Salpichroa, piccola solanacea

Salpichroa origanifolia è una pianta perenne della famiglia delle Solanaceae, originaria del Sud America

Salpichroa

Salpichroa origanifolia
foglie a fine giugno

Alloctona casuale, ma anche naturalizzata, in molte regioni d’Italia, non l’avevo mai incontrata in campagna o nel verde, e ho dovuto scoprirla in città, in un aiuola nei pressi del Pronto soccorso dell’ospedale San Martino, il più grande della città.  Il suo fogliame ha occupato gran parte dell’aiuola dove dimorano giallissime lantane camara, e forse è proprio arrivata insieme a loro, perché mi stupirebbe che sia stata collocata di proposito.   La foglia è carnosa e piacevolmente verde, e la forma ricorderebbe le foglie dell’origano, da cui il nome.

Ho fotografato distrattamente le foglie con il telefonino alla fine di giugno, chiedendomi che pianta mai fosse. Quando ho scoperto chi era e qualcosa in più di lei, sono tornata dopo un mese, per vedere la fioritura.

I microscopici fiorellini sono timidi e sfuggenti, assolutamente non vistosi, ma  a loro modo sorprendenti. Dalla loro forma, e colore, deriverebbe il nome del genere, dal graco σάλπιγξ, sálpinx che significa tromba e χρόα, croa,  pelle.  Di campanelle effettivamente si tratta, bianche, minute, appena appena bombate, così piccole e nascoste fra le foglie che bisogna fare una certa attenzione per vederle. Un fiore diverso da quello di quasi tutte le altre solanacee, che in genere presentano corolle aperte e piatte.  Persino Physalis (12 novembre 2009 ), l’alchechengi  coi frutti a forma di lanterna, ha fiori a stella.  Finalmente li scopro, oltre  la ringhiera; e scovo persino qualche traccia precoce del frutto che stanno preparando, questo sì abbastanza simile a quello di altre solanacee più famose, Solanum nigrum (erba morella, 15 ottobre 2008), Solanum dulcamara (dulcamara, 28 giugno 2009), o addirittura Solanum melangona (melanzana).

Salpichroa

Salpichroa origanifolia
fiore

Salpichroa

Salpichroa origanifolia
Fiore e inizio del frutto

La salpicroa è una specie tossica perchè contiene alcaloidi che hanno effetti allucinogeni.  In questo ricorda altre solanacee più famose di lei, come la datura , celebre pianta stupefacente per la presenza di atropina e  scopolamina,  e il tabacco, che ha grandi fiori tubulosi e contiene una potente droga, la nicotina.  Anche le nobili solanacee alimentari, come patate, pomodori e melanzane,  contengono alcaloidi tossici , primo fra tutti la solanina.

In queste piante sono anche presenti composti  denominati witanolidi, molecole della famiglia degli steroidi, che possono avere attività antiproliferativa sulle larve di insetti come le mosche, e forse proprietà antitumorali.

 

Salvia glutinosa

Salvia glutinosa

Salvia glutinosa

Ripropongo questo post del 28 luglio 2009

Appiccicaticcia. Questa secondo me è la traduzione più fedele di glutinosa, anche se in generale il nome comune di questa pianta è ‘salvia vischiosa’. Se la toccate si può capire perchè “dalla pianta è possibile ricavare gomma”. I fiori hanno ampie labbra, sporgenti e arcuate, gialle, punteggiate di marrone. Anche se manuali e trattati non lo spiegano proprio bene, ho imparato che i fiori di questa forma particolare sono del genere salvia. Che mentre le altre piante della famiglia (labiate appunto) sono più discrete, mimetiche, con le labbra atteggiate a piccola bocca composta, quando le labbra sono grandi, spalancate, sguaiate, potete stare sicuri che è una salvia. Con grande gioia, almeno così fantastico, degli insetti, che possono usarle quasi come un dondolo, un’altalena. La pianta è alta, le foglie ampie e verdi, appiccicaticce, e difficilmente passa inosservata. Ha anche virtù officinali, rinfrescanti e disinfettanti. Prospera al margine dei nostri boschi di castagno dove, anche in odore di agosto e di solleone (ormai ci siamo), i fiori non mancano mai.

Verbaschi

Dalla val Trebbia alla val Roya, l’estate risplende di verbaschi, piante selvatiche e leggiadre, di antica rinomanza farmaceutica.

Verbaschi

Verbascum thapsus
Tasso barbasso sul fiume Roya

Verbaschi

Verbascum nigrum
sulle rive del fiume Trebbia

Il più famoso è il tasso barbasso, Verbascum thapsus, che colpisce l’immaginazione subito a causa del nome, tanto singolare quanto ovvio, semplice trasposizione in lingua italiana del latino.  Verbascum deriva da barbáscum, che a sua volta probabilmente derivato da barba,  con riferimento alle foglie pelose, o da vérber verga, per la verticalità del fusto che regge i fiori.  Da ragazzina non conoscevo il nome delle piante e avevo dato loro dei soprannomi, il tasso barbasso era il fiore campanile, allampanato e inconfondibile, dai fiori profondamente gialli.  Ho già parlato di questa pianta tanti anni fa, agli albori del blog (25 giugno 2008), ricordando come nei tempi passati i contadini ne usassero le morbide e larghe foglie per imbottire le scarpe,  scarpe di pezza, o legno, rigide come pietre e abbondanti di misura, e renderle più morbide.

Ha il cuore viola porporino il fiore dell’altro verbasco, Verbascum nigrum, che ha foglie più lisce e dal peduncolo scuro. I suoi ‘campanili’ sono un po’ più bassi, con contrafforti  meno possenti di quelli del tasso barbasso,  ma ugualmente si stagliano vivaci e nobili sull’argento della roccia. Questa specie viene impiegata dalla medicina popolare come diuretico e quest’azione è effettivamente confermata dall’efficacia di particolari flavonoidi contenuti nella parte aerea.

Della famiglia della Scrophulariaceae, tanti verbaschi popolano la nostra estate.  In città soprattutto incontriamo il Verbascum sinuatum (vedi anche 29 giugno 2009).  Fiori stupendi, ma fragili; come quasi tutti i fiori selvatici,  la loro schietta vitalità si spegne molto velocemente se recisi.

Scaevola, pianta dei ventagli

Scaevola

Scaevola aemula

Che cosa hanno in comune questa vanitosa pianta australiana e il giovane patrizio romano Caio Muzio Scaevola che si arse la mano destra per sfidare il re etrusco Porsenna?
Della famiglia delle Goodeniaceae, Scaevola è una pianta che incanta per la forma singolare dei suoi fiori, le cui corolle sembrano tagliate a metà e ricordano dei piccoli ventagli, i ventagli delle fate in inglese (fairy fan-flower).  Tuttavia è a una mano che dovette pensare chi coniò il nome, la sola mano rimasta a Caio Muzio dopo la sua impresa. Le analogie finiscono qui, ma l’infarinatura di storia romana della nostra adolescenza ci aiuta a tenere a mente il nome di questa nuova inquilina abbastanza esotica di terrazzi e giardini.  E’ generosa e si slancia ricadendo verso il basso con i sui lunghi steli, fasciati dalle foglie densamente decorrenti, come una corazza.

Si dice pianta tollerante della siccità, ma tutto è relativo e nelle estati torride come questa vi chiederà costantemente da bere, specialmente se l’avete costretta in vaso per goderne di più la fioritura. Già la fioritura. Ma chi l’ha detto che una corolla deve essere circolare, rotondi sono i fiori banali, attinomorfi, sempre uguali a se stessi comunque li si guardi. Invece questi fiori ci spiegano senza ombra di dubbio che significa essere zigomorfo, gli originali, cinque petali e un solo, unico asse di simmetria.  Le Goodeniaceae presentano tutte fiori con morfologie diverse tanto che gli angoli che formano i petali fra di loro diventano un carattere distintivo per riconoscerle.

Orzo bulboso

Orzo bulboso

Orzo bulboso
Hordeum bulbosum

Una spiga dorata brilla nel sole del tramonto. Una spiga lunga e slanciata.  Quei granuli luminosi che  sembrano ricoprirla come frammenti d’oro sono gli stami che oscillano al vento, in modo da favorire la diffusione del polline in una pianta in cui l’impollinazione è solo anemogama, cioè facilitata dal vento.
E’ un orzo selvatico, Hordeum bulbosum,  parente povero del generoso Hordeum vulgare, che è stato con ogni probabilità il primo cereale coltivato dall’uomo nella Mezzaluna fertile.  Altre spighe più comuni che si incontrano davvero dappertutto appartengono a un altro orzo selvatico, Hordeum murinum, ispido e pungente, il famoso forasacco che si aggancia al pelo degli animali e può penetrare sotto la pelle, ferendola.  Neppure questo Hordeum bulbosum  è commestibile, anche se tutte queste sterpaglie qualche utilizzo in caso di carestia pare lo avessero.  I semi sono pur sempre riducibili in farina, e dalla farina si può sempre fare il pane. Un pane che però andava consumato sotto i morsi di una fame davvero ostinata.

Sono aspre e tenaci le graminaceae, oggi ridenominate poaceae dal genere più rappresentativo della famiglia,  Poa,  dal greco πόα, erba.  Sono erba per eccellenza e ricoprono le praterie di tutto il pianeta. Ma non solo. In questa famiglia si trovano le più importanti piante alimentari, riso, frumento, orzo, avena, segale, mais per citare solo le più comuni, quelle piante che in un certo senso hanno permesso la sopravvivenza e il consolidamento della razza umana.

Grazie spighetta, pardon spiga.  Chiamarti spighetta come vezzeggiativo creerebbe confusioni. La spighetta è un elemento più piccolo,  l’infiorescenza vera e propria formata da due brattee verdi,  una sopra e una sotto, dette gluma inferiore e gluma superiore, e di un asse longitudinale,  detto rachilla.  Ogni spighetta contiene uno o due fiori senza petali, racchiusi ciascuno fra due brattee più piccole, glumetta superiore ed inferiore, alla cui base si trovano le lodicule, piccole strutture che funzionano da cardini e fanno allontanare le glumette quando gli stami sono maturi e pronti a fecondare il fiore.  Come sono complicate queste poaceae.

Grazie comunque di esistere, modesta e rigida, sui prati sferzati dal sole e baciati dal vento. Anche se non sei un cereale ricco, ma soltanto un’erbaccia selvatica, sempre una nobile e seria compagna di viaggio.

Onopordio, il cardo scozzese

Cardo scozzese

Cardo scozzese
Onopordum acanthium

Una grande pianta, flessuosa ed imponente, mi si para davanti nel mezzo al prato, abbacinato dal sole e scavato dai profondi solchi lasciati dai cinghiali, oltre una breve radura dove ho saccheggiato (previa autorizzazione) il frutteto abbandonato del mio vicino di casa.  Un cardo immenso, dai fusti così spinosi che pungono al solo guardarli. I fiori, ovvero quelli che erroneamente si chiamano fiori, ma sono in realtà dense infiorescenze a capolino, sono di un intenso rosso violaceo brillante. Tutto è irto e acuminato, praticamente intoccabile.  Eppure è un fiore buono da mangiare, e piace agli asini che lo brucano con voracità, provocandosi un disagio intestinale tipico dell’erba fresca, da cui proprio deriva il nome di questa pianta. Onopordum acanthium, composto da ὄνος (onos), asino e πορδή (pordè), peto, e per la specie da ἄκανθα (acanta), spina.

Cardo scozzese

Cardo scozzese
Onopordum acanthium

Si tratta quindi di uno dei tanti cardi asinini, di cui il più comune è Cirsium vulgare, tutti più o meno irti, carnosi e rossi.  Questo cardo si distingue dal fusto decisamente minaccioso, “alato-spinoso percorso per tutta la sua lunghezza da più espansioni alari dentato-spinose irregolari”, secondo la precisa descrizione di Mirna Medri nella scheda di Actaplantarum,  dall’apparenza di coda di drago.
E’ una pianta biennale, cioè non fiorisce nel primo anno di vita, ma steli e germogli, così come i boccioli del secondo anno possono essere consumati un po’ come i carciofi. Impiegato da molte medicine tradizionali come antinfiammatorio, antitumorale e cardiotonico,  le sue interessanti proprietà sono state verificate anche dalla moderna farmacologia.    Inoltre, le infiorescenze contengono un complesso di enzimi proteolitici, onopordosina, che provoca il coagulo del latte e quindi viene usato come caglio vegetale.

Diffuso ovunque in Europa,  è il fiore nazionale della Scozia (“Scotch thistle”).  La leggenda narra che difese gli scozzesi da un’invasione norvegese,  perchè i nemici che volevano sorprenderli procedevano a piedi scalzi per non far rumore;  così quando  calpestarono le foglie taglienti dell’onopordio, si ferirono e  furono costretti a desistere.

Lappolina

Lappolina

Lappolina
Torilis arvensis

Un’ombrellifera da niente, pianticella senz’arte nè parte, che cresce come può e dove può e in quest’estate umida e afosa si lascia colonizzare da ogni genere di piccole creature, afidi e altri generi di pidocchi, le formiche che li pascolano,  e vari ragnetti colorati .  La famiglia si chiama ormai da tempo Apiaceae  dall’esponente più rappresentativo,  Apium,  ovvero il sedano.  Ignoro che cosa suggerisca qual è l’esponente più rappresentativo.

Il genere, Torilis, è una via di mezzo fra Tordylium (cosidetti ombrellini pugliesi) e Caucalis, un altro genere di Apiaceae a cui precedentemente si faceva appartenere questa pianta.

Lappolina

Torilis arvensis– frutti

L’ho incontrata in radi cespugli in mezzo al giardino e cresce anche copiosa sul bordo della strada.  D’istinto la guardo con diffidenza. Conosco quattro o cinque ombrellifere, mi ostino a chiamarle così, e confondo tutte le altre, che mi sembrano tutte uguali.  Ma questa volta ho fatto una sforzo,  i piccoli frutti sono coperti di una fitta peluria, che si rivela formata di aculei sottili con la punta vagamente arrotondata.  Sarà Torilis arvensis?  Gli aculei dei frutti sono attenuati in una punta uncinata, a forma di freccia.  Oppure Torilis japonica?  Questa specie, il cui nome suggerisce un’esoticità che non le appartiene, perchè  è diffusa quasi dappertutto, compreso il Giappone, ha peli semplici, non uncinati.  Credo di poter sopravvivere al dubbio,  fiera come sono di essere in grado di riconoscere un altro genere di ombrellifere,  lo stelo esile e rigido, le foglioline pennatosette, triangolari, appuntite.

Mi incuriosisce di più il nome comune,  un vezzeggiativo gentile, come fosse una di casa. E mi stupisce che questa pianticella non abbia alcun utilizzo pratico, anche se mi conforta non sia classificata come velenosa.

Cardo asinino

Cardo asinino

Cardo asinino
Cirsium vulgare

Gradito agli asini, come molti fra i cardi, ma anche agli esseri umani, Cirsium vulgare è una delle più comune piante spinose che si incontrano quasi dappertutto. Sempre scovo le rosette irsute agli angoli della strade, anche in città. Le foglie possono essere consumate in insalata e i capolini come carciofi.

Nell’esplosione dei suoi colori, il cardo asinino attira, come deve, molte farfalle, che si lasciano cogliere, docili, dall’obbiettivo.

La fama di erba officinale di questa specie così comune ha stimolato indagini più approfondite dei suoi componenti,  identificando glicosidi (composti complessi di uno zucchero e una parte non zuccherina) e flavonoidi (polifenoli tipici delle piante) con attività antiossidante. La presenza di queste componenti nei vegetali è la regola ed è solo il loro dosaggio, la loro sinergia, unitamente all’assenza di principi tossici che rendono una pianta affine a una medicina. La medicina per eccellenza, direi,  perchè senza regno vegetale la cura dela salute dell’uomo e degli animali semplicemente non esisterebbe.

Alstroemeria, il giglio degli Incas

AlstroemeriaE’ fiorita di nuovo l’alstroemeria arancione, piccola meraviglia dalle montagne del  Sudamerica. L’avevo già incontrata e mostrata qualche anno fa nella sua versione rosa, quando ancora era poco conosciuta e potevo permettermi di sbagliare il nome. Oggi non più, quando già da alcuni anni sopravvive in giardino e prospera vicino all’alchemilla, e anche se fiorisce molto più tardi di quelle in commercio nei vivai, mi dà sempre grandi soddisfazioni.

Il nome dato da Linneo a questa pianta è in onore del suo discepolo, il barone svedese Clas Alströmer, che secondo alcune fonti ne portò i semi in Europa.  Secondo una storia più dettagliata, pare invece che  il barone l’abbia semplicemente  portarla da Cadice, in Spagna, a Uppsala, quartier generale di Linneo, guadagnandosi così la dedica immortale. Più che  dal Perù,  come il nome volgare suggerisce, questo genere proviene dal Cile e per alcune specie dal Brasile.  I suo intensi  fiori sono molto particolari.  Più piccoli dei gigli propriamente detti, hanno tre petali, o meglio tepali, del colore dominante e tre tepali interni di un colore simile, ma puntinati.  Perenne e robusta, ne esistono numerosi  ibridi anche da aiuola che hanno conquistato il mercato. La varietà arancione è probabilmente un ibrido di  Alstroemeria aurea,  che cresce nei prati andini di Cile e Argentina. In quelle regioni,  Alstroemeria è un genere di notevole ricchezza e complessità, con specie spontanee di rara bellezza, come l’incantevole Alstroemeria magnifica.

Una varietà rosata cresce alta e flessuosa sulle scalette della casa sopra la mia, che è stata abitata da una famiglia di instancabili collezionisti di piante, e non solo.  La tengo d’occhio, alcune fonti sostengono che non sopravviverebbe più di tre anni e non voglio perderla.

Una spalliera di catananche

Catananche

Catananche caerulea 

Lungo via San Colombano, nei pressi della storica Osteria del Giallo, transitano molte automobili in queste mattine di giugno. E’ una via periferica, defilata, ripida e tortuosa, che tuttavia viene scelta sempre più spesso come deviazione vantaggiosa al traffico congestionato del fondovalle. Una bella strada avvolta dal bosco, costeggiata di cespugli fioriti e prati di colori cangianti. Ma chi guida deve guardare avanti, ha altro di cui occuparsi che dei fiori, e così temo proprio che perderà l’occasione di ammirare, nella sua breve e intensa stagione, uno dei fiori più belli dei nostri prati.

La Catananche caerulea è un’asteracea rara, perchè endemica di un territorio abbastanza piccolo fra Liguria e Piemonte. E’ strano, per me questa margherita azzurra di colore più acceso, ma in fondo abbastanza simile a quello della cicoria, con le ligule sfrangiate, una macchia scura in centro e l’involucro di brattee scabrose e argentee che la racchiude, è un fiore assai comune, che ha popolato tutte le estati della mia infanzia. Già ne ho parlato diverse volte (26 giugno 2008 e 5 giugno 2011, a cui rimando per altre immagini), ma sono sempre lietamente stupita di ritrovarla, puntuale con la stagione calda, a spalancare le sue corolle nel mattino, lungo la strada di casa.  La fotografo ancora, dovesse mai svanire nel nulla.

Si chiama cupidone azzurro, o madre d’amore,  in inglese Cupid’s dart, freccia di Cupido, ed era un ingrediente fondamentale dei filtri d’amore, da cui appunto il nome, dal greco καταναγκάζω che significa forzare, avvincere.  La sua grazia e il suo colore intenso e screziato ne hanno fatto una ricercata specie da giardino.  Nel giardino libero della pubblica strada, la catananche è per tutti quelli che la sanno guardare e apprezzare.

Ma non cercatela dopo mezzogiorno,  a quell’ora la catananche già riposa.