Orzo bulboso

Orzo bulboso

Orzo bulboso
Hordeum bulbosum

Una spiga dorata brilla nel sole del tramonto. Una spiga lunga e slanciata.  Quei granuli luminosi che  sembrano ricoprirla come frammenti d’oro sono gli stami che oscillano al vento, in modo da favorire la diffusione del polline in una pianta in cui l’impollinazione è solo anemogama, cioè facilitata dal vento.
E’ un orzo selvatico, Hordeum bulbosum,  parente povero del generoso Hordeum vulgare, che è stato con ogni probabilità il primo cereale coltivato dall’uomo nella Mezzaluna fertile.  Altre spighe più comuni che si incontrano davvero dappertutto appartengono a un altro orzo selvatico, Hordeum murinum, ispido e pungente, il famoso forasacco che si aggancia al pelo degli animali e può penetrare sotto la pelle, ferendola.  Neppure questo Hordeum bulbosum  è commestibile, anche se tutte queste sterpaglie qualche utilizzo in caso di carestia pare lo avessero.  I semi sono pur sempre riducibili in farina, e dalla farina si può sempre fare il pane. Un pane che però andava consumato sotto i morsi di una fame davvero ostinata.

Sono aspre e tenaci le graminaceae, oggi ridenominate poaceae dal genere più rappresentativo della famiglia,  Poa,  dal greco πόα, erba.  Sono erba per eccellenza e ricoprono le praterie di tutto il pianeta. Ma non solo. In questa famiglia si trovano le più importanti piante alimentari, riso, frumento, orzo, avena, segale, mais per citare solo le più comuni, quelle piante che in un certo senso hanno permesso la sopravvivenza e il consolidamento della razza umana.

Grazie spighetta, pardon spiga.  Chiamarti spighetta come vezzeggiativo creerebbe confusioni. La spighetta è un elemento più piccolo,  l’infiorescenza vera e propria formata da due brattee verdi,  una sopra e una sotto, dette gluma inferiore e gluma superiore, e di un asse longitudinale,  detto rachilla.  Ogni spighetta contiene uno o due fiori senza petali, racchiusi ciascuno fra due brattee più piccole, glumetta superiore ed inferiore, alla cui base si trovano le lodicule, piccole strutture che funzionano da cardini e fanno allontanare le glumette quando gli stami sono maturi e pronti a fecondare il fiore.  Come sono complicate queste poaceae.

Grazie comunque di esistere, modesta e rigida, sui prati sferzati dal sole e baciati dal vento. Anche se non sei un cereale ricco, ma soltanto un’erbaccia selvatica, sempre una nobile e seria compagna di viaggio.

Onopordio, il cardo scozzese

Cardo scozzese

Cardo scozzese
Onopordum acanthium

Una grande pianta, flessuosa ed imponente, mi si para davanti nel mezzo al prato, abbacinato dal sole e scavato dai profondi solchi lasciati dai cinghiali, oltre una breve radura dove ho saccheggiato (previa autorizzazione) il frutteto abbandonato del mio vicino di casa.  Un cardo immenso, dai fusti così spinosi che pungono al solo guardarli. I fiori, ovvero quelli che erroneamente si chiamano fiori, ma sono in realtà dense infiorescenze a capolino, sono di un intenso rosso violaceo brillante. Tutto è irto e acuminato, praticamente intoccabile.  Eppure è un fiore buono da mangiare, e piace agli asini che lo brucano con voracità, provocandosi un disagio intestinale tipico dell’erba fresca, da cui proprio deriva il nome di questa pianta. Onopordum acanthium, composto da ὄνος (onos), asino e πορδή (pordè), peto, e per la specie da ἄκανθα (acanta), spina.

Cardo scozzese

Cardo scozzese
Onopordum acanthium

Si tratta quindi di uno dei tanti cardi asinini, di cui il più comune è Cirsium vulgare, tutti più o meno irti, carnosi e rossi.  Questo cardo si distingue dal fusto decisamente minaccioso, “alato-spinoso percorso per tutta la sua lunghezza da più espansioni alari dentato-spinose irregolari”, secondo la precisa descrizione di Mirna Medri nella scheda di Actaplantarum,  dall’apparenza di coda di drago.
E’ una pianta biennale, cioè non fiorisce nel primo anno di vita, ma steli e germogli, così come i boccioli del secondo anno possono essere consumati un po’ come i carciofi. Impiegato da molte medicine tradizionali come antinfiammatorio, antitumorale e cardiotonico,  le sue interessanti proprietà sono state verificate anche dalla moderna farmacologia.    Inoltre, le infiorescenze contengono un complesso di enzimi proteolitici, onopordosina, che provoca il coagulo del latte e quindi viene usato come caglio vegetale.

Diffuso ovunque in Europa,  è il fiore nazionale della Scozia (“Scotch thistle”).  La leggenda narra che difese gli scozzesi da un’invasione norvegese,  perchè i nemici che volevano sorprenderli procedevano a piedi scalzi per non far rumore;  così quando  calpestarono le foglie taglienti dell’onopordio, si ferirono e  furono costretti a desistere.

Lappolina

Lappolina

Lappolina
Torilis arvensis

Un’ombrellifera da niente, pianticella senz’arte nè parte, che cresce come può e dove può e in quest’estate umida e afosa si lascia colonizzare da ogni genere di piccole creature, afidi e altri generi di pidocchi, le formiche che li pascolano,  e vari ragnetti colorati .  La famiglia si chiama ormai da tempo Apiaceae  dall’esponente più rappresentativo,  Apium,  ovvero il sedano.  Ignoro che cosa suggerisca qual è l’esponente più rappresentativo.

Il genere, Torilis, è una via di mezzo fra Tordylium (cosidetti ombrellini pugliesi) e Caucalis, un altro genere di Apiaceae a cui precedentemente si faceva appartenere questa pianta.

Lappolina

Torilis arvensis– frutti

L’ho incontrata in radi cespugli in mezzo al giardino e cresce anche copiosa sul bordo della strada.  D’istinto la guardo con diffidenza. Conosco quattro o cinque ombrellifere, mi ostino a chiamarle così, e confondo tutte le altre, che mi sembrano tutte uguali.  Ma questa volta ho fatto una sforzo,  i piccoli frutti sono coperti di una fitta peluria, che si rivela formata di aculei sottili con la punta vagamente arrotondata.  Sarà Torilis arvensis?  Gli aculei dei frutti sono attenuati in una punta uncinata, a forma di freccia.  Oppure Torilis japonica?  Questa specie, il cui nome suggerisce un’esoticità che non le appartiene, perchè  è diffusa quasi dappertutto, compreso il Giappone, ha peli semplici, non uncinati.  Credo di poter sopravvivere al dubbio,  fiera come sono di essere in grado di riconoscere un altro genere di ombrellifere,  lo stelo esile e rigido, le foglioline pennatosette, triangolari, appuntite.

Mi incuriosisce di più il nome comune,  un vezzeggiativo gentile, come fosse una di casa. E mi stupisce che questa pianticella non abbia alcun utilizzo pratico, anche se mi conforta non sia classificata come velenosa.

Cardo asinino

Cardo asinino

Cardo asinino
Cirsium vulgare

Gradito agli asini, come molti fra i cardi, ma anche agli esseri umani, Cirsium vulgare è una delle più comune piante spinose che si incontrano quasi dappertutto. Sempre scovo le rosette irsute agli angoli della strade, anche in città. Le foglie possono essere consumate in insalata e i capolini come carciofi.

Nell’esplosione dei suoi colori, il cardo asinino attira, come deve, molte farfalle, che si lasciano cogliere, docili, dall’obbiettivo.

La fama di erba officinale di questa specie così comune ha stimolato indagini più approfondite dei suoi componenti,  identificando glicosidi (composti complessi di uno zucchero e una parte non zuccherina) e flavonoidi (polifenoli tipici delle piante) con attività antiossidante. La presenza di queste componenti nei vegetali è la regola ed è solo il loro dosaggio, la loro sinergia, unitamente all’assenza di principi tossici che rendono una pianta affine a una medicina. La medicina per eccellenza, direi,  perchè senza regno vegetale la cura dela salute dell’uomo e degli animali semplicemente non esisterebbe.

Alstroemeria, il giglio degli Incas

AlstroemeriaE’ fiorita di nuovo l’alstroemeria arancione, piccola meraviglia dalle montagne del  Sudamerica. L’avevo già incontrata e mostrata qualche anno fa nella sua versione rosa, quando ancora era poco conosciuta e potevo permettermi di sbagliare il nome. Oggi non più, quando già da alcuni anni sopravvive in giardino e prospera vicino all’alchemilla, e anche se fiorisce molto più tardi di quelle in commercio nei vivai, mi dà sempre grandi soddisfazioni.

Il nome dato da Linneo a questa pianta è in onore del suo discepolo, il barone svedese Clas Alströmer, che secondo alcune fonti ne portò i semi in Europa.  Secondo una storia più dettagliata, pare invece che  il barone l’abbia semplicemente  portarla da Cadice, in Spagna, a Uppsala, quartier generale di Linneo, guadagnandosi così la dedica immortale. Più che  dal Perù,  come il nome volgare suggerisce, questo genere proviene dal Cile e per alcune specie dal Brasile.  I suo intensi  fiori sono molto particolari.  Più piccoli dei gigli propriamente detti, hanno tre petali, o meglio tepali, del colore dominante e tre tepali interni di un colore simile, ma puntinati.  Perenne e robusta, ne esistono numerosi  ibridi anche da aiuola che hanno conquistato il mercato. La varietà arancione è probabilmente un ibrido di  Alstroemeria aurea,  che cresce nei prati andini di Cile e Argentina. In quelle regioni,  Alstroemeria è un genere di notevole ricchezza e complessità, con specie spontanee di rara bellezza, come l’incantevole Alstroemeria magnifica.

Una varietà rosata cresce alta e flessuosa sulle scalette della casa sopra la mia, che è stata abitata da una famiglia di instancabili collezionisti di piante, e non solo.  La tengo d’occhio, alcune fonti sostengono che non sopravviverebbe più di tre anni e non voglio perderla.

Una spalliera di catananche

Catananche

Catananche caerulea 

Lungo via San Colombano, nei pressi della storica Osteria del Giallo, transitano molte automobili in queste mattine di giugno. E’ una via periferica, defilata, ripida e tortuosa, che tuttavia viene scelta sempre più spesso come deviazione vantaggiosa al traffico congestionato del fondovalle. Una bella strada avvolta dal bosco, costeggiata di cespugli fioriti e prati di colori cangianti. Ma chi guida deve guardare avanti, ha altro di cui occuparsi che dei fiori, e così temo proprio che perderà l’occasione di ammirare, nella sua breve e intensa stagione, uno dei fiori più belli dei nostri prati.

La Catananche caerulea è un’asteracea rara, perchè endemica di un territorio abbastanza piccolo fra Liguria e Piemonte. E’ strano, per me questa margherita azzurra di colore più acceso, ma in fondo abbastanza simile a quello della cicoria, con le ligule sfrangiate, una macchia scura in centro e l’involucro di brattee scabrose e argentee che la racchiude, è un fiore assai comune, che ha popolato tutte le estati della mia infanzia. Già ne ho parlato diverse volte (26 giugno 2008 e 5 giugno 2011, a cui rimando per altre immagini), ma sono sempre lietamente stupita di ritrovarla, puntuale con la stagione calda, a spalancare le sue corolle nel mattino, lungo la strada di casa.  La fotografo ancora, dovesse mai svanire nel nulla.

Si chiama cupidone azzurro, o madre d’amore,  in inglese Cupid’s dart, freccia di Cupido, ed era un ingrediente fondamentale dei filtri d’amore, da cui appunto il nome, dal greco καταναγκάζω che significa forzare, avvincere.  La sua grazia e il suo colore intenso e screziato ne hanno fatto una ricercata specie da giardino.  Nel giardino libero della pubblica strada, la catananche è per tutti quelli che la sanno guardare e apprezzare.

Ma non cercatela dopo mezzogiorno,  a quell’ora la catananche già riposa.

Ontano napoletano

Ontano napoletano

Alnus cordata
Ontano napoletano, Brugnello

Ontano napoletano

Alnus cordata

L’ontano napoletano si chiama anche ontano cordato, perchè ha grandi foglie a forma di cuore, che ricordano vagamente quelle del tiglio, ma sono più spesse e robuste. L’areale originale era l’Appennino meridionale, ma la pianta oggi è diffusa in quasi tutte le regioni italiane. E’ forse il più bello degli ontani, piante magiche, legate al culto dell’acqua (il loro nome Alnus deriverebbe dal celtico al lan, presso l’acqua) e a quello del dialogo con i morti.

Ho incontrato questa pianta  nei pressi della chiesa dei SS. Cosma e Damiano di Brugnello, un minuscolo borgo della val Trebbia, elevato e prospiciente le vertiginose anse del fiume.  La chiesa infatti fu edificata sui resti di un antico castello dei Brugnatelli situato su uno sperone roccioso in posizione dominante.  Il borgo è molto accuratamente preservato e la maggior parte delle porte lignee sono decorate e  scolpite come quella della prima fotografia.  La prima volta che l’ho visto era ottobre (2011), e l’ho riconosciuto facilmente con i suoi frutti a forma di piccola pigna (strobili).  L’ho ritrovato ancora in questi giorni di giugno, con nuove foglie, lucide e luminose, che ancora si stagliano sulla pietra antica della chiesa (seconda fotografia).

Meliloto bianco e giallo

Meliloto giallo

Meliloto giallo
Trigonella officinalis

Meliloto bianco

Trigonella alba

Vecchie conoscenze sul bordo della strada di casa, il meliloto giallo, pianta officinale e il meliloto bianco, parente povero, ma non privo di interessanti proprietà.  Sono piante della primavera matura, che già scivola nell’estate, piante comuni, colorate e vitali. Formano cespi densi nonostante l’esilità dei fiori, ricchi e ramificati.

C’è un po’ di confusione sul nome di questa pianta. Il nome comune è meliloto, di questo non c’è dubbio, oppure vetturina, ma meno diffuso. Ma il nome comune, si sa, conta poco.  Molte basi dati, fra cui EMA, European Medicines Agency, l’organismo più autorevole per le piante medicinali europee, lo chiamano Melilotus, ma è sempre più frequente che gli sia preferito il sinonimo Trigonella, che ne fa un parente stretto del fieno greco (Trigonella foenum-graecum). In entrambe i casi si tratta di nomi che richiamano il trifoglio. Trigonella viene da τρίγωνος cioè triangolare, e si riferisce alle foglie trifogliate. Melilotus significa qualche cosa come ‘loto al miele’, ovvero una specie di trifoglio dolce. Quindi aggiorniamo il nostro vocabolario, senza dimenticare i sinonimi.

Qualsiasi sia il suo nome, quest’erba è un’ottimo foraggio e una pianta medicinale. Le specifiche indicazioni farmacologiche riguardano la funzionalità della circolazione venosa, la cura di ferite difficili e il drenaggio dei liquidi corporei.  Queste virtù terapeutiche sono riconosciute non solo dalla saggezza popolare, ma anche dalla scienza medica contemporanea. I  principi attivi sono la cumarina e i flavonoidi, ma anche svariati altri,  ed esistono farmaci specifici  derivati dal meliloto per la cura delle ulcere diabetiche. Come tutte le piante utili, ha altre applicazioni, per esempio per le affezioni cutanee, dove funziona da calmante nelle irritazioni, allergie e dermatiti. Oltre che un farmaco, ha applicazioni cosmetiche, può promuovere promuovere la rigenerazione dei tessuti, rallentare l’invecchiamento della pelle e ridurre il deposito di grasso che sta alla base della cellulite.

Ho già incontrato il meliloto bianco il 20 luglio 2009 e il meliloto giallo l’8 giugno 2011.

Una nuova violacciocca

Violacciocca

Matthiola longipetala

 

E’ fiorita finalmente anche questa piccola violacciocca venuta da lontano.  La violacciocca dai lunghi petali, Matthiola bicornis, o meglio Matthiola longipetala, non è certamente una specie rara, anche se non spontanea in Italia se non come alloctona casuale in Emilia Romagna. Ma la mia però viene da lontano perchè una bustina dei suoi semi mi è stata regalata da un’amica russa.  Seminata ad aprile, era sputata subito, ma messa a dimora nell’aiuola ha avuto un po’ di esitazioni. Ora i suoi teneri fusti sono pieni di fiori, che sembrano quelli della rucola, ma rosati.  Dicono che soffre il caldo, ma io spero che resista abbastanza da restituirmi qualche semino per l’anno a venire.

Parente stretta di quella Matthiola incana che ha rallegrato il mio giardino per anni (vedi 5 giugno 2009, ma anche qui e qui), il suo nome deriva quello di un famoso studioso del Cinquecento, Pietro Andrea Mattioli, medico e umanista e ovviamente botanico.

Taxodium, il cipresso calvo

Taxodium distichum

Taxodium distichum
parco di villa Schella

Taxodium disticum

Taxodium distichum


 
Nello splendido parco di villa Schella presso Ovada (Alessandria), gli alberi sono a loro agio come nei boschi e trovano spazio e aria per crescere in bellezza.

I tassodi(1), imponenti e nobilissimi, si spogliano d’inverno rimanendo simili ad altissimi pali nudi (vedi 14 gennaio 2009) e questo a differenza della maggior parte delle Cupressaceae, che sono sempreverdi.  Per questo il Taxodium distichum viene chiamato cipresso calvo. Le sue sottili foglie aghiformi sono piatte, un po’ come quelle del tasso, con cui potrebbe anche essere confuso. Ma il tasso è sempreverde, di portamento più rotondeggiante (anche se può sfiorare i 20 metri) e ha frutti carnosi di colore rosso brillante, detti arilli (vedi 14 dicembre 2009). Gli aghi del tassodo cambiano colore con le stagioni, dal verde pallido della primavera a quello scuro dell’estate, fino all’arancio bruono dell’autunno, poco prima di cadere.
Stesso comportamento del cipresso acquatico cinese, Glyptostrobus pensilis, che avevo mostrato in un blog precedente il 22 gennaio 2009.

Originario della paludi del Nord america, anche Taxodium distichum è specie acquatica e un altro dei suoi nomi comuni è cipresso di palude. Può crescere emergendo direttamente dall’acqua e in questo caso si serve di radici aeree, dette pneumatofori (letteralmente ‘portatori di polmoni’), che lo circondano come in un’aiuola (vedi 10 settembre 2008).  Queste radici crescono verso l’alto e possono raggiungere i 3 metri di altezza. Per la sua preferenza degli ambienti paludosi, quest’albero è protagonista di quei paesaggi cupi e oscuri che tanto stimolano la fantasia, atmosfere irreali e ricche di mistero, dove nella penombra frondosa scivolano sull’acqua gli alligatori e il silenzio è rotto soltanto da stridi di uccelli.

Quando il cipresso calvo cresce sulla terraferma non sviluppa pneumatofori perchè non ne ha bisogno. Ma ugualmente si eleva alte e solido verso il cielo, immensi fusti di straordinaria verticalità.

(1)Singolare tassodio, almeno secondo questo dizionario. Vedi anche una piccola discussione sul nome italiano di quest’albero nel post del vecchio blog, 10 settembre 2008.