Scrofularia comune

Scrophularia caninaUn nome singolare(*), che identifica un’intera famiglia,  un aspetto bizzarro, lunghi rami lisci e sottili, foglie allungate e frastagliate, fiori microscopici, la scrofularia è una pianta tutto sommato abbastanza comune. Fra le sue parenti, le scrophulariaceae, figurano alcune personalità illustri del popolo dei fiori, come la bocca di leone (vedi 26 settembre 2009) e la digitale. Lei, invece, la titolare, passa per lo più quasi inosservata e ignota ai profani, che pure dovranno averla scontrata più di una volta nei boschetti di tutt’Italia, isole comprese. Qui l’abbiamo incontrata mentre eravamo ancora nel bosco dei caprifogli, prima di arrivare alla radura sul crinale.
Scrophularia canina
La forma dei fiori è (come era da aspettarsi visto le sue parenti che citavo poco sopra) alquanto elaborata, una specie di tubo con apertura a bocca da cui pendono i filamenti degli stami. I petali, che sarebbero cinque, sono saldati insieme, i tre superiori rovesciati verso l’altro e gli altri due ripiegati verso il basso. Ma bisogna guardarli molto bene, magari con una lente di ingrandimento, perchè sono davvero lillipuziani. Qui accanto, eccone uno, appoggiato sopra il palmo della mano di Luca, troppo piccolo perchè il mio obiettivo, ahimè non macro nè micro possa averne piena ragione della forma.

(*) – Trovo su actaplantarum che deriva dal termine latino medioevale “scrofulae” (scrofola), in quanto si credeva che la pianta fosse efficace contro la scrofolosi (forma di tubercolosi delle linfoghiandole superficiali a decorso benigno).

Caprifoglio

Lonicera caprifolium
Il caprifoglio comune, presente in tutte le regioni e in tutti boschi della penisola italiana, è un piccolo arbusto a foglie caduche, con bellissimi fiori bianchi o rosati, profumatisssimi. Alcuni pensano che non sia veramente una pianta originaria della nostra penisola, ma vi sia stata importata in tempi remoti. Ma anche se così fosse, la pianta è legata profondamente alla nostra storia, presente in credenze, usanze e leggende antiche. Anche se ho già parlato di caprifoglio in almeno altri due post, si trattava sempre della specie mediterranea, Lonicera implexa, a foglie persistenti (vedi 18 ottobre 2008 e 24 maggio 2009).  Le due specie in realtà si assomigliano molto, ma il caprifoglio comune, questa Lonicera caprifolium, ha dimensioni un po’ maggiori, tubo florale un po’ più lungo e perde le foglie d’inverno. L’ultima differenza, quella più sottile, ma forse più utile per l’dentificazione, è che lo stilo, il tubicino che sale dal pistillo, parte femminile del fiore, è privo di peluria, mentre in Lonicera implexa, lo stilo è coperto di corti peli. Questi piccoli particolare, che mi fanno pensare a un gioco da settimana enigmistica, sono in realtà molto utili a diversificare correttamente le piante e sono il pane quotidiano dei botanici.
Oggi ho fatto una breve passeggiata attraverso il bosco fino a una radura su una sella poco sopra casa mia. La città è vicinissima, se ne sente qualche voce, ma è come se fosse molto lontana. Una decina di caprette pascolavano ordinate e discrete. Per il resto era erba nuova, e fiori di primavera. Spero di riuscire, con calma, ad identificare tutte le specie che ho fotografato.

Erba paglina

moehringia muscosa

 

Sembrano piccole stelle immerse in fragili cespugli, i fiorellini bianchi di questa pianticella di poche pretese, che cresce all’ombra, sui muretti umidi. Deve il suo nome scientifico a un botanico tedesco, Moehring appunto, ma si chiama anche arenaria, arenaria muscosa, perchè fra le pietre e i muschi sta il suo regno. Gli steli sono flessibili e molli, le foglie filiformi. I fiori garbati sono degni della famiglia a cui appartiene, caryophyllaceae, la famiglia dei garofani, dianthus o fiore di Zeus, e delle sileni dai labili fiori di pizzo.
Pure anche questa pianta da niente è ricordata dalla scienza popolare, come diuretica e depurativa, perché l’antica medicina non faceva a meno di nulla e di ogni piccola erba sapeva approfittare.

 

Fotografata su un muretto ombroso nel bosco di Roccatagliata, val Fontanabuona, fra maggio e giugno 2009.

Giglio caprino

Orchis morio
Non esistono orchidee banali. Tutte le orchidee spontanee sul nostro territorio sono soggette a protezione totale e non devono per nessuna ragione essere recise o asportate, quasi neppure toccate. Le orchidee sono piante magiche. La loro bellezza sta nella loro complessità e anche nell’eterea durata della loro fioritura, quindici giorni, un mese o poco più. Quest’orchidea, diffusa e comune quasi ovunque in Italia, è multiforme e si esprime in molte tonalità. Esiste rosa intenso e viola, ma anche bianca, sempre con sepali laterali dalle venature verdi piuttosto marcate. Le foglie basali sono lanceolate, prive di macchie ( a differenza di dactylorhiza maculata fuchsii, vedi vecchio blog 9 giugno 2008 ) e alcune foglie più piccole avvolgono lo stelo. Si chiama anche orchide minore, o testicolo di cane. Il nome orchidea come è noto deriva dalla parola greca orchis che significa testicolo. Non bisognerebbe mai sradicare un’orchidea, ma questa qui sotto l’ho incontrata così, u n po’ fuori dalla terra, ed è proprio vero: le radici sono a forma di testicolo
Orchis morio

Fotografata in un prato del parco di villa Lante di Bagnaia (Viterbo), maggio 2010

Erba cipressina

Euphorbia cyparissias

E’ ormai quasi sfiorita e già i frutti a forma di capsule trilobate fanno capolino fra le brattee dei ciazi. La forma e i colori sono sempre sorprendenti. Il genere euphorbia è uno dei più numerosi della grandissima famiglia delle Euphorbiaceae, per lo più tropicale. Le euforbie europee sono tutte piante erbacee, dai fiori molto singolari, privi di petali e riuniti in infiorescenze, che si chiamano appunto ciazi, che simulano un unico fiore bisessuale (sembra che addirittura Linneo ne fu ingannato scambiandole per un singolo fiore). Il ciazio è una specie di famiglia, o meglio di alveare, perchè il fiore femminile è uno solo, al centro, contornato da ghiandole nettarifere e parecchi fiori maschili, ciascuno costituito da uno stame. Il tutto racchiuso in specie di coppa, che nell’erba cipressina è composta di due brattee, prima giallo verdastre, poi rossicce. Le foglie di questa specie sono strette e lineari, addensate alternativamente intorno allo stelo. Tutte le euforbie sono piante velenose, secernono un lattice amaro e irritante, che provoca vesciche ed è fortemente tossico. Contro l’affascinante erba cipressina mette in guardia Primo Boni*, che sempre indulge in dovizie di particolari sulle piante velenose. La descrive come incantevole, dal profumo di miele, ma perfida e ingannevole, disdegnata da tutti gli animali compresi gli insetti. Osserva come le foglioline fitte e delicate assomigliano a quelle della linaria, ma che quest’ultima non contiene lattice, mentre l’euforbia di lattice ne secerne in abbondanza. Un lattice maligno che, dopo aver ulcerato la bocca di chi malauguratamente lo ingerisse, è un veleno mortale. Primo Boni è stato il mio mentore in fatto di piante e ho imparato a riconoscere le euforbie proprio dalla sua descrizione dell’erba cipressina. Ho imparato a guardarle, anzi ammirarle, senza toccarle troppo. Nei nostri campi e boschi ce ne sono veramente molte, attraenti e infide. Ho già parlato tempo fa della splendente euforbia verrucosa (E.flavicoma, 11 maggio 2008), dell’euforbia minore (E. peplus, 14 marzo 2010), che infesta i miei praticelli, dell’euforbia mandorla (E.amygdaloides, 10 marzo 2010) e dell’erba calenzuola (E.helioscopia, 6 marzo 2010) ; e di altre ancora sono certa avrò occasione presto di raccontare.

*Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche – Ed Paoline 1977

Ginestra spinosa

Genista germanica
Fra tutte le numerose piante e pianticelle che meritano l’appellativo di ginestre (la parola deriva dal celtico ‘gen’ , piccolo cespuglio), quelle che appartengono al genere genista sono le più snelle, e graziose, come la flessuosa Genista tinctoria (vedi vecchio blog 1 giugno 2008) che a questa Genista germanica assomiglia molto. Questa ginestra cresce al margine del castagneto, in piccoli cespuglietti dalla base scura e legnosa. Le foglie sono verde acceso, cosparse di fitta peluria. E se venisse in mente di farne un mazzolino, magari strappandola con le mani, o comunque stringendola per i suoi steli più robusti, la sua identità inconfondibile lascerebbe il segno. I rami scuri della base del cespuglio portano infatti acute spine, che difficilmente passano inosservati. Che temperamento queste piante con i loro meccanismi di difesa. La ginestra spinosa se la cava proprio bene. E’ anche piuttosto velenosa, soprattuto i semi che sono neurotossici. Ma i fiori sono del giallo di giugno, che fra nuvole più o meno minacciose e un sole che, quando esce, è sempre più caldo, sta avvicinandosi a grandi passi. Evviva evviva

Raponzolo a foglie di scorzonera

Phyteuma scorzonerifolium

 

Questo singolarissimo fiore assomiglia assai poco a una campanula, anche se è della famiglia della campanulaceae. Ed è difficile capire perchè la forma delle sue foglie ricorderebbero proprio quelle della scorzonera, margherita gialla con foglioline basali spesso lanceolate, ma mi pare assai poco caratteristiche. Phyteuma scorzonerifoliumIl nome comune di raponzolo fa supporre che la radice sia commestibile, come quella del raponzolo, campanula a tutti gli effetti (6 giugno 2009). Come sempre i nomi delle piante, comuni o scientifici che siano, derivano dall’antica scienza popolare, dall’osservazione attenta, e risalgono a tempi in cui scorzonera e raponzolo erano molto più familiari di quanto non lo siano oggi.

Però si tratta di una pianta strana, seppure assai frequente nei boschi, almeno in Liguria. I fiori, di un bel colore azzurro violaceo, sono disposti in una sorta di spiga, o pannocchia. Sono tubolari e sottili, con la corolla divisa in cinque lacinie, saldate alla base e all’apice. Prima di sfiorire si aprono, e le estremità si arrotolano, formando curiosi riccioli violetti (vedi foto a destra)

Oggi anche questa pianta ha cambiato nome e viene detta preferibilmente Phyteuma italicum.

Miosotis o non-ti-scordar-di-me

Myosotis sp
Il nome miosotis, così armonioso e arcano, sembra che in realtà voglia dire ‘orecchio di topo’ con riferimento alla forma delle foglie. Che in questa fotografia non si vedono ed erano poche e basse. Nella mia breve passeggiatina di sabato per la strada che collega Fontanegli con Bavari (siamo sempre sulle alture di Genova), alla ricerca delle fioriture di stagione, riesco sempre a scoprire qualche cosa di inaspettato. La stagione cambia velocemente in questi mesi e le fioriture che ricordo gli anni scorsi forse non erano proprio esattamente nello stesso periodo. Così anche se gli incontri più frequenti sono sempre gli stessi, c’è sempre qualche piccola sorpresa. Una spalliera violetta zeppa di poligala (Poligala nicaensis, vedi vecchio blog 6 giugno 2008) e la silene fior di cuculo (Silene flos-cuculi) che fa capolino lungo un sentiero in salita. Sul bordo della strada, questo fiorellino azzurro, per definizione piccolissimo. Sulla specie ( forse M. scorpioides?) preferisco non sbilanciarmi, il genere non è dei più semplici e trae in inganno anche gli esperti. Ma la pianta comunque ha il nome celebre e poetico di nontiscordardimè. In origine c’è qualche leggenda d’amore, oppure soltanto l’usanza di scambiarsi proprio quel fiore insieme ad una promessa. Proprio questo minuscolo fiore azzurro, da conservare a lungo, magari pressato fra le pagine di un libro. Il miosotis appartiene alla famiglia delle borraginaceae, quasi tutte pianti dai fiori colorati e graziosi, come l’azzurra borragine (Borago officinalis12 ottobre 2008), che dà il nome alla famiglia, la polmonaria (Pulmonaria officinalis, 22 marzo 2010) e l’erba vajola (Cerinthe major, 8 aprile 2010), per citare solo quelle già incontrate nel (vecchio) blog.

Rafano

Rafano

Rafano
Armoracia rusticana

 

Horseradish (in inglese), merredich (in tedesco), raifort (in francese, significa radice forte), cren (dal russo), barbaforte, rafano. Tanti nomi per la stessa pianta, Armoracia rusticana, originaria dei paesi dell’Est. Una crucifera alta e robusta, dalle portentose radici. E’ il terzo anno che sta nel mio giardino.  Dopo un po’ di quiescenza, ha cominciato a metter su foglie enormi e poi piccoli fiori. Quest’anno ha cominciato con i fiori, e ne ha una profusione, su steli lunghi con foglie sottili. Le foglie grandi stanno alla base e hanno quella cert’aria di famiglia … di cavolo.

In autunno bisognerebbe estrarre le radici, un pezzetto, grattuggiarle e preparare la celebre salsa piccante, dal sapore così esclusivo. Credo proprio che sia venuto il momento.

Spirea

Spirea spp
Invidio i miei vicini, per questa bella pianta che cresce nei loro giardini. Ce l’hanno tutti, pianta generosa e riccamente fiorita per tutta la primavera. Ne vorrei un cespuglio anch’io e prima o poi proverò a strapparne una radichetta o a farne una talea. Sono certa non sia complicato, perchè la pianta è semplice e sincera e non si fa troppo desiderare. Non sono certa della specie, perchè di spiree ne esistono diverse. La spirea selvatica delle nostre parti, il cui nome vero sarebbe Filipendula ulmaria, è pianta officinale di importanza storica. Dalle sue sommità fiorite venne isolato, alla fine del 1800, quell’acido acetilsalicilico dalle notevoli proprietà antipiretiche, antinfiammatorie e analgesiche, che dalla spirea prese il nome di aspirina. La spirea ulmaria (che confesso di non conoscere affatto) è molto meglio dell’aspirina, perché contiene anche sostanze protettive per la mucosa gastrica che eliminano i noiosi effetti collaterali dell’aspirina ai danni dello stomaco.
La specia di questa fotografia non è l’olmaria, ma soltanto una pianta ornamentale, forse S. japonica, più esotica ed attraente, ma molto molto meno magica.