In maggio anche l’abete si mette un vestito nuovo. E’ arrivato in questo giardino molto prima di me, forse un albero di Natale per cui si cercava una rinascita. Dopo svariati decenni è alto e vasto e si sbraccia gentile contro il cielo cangiante della primavera. L’abete rosso, Picea abies, è meglio detto peccio (in inglese ‘spruce’), e peccete sono dette le foreste formate da queste piante, nome che deriva da quello della resina, o pece, di cui è ricco e da cui si ricava la trementina. Si riconosce dai coni, pigne rossicce a squame arrotondate e aderenti, che penzolano dai rami come grossi sigari e quando si svuotano dai semi cadono a terra intere. L’abete bianco (Abies alba, in inglese fir), invece ha coni che perdono le squame a poco a poco e stanno eretti sui rami più alti.
Nei nostri boschi gli abeti non si mescolano al resto degli alberi. In mezzo ai castagni, carpini, ornielli, noccioli, roverelle, e poco più su faggi e maggiociondoli di montagna, queste stupende conifere si stagliano rigide, separate dalla foresta. Portate qui da interventi più o meno discutibili di rimboschimento sono sempre un po’ spaesate, diverse. Oggi il rimboschimento si fa in un altro modo, quando si fa. Ma abeti e pini venuti da altrove restano e, quasi loro malgrado, diventano protagonisti del paesaggio.
Non è proprio a casa sua in questo giardino il peccio. Di norma prospera dai 500, meglio 800, metri di altitudine sul livello del mare, sulle pendici di montagne più maestose di queste arricciate colline. Talvolta anche qui ha sorretto la neve, quasi felice di tollerarne il peso. E ugualmente si ricopre di raffinati germogli verde tenero, che teneri sono davvero, una curiosità commestibile, quasi una leccornia, dal vago sapore di limone. L’abete è una specie officinale. In fitoterapia si raccolgono le gemme in marzo, e le foglie da giugno ad agosto. Sono ricche di vitamina C e hanno proprietà antisettiche e balsamiche.