Colombina magica

Corydalis cava - colombina

Corydalis cava – colombina

La primavera fa scoprire nuovi fiori, inaspettati. Ma sono così presuntuosa da pensare che la mia terra non abbia più segreti per me? Che follia! Ne conosco soltanto una briciola e ogni giorno, in primavera soprattutto, incontro fioriture che riescono a stupirmi perchè non le avevo mai notato prima. Come questa Corydalis, il cui nome volgare colombina o coridalide non mi è più familiare. La guardo e la riguardo, sulla sponda della strada provinciale 586 di Rezzoaglio, proprio in mezzo al paese, a pochi metri dal caseificio. Mi soprendono le sue forme, i fiori tubiformi, che si aprono in piccole labbra (la descrizione botanica è alquanto più complessa e precisa, ma piuttosto indigesta per i profani), e le foglie “cauline, alterne, doppiamente tripennatosette” (questo sì, diciamolo in botanico perchè non si può dire meglio), la compattezza delle spighe, e i colori, screziati e cangianti, dal rosa pallido al bordeaux. Dovrei intravedere la sua somiglianza con la fumaria (Fumaria capreolata, 9 maggio 2008 e Fumaria officinalis, 18 aprile 2010), ma chissà perchè non lo colgo. Penso all’aconito, alle foglie di aquilegia. No, no siamo fuori strada. Corydalis è una papaveracea (la famiglia delle fumariaceae non esiste più), è una pianta comune (e che volevi aspettarti da una spavalda che cresce sul ciglio della provinciale?), ma è anche una pianta famosa, dal nobile passato e interessante presente. Da secoli, probabilmente millenni, la medicina cinese utilizza una sua parente locale, Corydalis yanhusuo per alleviare il dolore; il principio attivo sarebbe un alcaloide, la deidrocoribulbina, che si è mostrata efficace contro il dolore  causato da infiammazioni o traumi.

Che dire della Corydalis cava, la specie più comune dalle nostre parti? Certamente è una pianta velenosa, che può causare intossicazioni. Ma questa è  caratteristica di molte pianti officinali, curative e un po’ magiche.

Tussilago, tussilagine o farfara piede d’asino

Tussilago farfara

Tussilago farfara

Il nome, Tussilago, volgarmente tussilagine, è già un programma. Si capisce subito che si tratta di un’altra erba della tossa, quelle piante che la medicina tradizionale, ma anche la moderna fitoterapia, impiegano per le affezioni respiratorie. Questa pianta presenta una particolarità, che tuttavia non è così straordinaria. I fiori, bei capolini gialli all’apice di fusti squamosi, sbocciano all’inizio della primavera e precedono le foglie di parecchie settimane. Forse a ragione di questo bizzarro comportamento, i fiori mi erano sempre sfuggiti e facilmente confondevo le grandi foglie a forma di cuore, lanuginose sulla pagina inferiore, con quelle di altre asteracee, del genere Petasites. La tussilagine è pianta in realtà assai comune, e molto conosciuta, anche con l’antico nomignolo “filius antepatrem”, dovuto appunto all’apparizione tardiva delle foglie, oppure con nomi dialettali che significano piede d’asino, a causa della forma degli steli. Il suo comportamento non è, dicevo, poi tanto straordinario, esistono molte altre piante che fioriscono prima di mettere le foglie, per esempio moltissimi alberi, tutti i pruni da frutto, mandorlo, ciliegio, albicocco, pesco e via dicendo, e alberi grandi come i noci e noccioli, ma anche arbusti come la ginestra maggiore (Spartium junceum, 27 maggio 2008).  Anche se le foglie sono in ritardo, le virtù officinali della pianta si ritrovano già nei capolini, da cogliere quando ancora semichiusi perchè se maturano in soffioni, come può accadere anche durante l’essiccamento, perdono le sostanze terapeutiche. Come spiega con precisione Bruna Bianca Accame (in ‘Piante di casa nostra’, De Ferrari  editore, 2001), per l’uso officinale i fiori vanno sempre raccolti ancora in boccio. Sia i fiori che le foglie hanno altri molteplici utilizzi nella medicina popolare, dalla cura della distorsioni a quella della crosta lattea, fino ad applicazioni cosmetiche per prevenire le rughe.

La tussillagine cresce rigogliosa su suoli argillosi ed è per questo considerata infestante dei coltivi. Ma essendo una pianta perenne, questa sua caratteristica può anche essere utilizzata per creare coperture dove non cresce quasi nulla, o dove si vuole evitare la crescita selvaggia di altre erbe infestanti. Con il vantaggio che all’inizio della primavera il tappeto si coprirà di capolini gialli. La fioritura è molto precoce. Nella foto di questa pagina l’ho incontrata nei primi giorni di aprile in provincia di Alessandria, nel comune di Costa Vescovato, presso la cooperativa agricola Valli Unite.

La magia dei fiori di corniolo

Corniolo

Cornus mas

Il corniolo, albero schivo e tenace, fiorisce precocemente a partire dal mese di febbraio. Nel bosco spoglio di fine inverno, il sottobosco regala gioielli di inaspettata bellezza, come i crochi e le epatiche e, fra qualche giorno ancora, primule e scille (7 e 11 marzo 2009).
Sembra che gli alberi non abbiano niente da dire, gravidi di gemme marroncine, ma ancora addormentati. Finchè non ci si imbatte in una romantica (oggi è San Valentino) fioritura gialla. Queste corolle sono così microscopiche che bisogna davvero mettercisi d’impegno per ottenere una messa a fuoco decente. Per oggi mi accontento di quello che ho.

Del corniolo ho già detto e  molto ancora si potrebbe dire, pianta alimurgica e officinale, con proprietà tintorie, legno lucente, insostituibile. C.mas, corniolo maschio, è protagonista di leggende agli albori della civiltà mediterranea, dal cavallo di Troia alla fondazione di Roma.

Ippocastano

Aesculus hippocastanumAesculus hippocastanumQuesto è un post vagamente “ot” per un blog che si chiama fiori e foglie. Dove sono i fiori, o per lo meno le foglie? L’albero è nudo e benchè le sue forme siano ancora nette e solide, occorre riconoscerlo dalla sue spoglie, detto alla dantesca, le foglie secche dimenticate dal vento sul selciato. L’ho riconosciuto, è un ippocastano, albero di cui ho già parlato numerose volte(1). Albero imponente e tranquillo, la leggenda vuole che i suoi frutti siano graditi ai cavalli e altre leggende ne suggeriscono l’utilizzo negli armadi per tenere lontane le tarme. Di quest’ultima proprietà, ho testimonianze contrastanti.  Nell’infanzia ricordo quel soprannome, castagne matte (matto in Liguria significa fasullo, e quindi non commestibile e si dice dei tanti funghi del sottobosco che non hanno nessun utilizzo), tuttavia affascinanti, così levigate e splendenti. Sulle colline della mia infanzia, terra del castagno, quello vero, non c’erano tanti ippocastani e quest’albero mi richiama piuttosto qualche borgo del vicino Piemonte, dove si erge sempre a sentinella di castelli e chiese. Ma avrei potuto incontrarlo anche in un viale di città, come lo celebra Primo Levi.Damasco di Lorsica

Qui siamo a Lorsica, città metropolitana di Genova, bassa altitudine, ma dirupi estremi. Quest’albero si trova di fronte alla chiesa, eretta sul ciglio di un tornante. Le chiese di Liguria, diceva il poeta Vincenzo Cardarelli, sono “come navi che stanno per salpare”.
Lorsica è un comune sparso,  una manciata di frazioni anche molto lontane fra di loro. L’emigrazione del secolo scorso e la fuga verso la città ha decimato la popolazione, oggi ridotta a meno di 500 residenti. Ma tante sono le testimonianze del lavoro e dell’indomabile volontà della gente, le nobili sete damascate, la resistenza partigiana.

 
(1) le foglie prima che cadano (10 dicembre 2008 );
germoglio;
fiori;
un parente

Abete di Douglas

Abete di Douglas

Pseudotsuga menziesii
Kirk nel dicembre 2014

Molto ci sarebbe da dire su quest’albero, uno dei più maestosi della terra, secondo per altezza solo alle sequoie della California. Riprendo allora oggi quello che scrivevo di lui il 9 gennaio 2009, subito dopo un’abbondante nevicata.

– Sul retro della mia casetta cresce un abete di Douglas, o Douglasia, che chiamiamo familiarmente Kirk.  E’ un albero molto alto e imponente e, come gli altri abeti, non teme la neve. Ha pigne rosse, pendule, con caratteristiche brattee chiare, a tre denti, che sporgono tra le squame brune. Quando sono mature lasciano cadere i semi, pallette rossicce, a forma ovoidale, e poi si staccano intere dal ramo. Ai piedi dell’abete di Douglas c’é uno strato perenne di aghi, pigne e semi, una lettiera ricca di humus. Con buona pace di chi è ancora convinto che ‘gli alberi sempreverdi non perdono mai le foglie’.

Abete di Douglas

Pseudotsuga menziesii
sotto la nevicata del gennaio 2009

Il nome volgare di ‘abete’ è ricco di ambiguità. Le pigne della Douglasia sono più piccole di quelle dell’abete rosso e non si sfogliano come quelle dell’abete bianco. Quindi non è né Picea, né Abies, né tantomeno Pinus. Non è neppure una Tsuga, o pino canadese, anche se a quest’ultima deve forse assomigliare se il genere si chiama Pseudotsuga. Il nome di quest’albero è rimasto indissolubilmente legato a quello di un botanico scozzese del primo ‘800 ( si chiama anche Pseudotsuga douglasii) che lo riportò in Europa dal Nord America. Dico lo riportò perchè pare che prima dell’ultima era glaciale, la Douglasia crescesse anche da questa parte del mondo (ma actaplantarum non prende in considerazione quest’ipotesi e la definisce’esotica neofita casuale’).

Anche Kirk è oggetto di qualche contestazione familiare. E’ decisamente sproporzionato per la posizione in cui è stato costretto a crescere. E’ alto, ingombrante, e fa ombra ai pannelli solari. Gli aghi, i semi e le pigne intasano gli scarichi delle gronde. Ma vederlo così, tutto intero, immensamente alto, e diritto, e perfettamente conico, certo incute un reverente rispetto. E un timido affetto. E un po’ di magone pensando a una decisione che potrebbe essere presa, prima o poi. –

Abete di Douglas

Pseudotsuga menziesii
Coni vecchi e nuovi

Oggi, nove anni dopo, Kirk è ancora lì. E’ decisamente cresciuto, si è alzato di almeno cinque metri, anche se il suo tronco è rimasto assai snello. La sua altezza incombe sulla mia casa e su quella dei miei vicini, ma le tempeste di vento sembrano appena accarezzargli la sommità. A primavera, i suoi morbidi coni sono teneri e verdi. E la passiflora si arrampica sulle sue chiome, su sempre più su.

Foliage

Gli affascinanti colori delle foglie autunnali sono un enigma. Perchè mai le foglie proprio poco prima di andarsene, quando è già avviato l’inesorabile processo che le conduce alla morte programmata si vestono di tinte sgargianti e sfumature ricercate? Ma chi glielo fa fare?

Foglie autunnali di Ulmus minor

Ulmus minor

I fiori primaverili sono variopinti, ma per un ottimo motivo, devono attirare gli impollinatori, blandirli, talvolta ingannarli. Altrimenti non si scomoderebbero a farsi così belli e si limiterebbero a tutelarsi e proteggersi, come i fiori di paglia delle graminacee, piante che per riprodursi si fanno aiutare soltanto dal vento.

Foglie autunnali di Castanea sativa

Castanea sativa

Ma i colori dell’autunno a che servono? Soltanto alla tavolozza dei pittori? Certamente ne conosciamo l’origine, sono dovuti a flavonoidi, carotenoidi e antocianine,  sostanze che quando la clorofilla indietreggia prendono il sopravvento ed escono dall’ombra. Le foglie si preparano a una metamorfosi che non solo muta il loro aspetto, ma le rende progressivamente meno aderenti al ramo che presto abbandoneranno.

Foglie autunnali di Diospyros kaki

Diospyros kaki

Le sostanze che danno il colore alle foglie d’autunno hanno una serie di effetti benefici sulla pianta che si appresta al meritato riposo. Tuttavia una ragione semplice per tinte così accese non si trova facilmente.

Il colore più sorprendente di tutti è il rosso. E non solo perchè è così scenografico, ma perchè mentre il giallo e l’arancione derivano da flavonoidi e carotenoidi che la pianta produce in tutte le stagioni, il rosso deriva dalle antocianine che molte foglie cominciano a fabbricare proprio nella stagione autunnale. Ma perché?

Phytolacca americana

Phytolacca americana

Sono state fatte le ipotesi più disparate. Servono a proteggere le foglie senescenti da qualcosa? Forse a ritardarne la caduta?  Oppure a proteggerle dai parassiti? Ma ora che le foglie non stanno più nutrendo la pianta attraverso la fotosintesi, perchè sprecare preziosa energia per accudirle? Alcuni  scienziati hanno proposto che viceversa la produzione di antocianine serva a facilitare l’accumulo  di sostanze tossiche sulle foglie, che presto lasceranno la pianta aiutandola a disintossicarsi. Altri preferiscono accontentarsi della soluzione banale: le antocianine non verrebbero prodotte per motivi funzionali, ma sono semplicemente una sorta di sotto-prodotto dell’invecchiamento.

Foglie autunnali di Celtis australis

Celtis australis

Ma si può anche immaginare qualche spiegazione un po’ più soddisfacente. Ci sono piante che hanno foglie rosse in tutte le stagioni e chi le cresce sa che l’intensità del colore aumenta quando la luce è più forte; sembra quasi che le foglie si abbronzino e le antocianine agiscono da fotoprotettore.  In modo simile, l’intensità del colore rosso nelle foglie autunnali aumenta con la luce, ma anche con le temperature fresche (ma non gelide) e lieve siccità. Quindi anche durante la senescenza le antocianine contribuiscono alla schermatura dei cloroplasti fogliari dall’eccessiva luce solare (1); ma non solo, contribuiscono anche ad accrescere le capacità antiossidanti e la tolleranza alle basse temperature(2).

Ceriana (IM)

Ceriana (IM)

Però non tutte le foglie autunnali sono rosse, ed evidentemente la produzione di antocianine non è l’unico meccanismo di difesa. Piante diverse in condizioni ambientali differenti utilizzano altri meccanismi e altre molecole per rispondere alla rigidità della stagione. Può essere proprio questa varietà di comportamenti a creare tutte le sfumature di colore che rendono così affascinante il bosco d’autunno.

(1) Feild et al. (2001) Why Leaves Turn Red in Autumn. The Role of Anthocyanins in Senescing Leaves of Red-Osier Dogwood. Plant Physiology 127:566–574, https://doi.org/10.1104/pp.010063

(2)Zhang et al. (2019) Accumulation of Anthocyanins: An Adaptation Strategy of Mikania micrantha to Low Temperature in Winter Front Plant Sci10:1049. doi:10.3389/fpls.2019.01049

Felci, queste sconosciute

Ho appena terminato di leggere un libro molto divertente, Diario di Oaxaca, di Oliver Sacks. Questo eclettico neurologo era anche appassionato di chimica (Zio Tungsteno) e di botanica. In questo libro, racconta un breve viaggio nella regione di Oaxaca, in Messico meridionale, al seguito di un gruppo di singolari amatori delle felci, soci dell’American Fern Society. Questo territorio è uno dei più ricchi al mondo per la varietà di felci, ma nasconde molte altre curiosità e tesori che naturalmente l’insaziabile Oliver non si lascia sfuggire. Per esempio, nei pressi della città di Oaxaca, la capitale, sorge uno degli alberi più maestosi del mondo, l’albero di Tule, cipresso di Montezuma (Taxodium mucrunatum), secondo alcuni (ma non è confermato) l’albero più antico del mondo.

Polypodium vulgarisMa tornando alle felci, piante solo apparentemente dimesse, esse sono in realtà esseri affascinanti. Sono fra le creature viventi più antiche sulla terra emersa e possiedono un sistema riproduttivo complesso e misterioso che non cessa mai di sorprendermi. Una volta si chiamavano crittogame, a significare ‘piante ad accoppiamento nascosto’, in contrasto con le piante cosidette ‘superiori’ (ma superiori a chi? queste scale di valori sono ridicole) che si chiamavano fanerogame, ad accoppiamento palese. Le felci mascondono i propri organi riproduttivi, quasi con pudore, addirittura si camuffano in altre spoglie per riprodursi. Che contrasto stringente con le piante più moderne, che viceversa ostentano, con spocchia quasi pacchiana, i loro organi riproduttivi nelle forme spesso sgargianti e fantasmagoriche dei fiori!

E’ la loro timidezza che Sacks e i suoi amici amano soprattutto delle felci, piante lievi e sommesse, che brillano di verde lucido anche in autunno.Così oggi ho deciso di riprendere due post del mio vecchio blog, rispettivamente del 9 e 12 novembre 2008. Ecco il primo, dedicato al Polipodio, o felce dolce.

“Da qualche giorno sto a curiosare su rocce e muri umidi (nel frattempo continua a piovere). E naturalmente ho rincontrato lui, una vecchia conoscenza. Quanti ricordi. Da bambini lo chiamavamo reganisso, credo una deformazione dialettale della parola liquirizia. Quando si riconoscevano le foglie sui muri umidi come questo, si tirava fuori la bianca radice, che è poi un rizoma, cioè un fusto sotterraneo, da cui si dipartono sottili radici marroncine. Il rizoma del polipodio è fibroso e dolce. Ripulito alla bell’e meglio della terra e della pellicola esterna, si succhia avidamente.

Adiantum capillis-veneris

Capelvenere

E’ un po’ amaro, ma sa irrimediabilmente di liquirizia. La liquirizia, quella vera, si ottiene dalla radice di una pianta delle leguminose che si chiama Glycyrrhiza glabra ed diffusa nel Mediterraneo orientale ed anche in Italia. Il polipodio é una felce, quindi una pianta molto differente dalla liquirizia, ma il suo rizoma contiene la sostanza glicirrizina, che é poi il principio attivo dell’estratto di liquirizia e quella che le conferisce il sapore caratteristico, dolce e aromatico. I rizomi, essicati, di polipodio a volte si trovano anche in vendita. Ma vuoi mettere l’emozione di tirar fuori la radice dal terreno e succhiarne l’umore, un po’ acre, stritolando fra i denti la scorza così terrestre, umida, coriacea, dolce. Quanti ricordi.”

E poi il secondo, dedicato al capelvenere, una delle felci più delicate e attraenti.

“Cresce copiosa sui muri umidi, coprendo con le sue morbide chiome, lunghe fino ad oltre mezzo metro, grondanti pareti di roccia. Le sue foglioline verde tenero sono molto decorative ed usate anche dai fiorai. Conosco un posto, non lontano da casa mia, dove è particolarmente abbondante e lussureggiante e lì l’ho fotografata domenica scorsa, durante un breve intervallo fra violenti scrosci di pioggia. Era coperte di gocce, ma asciutta. Perchè il capelvenere ama l’acqua, ma non si inzuppa, mai. Felce della famiglia delle Pteridaceae , deve il suo nome agli steli, neri e sottili come capelli (ma Venere non era bionda?), ma anche al fatto che dalle sue foglie si ricavava un infuso utile al benessere delle chiome. Ha altre proprietà e veniva usata per curare affezioni delle vie respiratorie. Contiene anche una misteriosa sostanza che aiuterebbe a guarire dal vizio del fumo e dell’alcool. Di più non so. Ho smesso di fumare diversi anni fa, e senza capelvenere. Penso però che le felci, come gli equiseti, siano tutte piante un po’ magiche, antiche e primitive possiedono virtù che si perdono nella notte dei tempi, di cui si è persa memoria e parole.”

Sorbo torminale

Questo post è una rielaborazione di quello originariamente pubblicato sul mio vecchio blog il giorno 16 ottobre 2008, con il titolo Sorbo selvatico. Continuo a riprendere i post più anziani, un po’ per rinfrescarmi le idee, magari talvolta correggendo qualche inesattezza (ma gli errori gravi rimarranno tutti) e un po’ per averli più accessibili, su pagine giornaliere invece che mensili. Le foto originali sono più piccole, e anche aprendole non si ingrandiscono granchè; quella più recente si apre 800×600-

Sorbo torminale

Sorbus torminalis

 

L’autunno ci sovrasta, anche se la temperatura è ancora più che gradevole e la pioggia si fa ancora desiderare. Ma le foglie, già affaticate dall’arsura di questa estate, sono ormai sfrangiate e disperse. Ancora di più ai bordi delle strade, là dove le piante lottano ogni giorno per conquistarsi spazio e aria e fluidi vitali. Stropicciate e scolorite sono le foglie nella foto a sinistra, tanto che a stento le riconosco. Ma alla fine sì, è proprio lui, non un acero, ma una rosacea, del genere Sorbus, il sorbo torminale o sorbo selvatico, in contrapposizione al sorbo domestico.
Chiamato anche sorbo montano, o ciavardello, talvolta addirittura corbezzolo (anche se certo non in Liguria dove il corbezzoolo è il ben più celebre Arbutus unedo), quest’albero dal nome curioso si incontra nei boschetti di mezza montagna.

Sorbo torminale

L’esemplare della foto qui a destra cresceva  (ottobre 2002) proprio sulla sommità della Rocca dell’Adelasia, nell’entrotera di Savona, un bel punto panoramico da cui si contempla l’imponente e placida cerchia delle Alpi dominata dal Monviso. Tutt’intorno circondano la rocca splendidi boschi di castagni e faggi. Più fortunato del fratello cittadino, era carico dei piccoli frutti, oggi ignirati e negletti, ma in passato graditi e consumati per alimento e medicina, perchè ricchi di vitamine.
Sorbus torminalis è uno dei primi alberi che tinge il bosco di rosso. Appartiene al genere Sorbus, come il sorbo domestico (Sorbus domestica), il sorbo montano (Sorbus aria e 8 settembre 2008), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia, 2 agosto 2008) o l’esotico sorbo del Cashmire. Tutti questi alberi, assai comuni nei nostri boschi, si assomigliano non tanto per la forma delle foglie, che sono al contrario di fogge assai diverse, composte e sottili, lisce o dentellate, oppure ovali ed ampie, o profondamente lobate, come quelle del ciavardello; piuttosto sono simili nella caratteristica dei frutti, bacche che crescono a grappoli, commestibili, ma solo a maturazione avanzata, anche se certo non prelibate. Cibo per poveri e uccelli. Bacche medicinali. Le sorbe del ciavardello venivano impiegate per curare le coliche e la dissenteria, e dal latino tormìna, che significa colica, deriverebbe il nome scientifico della pianta.

Clematide fiammella

Clematide fiammella

Clematide fiammella o Fiammola
Clematis flammula

Sorella quasi gemella della più nota Clematis vitalba, faccio un po’ di fatica a riconoscere come clematide fiammella questa bella pianta rampicante di fronte al ‘castello’ del parco di Villa Pallavicini a Pegli (Genova).  Sono tornata nella villa dopo quasi cinque anni dall’ultima volta, che risale al 2 gennaio 2010, in una assolatissima giornata invernale che fu preludio a una abbondante nevicata. Eravamo saliti fino alla sommità della collina dove si erge appunto il castello, a quel tempo inaccessibile e pesantemente vandalizzato. oggi una paziente e accurata opera di restauro sta restituendo a questo gioiello di parco romantico la natura scenografica che lo ha ispirato. Il castello è in parte diroccato, ma solo a causa dell’attacco nemico della finzione scenica.
E in un’estate torrida e avara di fioriture, mi saluta all’ingresso questa pianta coperta di gioiosi e delicati fiori bianchi. Proprio come una vitalba. Ma vitalba non è, e quindi comincia la mia solita caccia agli elementi identificativi che per me non riesce mai ad andare molto oltre una goffa osservazione da dilettante. Tutti gli esperti però concordano, clematide vitalba e clematide flammella sono molto molto somiglianti,  e le principali differenze risiedono in due precisi caratteri morfologici: fiammola ha foglie bipennatosette, mentre vitalba le ha semplicemente pennate, e i sepali pelosi solo nella pagina inferiore, mentre vitalba li ha pelosi su entrambe le pagine. Semplice no? Niente affatto naturalmente, tanto più che la forma delle foglie di questa pianta in particolare mi confondono abbastanza le idee.  Per fortuna mi aiutano le fotografie, ampiamente disponibili in rete, e ne trovo molte con foglie proprio simili alla mia, e che, a dir la verità, di bipennatosette non hanno granchè. Alla fine mi riconcilio con il mondo verde, osservando la grazia modesta e prorompente di una pianta selvaggia, ma non troppo.