Pado, il ciliegio a grappoli

Prunus padus Pado

Prunus padus
Pado

Il suo nome, Prunus padus, non lascia dubbi sulle sue origini, la grande pianura del Po, Padus in latino. I fiori sono le scintillanti corolle candide dei ciliegi, ma disposte in pannocchie o grappoli vistosi. Nel nobile giardino della Landriana, il pado sfoggia il suo splendore primaverile, senza sfigurare fra i pruni esotici del Giappone, i Sakura rosa, che lo circondano.

Qui sfruttato per la sua bellezza, il pado è un albero dal glorioso passato. Originario della zona temperata boreale euroasiatica, è resistente anche nei climi più freddi e può essere impiegato come portainnesto.  Fin dal medioevo erano note le sue proprietà officinali e salutari, anche se i suoi frutti sono molto più duri e amari delle ciliegie.  Come altri pruni, noccioli e corteccia sono ricchi di amigdalina che è una sostanza tossica.

I suoi utilizzi erano veramente molteplici. I fiori, i frutti e le foglie venvano impiegati per calmare la tosse e rinvigorire la milza. La corteccia era utilizzata come pesticida naturale distribuendola sui campi di patate e nei meleti perchè glicosidi e fenoli cianogenici proteggevano le coltivazioni dagli attacchi degli insetti e dei roditori. I frutti, la corteccia, le foglie polverizzate e i fiori  sono ancora usati come anestetici e disinfettanti in Russia e  Scandinavia.  Inoltre i frutti sono utili per problemi intestinali e digestivi, un po’ come i mirtilli.  Nel Nord Est Europa, si usano i frutti secchi e ridotti in polvere mischiati alla farina, oppure per preparare liquori e succhi(1).

(1)Uusitalo, M. European Bird Cherry (Prunus padus L.)—A Biodiverse Wild Plant for Horticulture; Agrifood Research Reports, No. 61; MTT Agrifood Research Finland: Mikkeli, Finland, 2004

Bletilla striata

Bletilla striata

Bletilla striata

Bletilla striata

Bletilla striata

 

I boccioli della Bletilla striata nella foto di sinistra non si sono ancora aperti completamente, svelando al mondo il loro cuore di orchidea, raffinata trappola per impollinatori. I fiori già più maturi si intravedono, fra le lunghe foglie lanceolate, nel tappeto a destra.

Chiamata orchidea giacinto o orchidea di terra cinese, il suo nome scientifico è in onore di Luis Blet, un farmacista e botanico spagnolo del 18° secolo.  Gli esperti dicono sia  di poche pretese e facile coltivazione. Personalmente per ora l’ho incontrata soltanto in giardini e orti preziosi, come qui nel fantastico orto botanico di Roma; oppure più recentemente nei giardini della Landriana, non molto lontanto (Ardea, Roma).

Rosa banksiae

Rosa banksie

Rosa banksiae lutea

Finalmente è fiorita anche la mia piccola spalliera di Rosa banksiae lutea, arrampicata verso il cielo davanti al vetro anteriore della serra.

Rosa banksiae

Rosa banksiae lutea

La Rosa banskiae o rosa di Lady Banks è un’antica rosa botanica che cresce sopra i 500 metri di altitudine in vaste aree della Cina.  E’ molto profumata ed è quasi priva di spine, smentando così tutti i modi di dire più o meno poetici che gli occidentali hanno inventato per le rose spinose.  Si fa quasi fatica a chiamarla rosa.

La varietà originaria è bianca, a fioritura abbondante e precoce.  Il nome glielo diede William Kerr, botanico scozzese, discepolo del direttore dei Kew Gardens Joseph Banks, per incarico del quale si trovava appunto in Cina a cacciare piante.  Dedicò così la splendida rosa scoperta alla moglie del suo mentore, mentre al suo nome è legata la Kerria, sorta di rosa giapponese di genere tutto suo.

Oltre a quella bianca, anche la varietà gialla, lutea appunto, è molto ricercata e generosa e attualmente forse la più comune nei nostri giardini. La fioritura però è piuttosto breve, e già a maggio la dovremo salutare, accontentandoci delle piccole foglie verde intenso, persistenti e tenaci per tutto l’anno.

Cardo mariano

Cardo mariano - Silybum marianum

Silybum marianum
Cardo mariano

Quest’erbaccia che cresce selvatica nel greto del torrente Bisagno è una pianta medicinale usata da migliaia di anni come rimedio per le affezioni più diverse.  E’ un cardo molto pungente, con grandi foglie verde scuro brillante, solcate da profonde venature bianche e ornate di spine robuste.  Il suo nome scientifico, Silybum, deriva dal grevo silibon, un termine usato per indicare appunto i cardi, mentre  l’epiteto specifico marianum è legato a una leggenda, che vorrebbe le foglie screziate di bianco perchè macchiate dal latte della Vergine durante la fuga in Egitto.  Il nome volgare, cardo mariano, nuovamente ricorda la Madonna, mentre il nome comune inglese è “milk thistle”, cardo del latte, oppure “wild artichoke”, carciofo selvatico, perchè al carciofo assomiglia davvero.

L’intervento della Madonna forse non si è limitato a colorare le foglie, ma ha concesso a questa pianta qualità eccezionali dal punto di vista farmacologico, riconosciute anche dalla moderna medicina scientifica. Dai suoi frutti, i piccoli acheni che sono contenuti nell’infiorescenza a capolino globoso, si ricava un estratto, detto silmarina, che agisce come antiossidante riducendo la produzione di radicali liberi e l’ossidazione lipidica ed è anche capace di bloccare il legame di tossine ai recettori presenti sulle membrane degli epatociti, le cellule del fegato.  La silmarina è un efficace epatoprotettore, utile nelle cirrosi, nelle epatiti virali acute e croniche, nelle malattie dovute all’abuso di alcool e a sostanze tossiche, persino come antidoto nel terribile avvelenamento causato dal fungo Amanita phalloide.

Cardo mariano - Silybum marianum

Silybum marianum

E’ singolare incontrare questa pianta anche sotto casa, in mezzo all’immondizia (nella foto in alto a sinistra contornata da non meglio identificati broccoletti),  mentre in passato  l’avevo vista soltanto in Sardegna e pensavo che in Liguria fosse rara. Forse lo è, ma le piante vanno e vengono e come vagabonde bisogna accettarle. Ci vuole molto poco a far viaggiare le piante e delle loro peregrinazioni, talvolta ovvie e talvolta impreviste, si sono occupati molto i botanici.  Leggo che il cardo mariano è specie mediterranea e tipicamente europea, ma coltivata come specie alimentare da moltissimi secoli,  fu portata in America dai primi coloni; così che oggi si è naturalizzata ed è diventata infestante anche laggiù.

La Zelkova di Maria Luigia

Zelkova carpinifolia

Zelkova carpinifolia
Reggia di Colorno

Il palazzo ducale, meglio conosciuto come reggia di Colorno, vicino a Parma, ha una storia travagliata e affascinante, durante la quale si sono intrecciati i destini di molte nobili famiglie, dai  Sanseverino e Sanvitale, ai Farnese, ai Borboni, fino a Maria Luigia d’Austria, moglie del deposto imperatore di Francia Napoleone.  Simili vicende travagliate ha vissuto il grande giardino, fra sfarzi, rifacimenti e abbandoni.  Nato come giardino all’italiana, poi modificato alla francese,  fu proprio Maria Luigia che volle trasformarlo in un giardino inglese, arricchendolo di essenze rare e ricercate, fra le quali spicca la Zelkova carpinifolia, importata dalle regioni del Caucaso in Europa all’inizio del 1800.  Questo grande albero, che ancora prospera in fondo al vasto parterre, deve il suo nome specifico alla forma delle foglie, che assomigliano a quelle del carpino.  Appartiene alla famiglia degli olmi, Ulmaceae, che ricorda per una leggerissima asimmetria nell’attaccatura della lamina fogliare.  Esemplare di notevoli dimensioni e in posizione dominante dinanzi all’imponente costruzione regale, è particolarmente affascinante perché appare  scavato all’interno e rinato dalle sue stesse viscere.  Il possente tronco spaccato alloggia e nutre  nuovi virgulti,  fusti slanciati e giovinetti, arricchiti di foglie fresche nell’incipiente primavera.
Zelkova carpinifolia
Dopo Maria Luigia, il destino della villa e del parco è ancora più disperato e contorto. Dal 1871, il palazzo fu sede di un ospedale psichiatrico, allora si chiamavano manicomi, che arrivò ad ospitare più di mille degenti dopo la seconda guerra mondiale ed fu dismesso negli anni ’70 del ‘900 dopo la legge Basaglia. Solo in tempi relativamente recenti il palazzo e il giardino sono stati ristrutturati e riportati agli antichi fasti per essere ammirati da visitatori e turisti. L’interno è alquanto spoglio perchè depredato dalla contorta storia di qualsiasi ricordo del suo passato. Ma l’albero antico sopravvive. Non so quando il tronco della centenaria Zelkova, testimone attento e silenzioso di tante miserie umane, si sia aperto e spaccato. D’altronde questo è il destino degli alberi antichi, narratori di infinite storie a chi è capace di ascoltarli.

Zelkova carpinifolia
Zelkova carpinifolia è uno delle tre specie di questo genere presenti nell’Eurasia occidentale.  Le altre due sono Z.sicula, endemica della Sicilia e Z.abelicea, endemica di Creta.  Quindi questa l’unica specie non mediterranea ed è anche più strettamente imparentata con le specie dell’estremo oriente (Z. serrata, Z. schneideriana e Z. sinica). Inoltre è una delle specie più antiche, considerata insieme a Z.serrata capostipite del genere(1).

(1)Naciri et al. Species delimitation in the East Asian species of the relict tree genus Zelkova (Ulmaceae): A complex history of diversification and admixture among species. Mol Phylogenet Evol. 2019 134:172-185.doi: 10.1016/j.ympev.2019.02.010.

Globularia

Globularia bisnagarica

Globularia bisnagarica

 

Pianta dai molti nomi, quasi uno per ogni regione d’Italia dato che è presente ovunque, conviene chiamarla con il suo nome universale di Globularia, attribuito semplicemente per la forma.  Il nome di questa specie dovrebbe essere vulgaris, essendo certamente la specie più comune,  ma in realta è bisnagarica, di etimologia astrusa(1).

Caratteristica del genere è la presenza di un glucoside, la globularina, che ha una decisa azione purgante, e come tale veniva impiegato dalla medicina popolare, insieme ad altre sostanze, fra cui la  globulariacitrina,  che hanno proprietà stimolanti simili a quelle della teina, ma che possono diventare tossiche a dosi elelvate.

(1)Tutte le fonti suggeriscono che derivi da un nome di origine Nahuat (Messico centrale), che significa circondato da raggi, nome attribuito a una cactacea irta di spine, la Echinocactus visnaga.

Kerria japonica, rosa giapponese

Kerria japonica

Kerria japonica ‘Pleniflora’
monte di Portofino

La Kerria japonica è una rosa giapponese, anche se rosa propriamente non è, e deve il suo nome a William Kerr, botanico scozzese che per primo la fece arrivare in Occidente.  La ricerca delle piante esotiche fu una nobile impresa dei secoli passati che vide in prima linea i britannici, da sempre grandi appassionati di giardini. Erano i mitici cacciatori di piante che si smarrivano nell’estremo oriente divisi fra la passione per la botanica e quella per l’avventura. Dapprima furono i missionari a inviare in patria semi e tuberi di specie botaniche esotiche sia dall’America che dall’Oriente; poi i commercianti di specie ornamentali, capitanati dagli olandesi a caccia di tulipani, al centro della prima grande bolla speculativa ante litteram della storia; infine anche gli studiosi nel Settecento intrapresero viaggi sistematici alla ricerca di piante interessanti  per medicina e farmacopea, per i loro principi attivi, ma anche nuove piante alimentari, o utili per la nascente industria moderna. Moltissime nuove specie venivano esportate in Europa non più solo come seme o radice, ma comeesemplari vivi, spediti via mare grazie ai nuovi veloci Clipper britannici o sulle prime navi a vapore in vere e proprie serre da trasporto, le Wardian Case.

William Kerr era proprio un cacciatore di piante, spedito in Cina da Joseph Banks, suo maestro e superiore nei  Kew Gardens, i giardini reali britannici. Disperso, forse vittima dell’oppio, in quelle terre esotiche, ha lasciato il suo nome a questo fiore generoso che, come altree rosacee, fiorisce prima di avere sviluppato pienamente il fogliame. La cultivar più diffusa in Europa è detta Pleniflora e ha fiori doppi e globosi come ponpon gialli, con doppia fioritura in primavera e autunno, come si vede da questa fotografia, scattata in aprile, e quella che ho già pubblicato qualche anno fa in settembre.

Kerr regalò all’Occidente anche un’altra bellissima rosa orientale, la rampicante Rosa banksiae, che battezzò in onore del suo maestro e di cui parlerò un’altra volta.

Sisymbrium irio, erba cornacchia iridata

Sisymbrium irio

Sisymbrium irio
Montegrosso d’Asti

 

Addossato alla possente scarpatura della fortezza medioevale di Montegrosso d’Asti, questa pianta, esuberante e selvatica, ha già quasi esaurito la sua fioritura e sta producendo i lunghi frutti, silique torulose, ovvero cilindriche, ma alternate da strozzature e rigonfiamenti.

Il genere Sisymbrium è quello della celebre erba cornacchia o dei cantanti (Sisymbrium officinale) e anche di altre specie meno nobili, ma altrettanto efficaci, come l’erba cornacchia biancastra (Sisymbrium erysimoides), che ho trovato in città, alloctona naturalizzata in Liguria.

Questa specie, detta, ma non saprei perchè,  erba cornacchia iridata, è diffusa in tutta Italia, isole comprese. Tuttavia  non ne è documentato alcun utilizzo, ad eccezione dell’uso alimentare in Sardegna, menzionato da Aldo Domenico Atzei nel suo monumentale trattato.  Però il Sisymbrium irio, che è diffuso come pianta indigena in tutto il continente euroasiatico e nel Nord Africa, è utilizzato dalla medicina tradizionale in Pakistan e molto probabilmente nelle regioni vicine, per il trattamento di distubi gastrointestinali, delle vie aeree e del sistema vascolare(1).   Gli autori dell’articolo citato lo presentano con i vari nomi con cui è conosciuto, sia in inglese (London rocket) che in arabo (Khubba) e in urdu (khaksi, khubkalan, shaba), testimoniando quanto la pianta sia importante.  La conclusione della loro ricerca è che l’estratto dei semi ha un effetto broncodilatatore e modulatore della motilità intestinale, probabilmente a causa del blocco dei recettori muscarinici (proteine a cui si lega il trasmettitore acetilcolina, fondamentali nel funzionamento del sistema nervoso autonomo), e ha anche un effetto vasodilatatore a causa del blocco dei canali del calcio.  L’uso tradizionale (in inglese si dice folkloristico, ma questo termine in italiano mi pare fuorviante)  di questa pianta pare quindi confermato da evidenze sperimentali scientifiche, e questo ci conforta non poco.  Resta il dubbio di come mai una pianta così ricca di principi attivi e di efficacia sia completamente sfuggita alla medicina popolare del nostro paese. E’ possibile che nella regione indo pakistana la pianta presenti una composizione  un po’ diversa da quella della pianta italiana.  Il che non è per nulla sorprendente, anzi è assolutamente normale che la chimica dei vegetali dipenda in modo determinante da dove e come crescono.  Si possono trovare differenze molto significative anche in piante della stessa specie provenienti da diverse regioni italiane, o addirittura nella stessa regione. Potremmo parlare del pesto alla genovese che assume un sapore caratteristico con il basilico cresciuto sulla sponde del mar Ligure, ma non altrove, anche se  sempre dello stesso Ocimum basilicum  si tratta.  Oppure  dello zafferano d’Abruzzo, che è più ricco di crocina, un efficace antiossidante, del Crocus sativus coltivato in altre località.  Si tratta di esempi casalinghi, ma altri ne potrebbero fare gli esperti di farmacologia e fitoterapia in tutto il mondo.

(1)Hussain et al. Anti-cholinergic and Ca2+-antagonist mechanisms explain the pharmacological basis for folkloric use of Sisymbrium irio Linn. in gastrointestinal, airways and vascular system ailments. J Ethnopharmacol. 2016 193:474-480 – doi: 10.1016/j.jep.2016.09.028

Kalanchoe fiorita

Kalanchoe daigremontiana

Kalanchoë daigremontiana
Orto botanico di Roma

Kalanchoë daigremontiana

Kalanchoë daigremontiana
fioritura nell’ingresso di casa

E’ passato un bel po’ di tempo da quando ho raccolto i propaguli della foglia di questa pianta, originaria del Madagascar e il cui nome corretto è Kalanchoë daigremontiana, sulle fasce di San Fruttuoso di Camogli, come ho già descritto brevemente in questo post.  Davvero non immaginavo che sarebbe stata così generosa. Fin troppo, direbbe qualcuno.

Il nome popolare americano di questa pianta è ‘Mother of Thousands’ ovvero ‘madre di mille’ e veramente la voglia di proliferare dei propagoli  è dirompente.  Non soltanto attecchiscono subito, generando pianticelle forti e rigogliose,  ma dalle nuove foglie madre si staccano in massa nuovi propagoli  che  germinano velocemente, infestando  con voracità tutti, ma proprio tutti, vasi e vasetti in cui capitano, costringendomi a estirpi massivi per lasciare spazio alle altre piante titolari dell’alloggio.

Nel frattempo ho scoperto che questa Kalanchoë  produce dei bellissimi fiori.  Li ho conosciuti per la prima volta nel 2012, durante una visita all’Orto botanico di Roma, quando ancora i miei propaguli avevano prodotto soltanto fogliame.

In men che non si dica,  la luce e il calore della serra hanno fatto il resto.  Quando la pianta sviluppa un fusto alto e solido, comincia a fiorire.  Cascate di campanelle di un dolce rosa pastello che sfuma nel giallino albicocca, che durano mesi senza palesare segno di stanchezza o disagio.  E meraviglia delle meraviglie, quest’anno un germoglio ha attecchito in un piccolo foro del pavimento della serra ed è cresciuto, cresciuto, fino a farsi tronco e sorreggere anche lui la sua orgogliosa fioritura.

Kalanchoë daigremontiana

K. daigremontiana
cresciuta nella serra

La propagazione asessuata dalla K. daigremontiana è tuttora oggetto di studi, ma per me è soprattutto ammirevole che una pianta che ha propaguli così prolifici si spenda anche in una fioritura così intensa. Esistono specie vegetali che hanno modi di propagazione occulti e casuali, ricercati e improbabili, e specie vegetali che le tentano tutte, ma proprio tutte per riprodursi.

Benchè la K. daigremontiana sia pianta da climi miti, dato che non si spoglia, sopporta un moderato (fino a 5°C) freddo asciutto ed è alloctona casuale e anche naturalizzata in varie regioni dell’Italia tirrenica. Inconfondibile la macchiettatura della sua foglia carnosa, irresistibile l’impulso di rubarle un magico propagulo.

K. daigremontiana ha anche proprietà officinali. Le sue foglie contengono principi attivi simili a quelli delle aloe e vengono impiegate nel trattamento di infezioni e infiammazioni di diversa origine. I componenti più interessanti sono i bufadienolidi, ormoni steroidei che devono il loro nome al fatto che vennero in origine identificati nel veleno del rospo (Bufo). Questi composti hanno proprietà cardioattive, antiallergeniche e anticancro, ma sono anche molto tossici e gli estratti della pianta devono quindi essere assunti con cautela, per periodi brevi.  La pianta viene  utilizzata nella medicina antroposofica per alleviare l’agitazione psichica, l’irritabilità e l’ansia, e nella medicina cinese per alleviare il vomito e la tosse .

Pero corvino

Amelanchier canadensis

Amelanchier canadensis

Ecco i fiori dell’Amelanchier, detto anche pero corvino, sbocciati sul piccolo arbusto che cresce nel mio giardino. Avevo già mostrato i frutti acerbi nel magico parco di Burcina a Biella. Questa specie è la stessa di allora,  Amelanchier canadensis, mentre la specie che è spontanea nel nostro paese,  Amelanchier ovalis,  è  più tomentosa e con petali più sottili. Tipica rosacea, ha appena cominciato a mettere le foglie.  Messa a dimora due anni fa, forse quest’anno assaggeremo i piccoli frutti.