Fiori raminghi e fuori tempo sul bordo della strada
Fiori raminghi e fuori tempo sul bordo della strada
Pensavo di sapere tutto della cicoria, una delle erbe più utilizzate nell’alimentazione in queste zone del pianeta. Mi sorprende tuttavia questa grande pianta spontanea, più che selvatica credo sfuggita alla coltivazione, alta e slanciata sul ciglio della strada, abbondantemente fiorita. Le inconfondibili corolle sfrangiate e spettinate dall’aria si stagliano di azzurro intenso. E rosa.
Subito ho pensato che fosse l’effetto del decadimento che faceva sbiadire l’azzurro dei petali. Invece no, i fiori di cicoria hanno petali raramente bianchi o rosa. Il contrasto mi è piaciuto, come incontrare due gemelli diversi.
Con la cicoria si fa veramente di tutto. Soprattutto è un’erba gustosa, anche se decisamente amara. Si consuma sia cruda che cotta, condita e lessata, nel ripieno di torte salate e nelle zuppe tradizionali. Si possono tostare le radici per ricavarne un succedaneo del caffè, molto celebre ai tempi in cui era difficile approvigionarsi di Coffea arabica o robusta. Toccasano della medicina popolare (“se la vecchiaia vuoi tener lontana, non scordar cicoria e bardana”), ha numerose proprietà officinali. Il decotto delle sue foglie, preferibilmente in associazione con altre piante come ortica, tarassaco e parietaria, è considerato un ‘depurativo del sangue’. Efficace contro le intossicazioni che provocano eruzioni cutanee, gli omogenati di foglie e radici venivano usati esternamente per risolvere foruncoli e eritemi. In fitoterapia, la cicoria è un tradizionale coaudiuvante per la cure del diabete, per contenere l’iperglicemia, combattere la sonnolenza postprandiale e l’ipersecrezione gastrica. Le sue radici sono ricche di inulina, polisaccaride che non viene digerito dai succhi gastrici ed è utile come prebiotico, sostitutivo di grassi e zuccheri dal punto di vista del gusto.
Avevo già parlato della cicoria nei primi anni del mio vecchio blog, ammirando i suoi fiori azzurri scoperti in un campo ancora freschi nell’autunno (23 ottobre 2008).
Scrivevo allora: “Non è certo la stagione adatta per raccogliere le foglie di cicoria selvatica, o radicchio (Cichorium intybus, famiglia composite), ora che i fusti sono alti e duri, spogli. A primavera, le tenere foglie basali, disposte a rosa sul piede del fusto in gestazione, sono le migliori da consumare in insalata. Poi crescono gli steli eretti, alti e rossicci, con foglie più sottili e slanciate, ma meno appetibili, e i bei fiori azzurri, dai petali troncati e frastagliati.
Questo fiore, dimenticato e disperso fra l’erba morente, si drizzava ancora celeste, fra boccioli tardivi e calici vuoti. Lo devo ammettere, la foto non è perfettamente a fuoco. Eppure mi piace quasi più così, nella sua imperfezione, un po’ fuori stagione e un po’ fuori tempo. ”
E ancora ne ho mostrato i fiori sbocciati nell’orto il 10 settembre 2009, a confronto con una lattuga selvatica a fiorellini gialli. Le due erbe si consumano alternativamente in insalata, ma sono piante assai diverse. Anche quest’anno ho lasciato andare a fiore due piante di cicoria che mi hanno regalato tante foglie durante l’inverno. Se lo sono meritato. I fiori me li aspetto blu e forse raccoglierò anche qualche seme.
Persino in una giornata d’autunno, livida e plumbea, persino nel cuore della città cianotica, basta poco per tornare a stupirsi e inciampare in un fiore dimenticato.
Piccole margherite sbocciano in un’umida aiuola nel parco di Villa Imperiale, Genova quartiere San Fruttuoso. La galinsoga, il cui nome deriva da quello di un botanico spagnolo del diciottesimo secolo, Martinez de Galinsoga, è pianta esotica, di origine sudamericana. Portata in Europa nel 1800, e in Italia nei giardini botanici di Firenze e Padova, si è velocemente diffusa come avventizia in praticamente tutta la penisola, diventando un’infestante molto comune. In realtà ne esistono due specie, Galinsoga parviflora e Galinsoga ciliata o quadriradiata, ma le differenze sono così sottili che non mi addentro nel problema della loro determinazione. Dico solo che mi pare probabile che la specie fotografata sia G. parviflora perchè è scarsamente pelosa, quasi glabra, a differenza di G. quadriradiata. Inoltre G. parviflora ha fioritura più tardiva e prolungata ed è più comune in Liguria. Pronta a smentirmi, naturalmente. Felice comunque di aver fatto la conoscenza di una nuova piccola stella autunnale, minuta, robusta, invadente, spavalda.
foto dicembre 2008, originariamente pubblicata il 3 dicembre 2009
Una grande pianta, flessuosa ed imponente, mi si para davanti nel mezzo al prato, abbacinato dal sole e scavato dai profondi solchi lasciati dai cinghiali, oltre una breve radura dove ho saccheggiato (previa autorizzazione) il frutteto abbandonato del mio vicino di casa. Un cardo immenso, dai fusti così spinosi che pungono al solo guardarli. I fiori, ovvero quelli che erroneamente si chiamano fiori, ma sono in realtà dense infiorescenze a capolino, sono di un intenso rosso violaceo brillante. Tutto è irto e acuminato, praticamente intoccabile. Eppure è un fiore buono da mangiare, e piace agli asini che lo brucano con voracità, provocandosi un disagio intestinale tipico dell’erba fresca, da cui proprio deriva il nome di questa pianta. Onopordum acanthium, composto da ὄνος (onos), asino e πορδή (pordè), peto, e per la specie da ἄκανθα (acanta), spina.
Si tratta quindi di uno dei tanti cardi asinini, di cui il più comune è Cirsium vulgare, tutti più o meno irti, carnosi e rossi. Questo cardo si distingue dal fusto decisamente minaccioso, “alato-spinoso percorso per tutta la sua lunghezza da più espansioni alari dentato-spinose irregolari”, secondo la precisa descrizione di Mirna Medri nella scheda di Actaplantarum, dall’apparenza di coda di drago.
E’ una pianta biennale, cioè non fiorisce nel primo anno di vita, ma steli e germogli, così come i boccioli del secondo anno possono essere consumati un po’ come i carciofi. Impiegato da molte medicine tradizionali come antinfiammatorio, antitumorale e cardiotonico, le sue interessanti proprietà sono state verificate anche dalla moderna farmacologia. Inoltre, le infiorescenze contengono un complesso di enzimi proteolitici, onopordosina, che provoca il coagulo del latte e quindi viene usato come caglio vegetale.
Diffuso ovunque in Europa, è il fiore nazionale della Scozia (“Scotch thistle”). La leggenda narra che difese gli scozzesi da un’invasione norvegese, perchè i nemici che volevano sorprenderli procedevano a piedi scalzi per non far rumore; così quando calpestarono le foglie taglienti dell’onopordio, si ferirono e furono costretti a desistere.
Gradito agli asini, come molti fra i cardi, ma anche agli esseri umani, Cirsium vulgare è una delle più comune piante spinose che si incontrano quasi dappertutto. Sempre scovo le rosette irsute agli angoli della strade, anche in città. Le foglie possono essere consumate in insalata e i capolini come carciofi.
Nell’esplosione dei suoi colori, il cardo asinino attira, come deve, molte farfalle, che si lasciano cogliere, docili, dall’obbiettivo.
La fama di erba officinale di questa specie così comune ha stimolato indagini più approfondite dei suoi componenti, identificando glicosidi (composti complessi di uno zucchero e una parte non zuccherina) e flavonoidi (polifenoli tipici delle piante) con attività antiossidante. La presenza di queste componenti nei vegetali è la regola ed è solo il loro dosaggio, la loro sinergia, unitamente all’assenza di principi tossici che rendono una pianta affine a una medicina. La medicina per eccellenza, direi, perchè senza regno vegetale la cura dela salute dell’uomo e degli animali semplicemente non esisterebbe.
Lungo via San Colombano, nei pressi della storica Osteria del Giallo, transitano molte automobili in queste mattine di giugno. E’ una via periferica, defilata, ripida e tortuosa, che tuttavia viene scelta sempre più spesso come deviazione vantaggiosa al traffico congestionato del fondovalle. Una bella strada avvolta dal bosco, costeggiata di cespugli fioriti e prati di colori cangianti. Ma chi guida deve guardare avanti, ha altro di cui occuparsi che dei fiori, e così temo proprio che perderà l’occasione di ammirare, nella sua breve e intensa stagione, uno dei fiori più belli dei nostri prati.
La Catananche caerulea è un’asteracea rara, perchè endemica di un territorio abbastanza piccolo fra Liguria e Piemonte. E’ strano, per me questa margherita azzurra di colore più acceso, ma in fondo abbastanza simile a quello della cicoria, con le ligule sfrangiate, una macchia scura in centro e l’involucro di brattee scabrose e argentee che la racchiude, è un fiore assai comune, che ha popolato tutte le estati della mia infanzia. Già ne ho parlato diverse volte (26 giugno 2008 e 5 giugno 2011, a cui rimando per altre immagini), ma sono sempre lietamente stupita di ritrovarla, puntuale con la stagione calda, a spalancare le sue corolle nel mattino, lungo la strada di casa. La fotografo ancora, dovesse mai svanire nel nulla.
Si chiama cupidone azzurro, o madre d’amore, in inglese Cupid’s dart, freccia di Cupido, ed era un ingrediente fondamentale dei filtri d’amore, da cui appunto il nome, dal greco καταναγκάζω che significa forzare, avvincere. La sua grazia e il suo colore intenso e screziato ne hanno fatto una ricercata specie da giardino. Nel giardino libero della pubblica strada, la catananche è per tutti quelli che la sanno guardare e apprezzare.
Ma non cercatela dopo mezzogiorno, a quell’ora la catananche già riposa.
La margherita delle Canarie, Argyranthemum frutescens, si è ormai naturalizzata in Italia, secondo questo sito in Liguria e tutto il sud , isole comprese, mentre secondo Actaplantarum è alloctona casuale in Toscana, Sardegna e Abruzzo.
E’ una specie ornamentale importante, diffusa un po’ in tutto il mondo, e conosciuta in glese come “Paris daisy”, che vuol dire margherita di Parigi, oppure come Marguerite, forse il nome comune che le viene dato alle Canarie. La più comune ha i classici fiori bianchi, ma esistono altre varietà a fiori rosa o gialli.
Se si è diffusa in Liguria, allo stato selvatico intendo, lo deve certamente alla coltivazione intensiva nei vivai della riviera di Ponente, dove ne vengono cresciuti decine di milioni di esemplari all’anno per esportazione.
Semprevivo oppure oro del deserto sono alcuni dei nomi con cui, prevalentemente in inglese, è conosciuta quest’asteracea australiana che ha conquistato anche i vivai del nostro continente. Pianta di vivace e caldo colore e agevolmente resistente alla penuria di acqua, è protagonista dei giardini pensili urbani. Non è facile adattare piante e fiori alle condizioni proibitive del cemento e delle assolate intemperie delle nuove estati da cambiamenti climatici. Soprattutto è difficile perchè vogliamo che queste piante siano sempre attraenti, un po’ come bambole di porcellana sballottate nel traffico cittadino.
Il Chrysocephalum, il cui nome non brilla in fantasia dato che significa semplicemente ‘testa dorata’, pare abbia prestazioni eccellenti come pianta da tetti metropolitani più o meno ripidi(1).
Incontrata di nuovo all’Euroflora 2019 di Nervi (Genova), è solare e la ammiro. Senza amarla troppo, perchè il mio cuore va alle piante selvagge e vagabonde, senza padroni e senza gloria. La ammiro e non la invidio, come una cortigiana profumatamente ricompensata per rimanere sempre lucida e perfetta e sempre estranea a se stessa.
(1)Razzaghmanesh et al. Developing resilient green roofs in a dry climate in Science of The Total Environment (2014) 490:579-589 https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2014.05.040
Nell’universo delle margherite gialle, un’infinità di specie molto resistenti e prolifiche che ci circondano in ogni stagione, un posto di tutto rispetto lo occupano le Crepis, volgarmente dette radichelle. Questa piccola pianticella montana con le foglie seghettate viene detta radichella italica, ma il suo vero nome è Crepis leontodontoides, radichella dente di leone, proprio per la forma delle foglie.
Le piante del genere Crepis sono quasi tutte commestibili, crude come insalata o lessate, simili a tarassaco e cicoria. Siccome occorre raccoglierle prima della fioritura, bisogna riconoscere le rosette, un’abilità ormai alquanto rara. Però la maggior parte delle asteracee e brassicacee a cui la sua rosetta assomiglia sono commestibili o comunque non tossiche, quindi il rischio di scambiare la radichella per qualche specie tossica è molto bassa. Invece molto importante è raccogliere le foglie giovani e fresche, e in quantità, perchè la resa delle erbe selvatiche non è proprio la stessa di quelle che compriamo al supermercato.
Questo fiorellino cresceva su un sentiero di mezza montagna, sulle inerpicate colline genovesi, su un crinale aperto e battuto dal vento, fra rade roverelle, come quella che le aveva abbandonato una foglia accanto. Non il luogo più adatto per andar per insalate, ma piuttosto per ammirare le corolle dorate nel sole primaverile.
Quest’erbaccia che cresce selvatica nel greto del torrente Bisagno è una pianta medicinale usata da migliaia di anni come rimedio per le affezioni più diverse. E’ un cardo molto pungente, con grandi foglie verde scuro brillante, solcate da profonde venature bianche e ornate di spine robuste. Il suo nome scientifico, Silybum, deriva dal grevo silibon, un termine usato per indicare appunto i cardi, mentre l’epiteto specifico marianum è legato a una leggenda, che vorrebbe le foglie screziate di bianco perchè macchiate dal latte della Vergine durante la fuga in Egitto. Il nome volgare, cardo mariano, nuovamente ricorda la Madonna, mentre il nome comune inglese è “milk thistle”, cardo del latte, oppure “wild artichoke”, carciofo selvatico, perchè al carciofo assomiglia davvero.
L’intervento della Madonna forse non si è limitato a colorare le foglie, ma ha concesso a questa pianta qualità eccezionali dal punto di vista farmacologico, riconosciute anche dalla moderna medicina scientifica. Dai suoi frutti, i piccoli acheni che sono contenuti nell’infiorescenza a capolino globoso, si ricava un estratto, detto silmarina, che agisce come antiossidante riducendo la produzione di radicali liberi e l’ossidazione lipidica ed è anche capace di bloccare il legame di tossine ai recettori presenti sulle membrane degli epatociti, le cellule del fegato. La silmarina è un efficace epatoprotettore, utile nelle cirrosi, nelle epatiti virali acute e croniche, nelle malattie dovute all’abuso di alcool e a sostanze tossiche, persino come antidoto nel terribile avvelenamento causato dal fungo Amanita phalloide.
E’ singolare incontrare questa pianta anche sotto casa, in mezzo all’immondizia (nella foto in alto a sinistra contornata da non meglio identificati broccoletti), mentre in passato l’avevo vista soltanto in Sardegna e pensavo che in Liguria fosse rara. Forse lo è, ma le piante vanno e vengono e come vagabonde bisogna accettarle. Ci vuole molto poco a far viaggiare le piante e delle loro peregrinazioni, talvolta ovvie e talvolta impreviste, si sono occupati molto i botanici. Leggo che il cardo mariano è specie mediterranea e tipicamente europea, ma coltivata come specie alimentare da moltissimi secoli, fu portata in America dai primi coloni; così che oggi si è naturalizzata ed è diventata infestante anche laggiù.