto botanico di Roma, quando ancora i miei propaguli avevano prodotto soltanto fogliame.

In men che non si dica,  la luce e il calore della serra hanno fatto il resto.  Quando la pianta sviluppa un fusto alto e solido, comincia a fiorire.  Cascate di campanelle di un dolce rosa pastello che sfuma nel giallino albicocca, che durano mesi senza palesare segno di stanchezza o disagio.  E meraviglia delle meraviglie, quest’anno un germoglio ha attecchito in un piccolo foro del pavimento della serra ed è cresciuto, cresciuto, fino a farsi tronco e sorreggere anche lui la sua orgogliosa fioritura.

Kalanchoë daigremontiana

K. daigremontiana
cresciuta nella serra

La propagazione asessuata dalla K. daigremontiana è tuttora oggetto di studi, ma per me è soprattutto ammirevole che una pianta che ha propaguli così prolifici si spenda anche in una fioritura così intensa. Esistono specie vegetali che hanno modi di propagazione occulti e casuali, ricercati e improbabili, e specie vegetali che le tentano tutte, ma proprio tutte per riprodursi.

Benchè la K. daigremontiana sia pianta da climi miti, dato che non si spoglia, sopporta un moderato (fino a 5°C) freddo asciutto ed è alloctona casuale e anche naturalizzata in varie regioni dell’Italia tirrenica. Inconfondibile la macchiettatura della sua foglia carnosa, irresistibile l’impulso di rubarle un magico propagulo.

K. daigremontiana ha anche proprietà officinali. Le sue foglie contengono principi attivi simili a quelli delle aloe e vengono impiegate nel trattamento di infezioni e infiammazioni di diversa origine. I componenti più interessanti sono i bufadienolidi, ormoni steroidei che devono il loro nome al fatto che vennero in origine identificati nel veleno del rospo (Bufo). Questi composti hanno proprietà cardioattive, antiallergeniche e anticancro, ma sono anche molto tossici e gli estratti della pianta devono quindi essere assunti con cautela, per periodi brevi.  La pianta viene  utilizzata nella medicina antroposofica per alleviare l’agitazione psichica, l’irritabilità e l’ansia, e nella medicina cinese per alleviare il vomito e la tosse .

Pero corvino

Amelanchier canadensis

Amelanchier canadensis

Ecco i fiori dell’Amelanchier, detto anche pero corvino, sbocciati sul piccolo arbusto che cresce nel mio giardino. Avevo già mostrato i frutti acerbi nel magico parco di Burcina a Biella. Questa specie è la stessa di allora,  Amelanchier canadensis, mentre la specie che è spontanea nel nostro paese,  Amelanchier ovalis,  è  più tomentosa e con petali più sottili. Tipica rosacea, ha appena cominciato a mettere le foglie.  Messa a dimora due anni fa, forse quest’anno assaggeremo i piccoli frutti.

Veronica a foglie di cimbalaria

Veronica cymbalaria

Veronica cymbalaria

 

Oggi è il primo giorno di primavera. La primavera è una cosa meravigliosa. Il giardino si è ormai colorato parecchio, di tulipani (28 marzo 2010) e giacinti, del giallo coltivato dela forsizia (24 marzo 2009) e di quello spontaneo del tarassaco, il bianco delle iberidi perenni e l’azzurro dell’aubrezia.

Oggi è il primo giorno di primavera. Ma non ha certo aspettato la ricorrenza  la piccola veronica bianca (Veronica cymbalaria), pioniera di ogni suolo e ogni intemperie. La sua stagione di fioritura è più precoce della primavera e comincia anche a gennaio. I suoi steli sono esili, le sue foglie pelosette. me la ritrovo dappertutto nelle aiuole e anche se sono costretta a scansarla, spesso a strapparla via, non mi infastidisce, mi commuove. Assomiglia alla mia gatta Selma, fra tutte la più discreta, ma presente. La sua necessità di vita non prevarica, ma non per questo è meno temeraria di quella di tante altre piante grandi e robuste.

Magico genere quello delle veroniche, che ho già descritto, un poco, in questo post. Come allora ricordo che questa veronica deve il suo nome a una certa somiglianza con un’altra pianticella di tutt’altro genere, ma simile per carattere, la Cymbalaria muralis (16 marzo 2009)

L’inverno della bouganvillea

BouganvilleaDurante una passeggiata sulla strada di casa, scopro questo cespuglio, alto e robusto, con rami lunghi esili e spinosi, su cui spiccano avanzi di fiori, brattee di aspetto cartaceo. In mezzo alle brattee, sono incollati i frutti,  oblunghi, di forma poliedrica. La sorpresa iniziale lascia il posto a una sensazione di averla già incontrata, magari con tutt’altro, ben più sgargiante, vestito. E’ vero, l’inverno l’ha denudata, ma questo cespuglio spoglio non è altro che una bouganvillea, pianta eterea e sfarzosa che d’estate riempie di colore i muri più assolati. Poco importa che l’inverno sia, forse, già finito. Per la bouganvillea la stagione è ancora troppo indietro per cominciare a pensare alla rinascita. Non occorre neppure ricordare lo splendore della sua fioritura per riconoscere le brattee sfiorite (19 agosto 2008).  Per quanto riguarda la specie, non credo che si tratti di  B.spectabilis,  che il sito  Acta Plantarum riporta come naturalizzata. Questa pianta cresce in un giardino e mi sembra piuttostoquelle B.glabra, come classificata nei post precedenti.

Poco importa anche che le informazioni su questa, comunissima e conosciutissima, pianta esotica, anche se orai  naturalizzata, siano un po’  contradittorie.  ‘Si riproduce solo per talea e non fa semi’ …  ‘I semi della bouganville sono racchiusi in baccelli e a maturazione sono tondeggianti dal colore nero con superficie rugosa” … ‘Il frutto della bouganvillea è un piccolo achenio a cinque lobi’.  Forse il piccolo achenio contiene veramente semi neri e rugosi, simili a quelli di un’altra esotica invasiva della stessa famiglia, la bella di notte (18 settembre 2009). I semi della bella di notte germinano con estrema facilità, rendendola una specie particolarmente invasiva. Viceversa, è incerta la possibilità di propagare la bouganvillea partendo dal seme, anche se tentare non nuoce mai.

Quello che mi ha più sorpreso non sono stati i frutti, inusuali ma prevedibili, bensì  il  portamento arboreo, l’aspetto ramificato, ma diritto. Sempre l’avevo immaginata pianta avventizia, incapace di sostenersi con le proprie gambe. Invece non è così. Mai sottovalutare le capacità delle piante.

Pervinca del Madagascar

Pervinca del Madagascar

Catharanthus roseus
Pervinca rosea o del Madagascar

La fioritura delle pervinche mi ha fatto venire in mente lei, Catharanthus roseus, detta pervinca rosea o del Madagascar, che non è una Vinca, anche se in passato era anche classificata in quel genere. Ha tanti nomi, attraverso la regione tropicale e sub tropicale dove si è naturalizzata con facilità, prendendo il volo dalla grande isola dell’oceano indiano.  In brasiliano si chiama ‘maria-sem-vergonha’ o ‘flor boa-noite’, fiore della buona notte, e curiosamente in portoghese si chiama anche ‘bom-dia’, buon giorno. Insomma una pianta adatta ad ogni momento della giornata. Questa pianta cresceva copiosa nel giardino di un amico nel Nord Est del Brasile. Ma credo che prosperi in molti giardini brasiliani.

Oltre i bei fiori e le belle foglie, questa specie ha  altri importanti segreti. Si tratta di una pianta tossica, ma anche di un farmaco potente,  già usato dagli africani per curare il diabete. Portata alla corte di Francia da esploratori nel 1757, venne presto impiegata per la cura di svariate affezioni, dal mal di gola alla pleurite, dalla dissenteria fino appunto al diabete.  Intorno agli anni 1950, proprio investigando le proprietà antidiabetiche della Vinca rosea, i ricercatori Robert Noble e Charles Thomas Beer scoprirono che conteneva alcaloidi capaci di disorganizzare l’apparato deputato alla replicazione e quindi contrastare la proliferazione cellulare nel cancro. Queste sostanze, che hanno preso il nome dalla pianta, sono la vincristina, la vinblastina e la vindesina e oggi vengono usate per la terapia delle leucemie acute e croniche e dei linfomi. Come tutti gli antiproliferativi,  gli alcaloidi della Vinca sono veleni perchè danneggiano e uccidono non soltanto le cellule tumorali, ma anche altre cellule capaci di  replicarsi velocemente.  Nondimeno il loro impiego ha salvato molte persone, soprattutto bambini.