E’ arrivata la stagione dei cisti, fiori selvatici e affascinanti dalla bellezza elegante ed effimera. Frase questa che probabilmente si adatta alla maggior parte dei fiori spontanei. Il cisto rosa della foto a destra è originario della collina imperiese, si chiama Cistus albidus, anche se il colore dei suoi petali varia dal rosa acceso al lilla delicato, con il centro illuminato di giallo. Molto simile al cisto fotografato sotto a destra (che riprendo dal post del 4 maggio 2009, nel mio vecchio blog), che fiorisce sulla sponda livornese e si chiama Cistus incanus, nome che nuovamente suggerisce il colore bianco, quando ancora una volta i suoi petali, esili e spiegazzati, brillano di tutte le sfumature del rosa, ma solo raramente sono bianchi. La differenza fra le due specie di cisto l’ho imparata ieri, e sta molto semplicemente (anche noi dilettanti llo possiamo capire) nell’attaccatura delle foglie, che i C.albidus sono sessili, cioè senza picciolo, mentre in C.incanus sono picciolate. Inoltre C.incanus è oggi più correttamente denominato Cistus creticus subsp. eriocephalus
Tabacco
Tutte le solanacee sono piante stregate. O meglio stregone. Piante dalla doppia vita e identità, cibo e piacere, veleno e morte. Chi più del tabacco, una foglia che ha ucciso decine di milioni persone, ne ha reso succubi della dipendenza miliardi, ha provocato guerre e schiavitù, e fruttato all’industria 300 miliardi di dollari?
E tutto questo soltanto perchè questa piccola pianta opportunistica contiene un alcaloide che le serve per tenere lontano insetti e parassiti, una sostanza denominata nicotina. Che sta in buona compagnia di altre sostanze simili, come l’anabasina, entrambe feroci antagonisti dell’acetilcolina, il composto endogeno che presiede alla trasmissione neuromuscolare. Anche se non è solo o tanto l’avvelenamento acuto che uccide, ma l’assuefazione lenta e le sue conseguenze più subdole.
Le solanacee sono piante stregate. Ma sono anche belle. Molte piante sono velenose, ma non occorre assaggiarle. Molte piante contengono sostanze estranee che sarebbe meglio evitare. Ma il fatto che possano nuocere chi le consuma o le respira non toglie nulla al loro fascino.
Nonostante la tossicità, anche il tabacco ha i suoi parassiti. Il più importante è il fiabesco bruco Manduca sexta, un lepidottero sfingide che ha probabilmente ispirato il brucaliffo di Alice nel paese della meraviglie (semplicemente ‘caterpillar’ nell’originale Alice in Wonderland). Tutto raccontato con ricche foto da Andrea Bonifazi in questa gustosissima pagina
La mia foto è scattata all’orto botanico di Genova.
Rosmarino
Scrivevo il 21 dicembre 2008:
Dove banchettano le api d’inverno? Certo sui fiori del rosmarino. Si può raccogliere anche il miele d’inverno, miele di rosmarino. Siamo a dicembre (ma secondo i testi la stagione della fioritura dura tutto l’anno) e una delle piante di rosmarino del mio giardino sta aprendo i suoi timidi fiorellini azzurri. Coraggiosa e spavalda nel giorno più corto dell’anno, il solstizio d’inverno. Come sempre accade, il tempo meteorologico si fa beffe del calendario e oggi è stato una giornata limpida e tiepida, dopo lunghe settimane ‘autunnali’ di gelo e tempesta. Ma il rosmarino non se ne è preoccupato troppo. E’ pianta mediterranea, docile e resistente. E’ difficile vederla soffrire e le sue foglioline appuntite sono sempre graziosamente verdi e lucide, nonostante tutto.
“Sogno, scrive il giardiniere Paolo Pejrone1, una montagna coperta di minuscoli fiori azzurri durante i lunghi inverni piemontesi.”
Il rosmarino è pianta dalle infinite virtù. Il suo semplice odore, dice sempre Pejrone, aiuterebbe a rinverdire e far riacquistare vigore alla memoria. E’ poi un ingrediente fondamentale nella ricetta di un elisir di lunga vita, con origano e salvia, tutte macerate nel vino. Non pretendo tanto, una pianta decorativa e morbida, odorosa e saporita, e fiori che sbocciano nel gelido squallore dell’inverno non faranno la vita più lunga, ma certo la rendono più leggera.
Invece, la varietà di rosmarino nella foto a sinistra, strisciante o ricadente come si preferisca denominarlo, fiorisce in primavera.
1In “In giardino non si è mai soli”; Feltrinelli
Radicchio
Hyoseris radiata è un’altra pianta alimurgica, usata nella zuppa lucchese di magro e certamente anche nel preboggion ligure. Riprendo per lei un post antico del mio vecchio blog (11 marzo 2010), a cui voglio dare una nuova visibilità.
Siamo nella stagione della raccolta delle erbette di campo, per chi ha tempo e fantasia per dedicarsi a questa occupazione e ai suoi sapori. Con il nome di radicchio sono conosciute erbe anche parecchio differenti fra loro, composite dai bei fiori colorati, non necessariamente gialli, come per esempio Cichoria intybus che il fiore ce l’ha azzurro. E’ sempre naturalmente il nome scientifico che fa testo, mentre i fiori non contano perché per lo più quando la pianta è fiorita le foglie non sono più buone a nulla. Nel caso di questa pianticella, le foglie sono inconfondibili, stracciate in segmenti a dente, che tendono a sovrapporsi. Per il resto è un’altra margherita gialla, la corolla luminosa, solare, singola sullo stelo come il tarassaco, ma più esile di quello.
Mandragora
L’assolata costa siciliana, in un novembre che aveva i colori dell’estate, mi ha regalato il primo incontro della mia vita con un’erba magica che pensavo non avrei mai incontrato. La specie più famosa, Mandragora officinarum L., dalla fioritura primaverile, non si incontra più in Italia. La sua presunta magia le derivava non tanto dall’umore, tossico e medicamentoso, che contiene, quanto dall’inquietante e straordinaria forma antropomorfa della sua radice. Un po’ stilizzata nella stampa antica, credenze popolari le attribuivano virtù afrodisiache capaci di aumentare la fertilità.
Oggi sulle coste italiane meridionali si incontra abbastanza facilemente questa specie autunnale, dalle grandi campanule azzurre. Mescolata a erbacce di campo, non bisogna confondere la sua foglia, ampia, ovale, verde carico con ampie nervature carnose. Mi chiedo se anche la radice di questa specie ha la forma bizzarra della leggenda. Ma resterò nel dubbio, già abbiamo perduto la officinarium, proteggiamo almeno questa autumnalis senza sradicarla. E lasciamola alle farfalle.
Fotografata sulla costa di Palma di Montechiaro (Agrigento), presso il castello detto del Gattopardo perchè appartenuto alla famiglia Tomasi di Lampedusa, in una mattinata limpida e fresca, prima della notte oscura di Parigi.
So poco di Palma, una piccola città sconosciuta, ornata di chiese e edifici barocchi, dove abbiamo acquistato deliziosi dolcetti di mandorla in un convento di clausura. Leggo però che questa cittadina è stata la settimana scorsa teatro di un oscuro episodio di violenza con il rinvenimento di un rudimentale ordigno nei pressi di un orfanotrofio, una bomba di piccolo potenziale esplosivo, ma certo in grado di far molto male a un bambino che l’avesse manipolata. Strane coincidenze e tristi realtà, oltre le favole e le leggende di piante e castelli.
Ficus macrophylla, l’albero più grande d’Europa
Ecco un altro albero venuto da lontano e piacevolmente (per lui) acclimatato nella soleggiata Sicilia. In realtà più che semplicemente acclimatarsi, parrebbe ne abbia preso sconsideratamente possesso.
Secondo l’autorevole parere dell’Accademia dei Georgofili, riportata qui dal prof. Giuseppe Barbera, il Ficus macrophylla subsp. columnaris, di piazza Marina a Palermo con i suoi 10.000 metri cubi di chioma fogliare è il più grande albero d’Europa. Sotto le sue chiome, la domenica mattina, si svolge un animato e piacevole mercatino delle pulci (vedi foto a destra). La specie è più conosciuta con il vecchio sinonimo, Ficus magnolioides Borzì, un nome che fa riferimento alla somiglianza della sue foglie con quelle della Magnolia grandiflora, con la quale continua ad essere confuso. Tanto che i palermitani chiamano queste piante ‘magnolie’ ed esiste un viale costeggiato da questi fichi che si chiama appunto Viale delle Magnolie.
Ma è naturalmente nell’orto botanico, dove non mancano altri esemplari che contendono il primato al gigante di piazza Marina, che tutta la storia dei fichi magnolioidi palermitani è cominciata. E proprio lì leggo le loro gesta.
Nel suo ambiente naturale, l’isola di Lord Howe in Australia, il Ficus macrophylla subsp. columnaris comincia la sua vita come ‘epifita’, ovvero avvinghiandosi ad altre piante senza tuttavia diventarne un vera e proprio parassita. Gli uccelli si cibano dei suoi frutti e trasportano i semi disperdendoli sui rami più alti, dove essi germogliano. Dopo un breve tempo di crescita, le giovani piante emettono radici aeree che si spingono fino a terra trasformandosi in pseudo tronchi che sostengono e nutrono la pianta. Questi pseudo tronchi si fondono insieme formando una gigantesca e compatta massa legnosa indistinta che progressivamente ingloba e inviluppa la malcapitata pianta ospite. L’albero possiede anche delle grandi radici tabulari a forma di lama che principalmente servono a mantenere l’equilibrio. Queste radici emergono dal terreno spesso estendendosi fino a lunga distanza. Le foglie coriacee hanno la lamina superiore glabra di colore verde scuro e quella inferiore lanuginosa e color ruggine. Le infiorescenze, siconi o fichi, sono raggruppati alla sommità dei rami. Esse non producono frutti in Italia perchè manca l’insetto impollinatore specifico (1).
L’esemplare delle foto fu introdotto nell’orto botanico all’inizio del 1800. Da qui si è diffuso e sparso in tutti i parchi e giardini della costa siciliana. Oggi si incontrano comunemente individui di proporzioni monumentali la cui crescita esuberante ha irreparabilmente trasformato l’ambiente immediatamente circostante, comprese le costruzioni. Insieme al Ficus aurea, una specie originaria della Florida e ad altre specie di varia provenienza, questo Ficus costituisce un gruppo noto come ‘fichi strangolatori’ o ‘necat plantas‘, piante assassine, in ragione delle loro abitudini di crescita aggressiva, nella quale inglobano ogni altra pianta o materiale che trovano sul loro cammino.
Ricordo che si può, anzi si deve, cliccare sulle immagini per vederle più grandi
(1) La straordinaria storia dell’impollinazione dei fichi è raccontata nel bellissimo libro di Giuseppe Barbera “Tuttifrutti” Mondadori, 2007
Ceiba a Palermo
Ceiba speciosa, detta albero bottiglia o addirittura “palo boracho” cioè albero ubriaco, cresce in Sicilia con prorompente vitalità. E’ capitato spesso che specie importate da luoghi esotici si siano acclimatate fin troppo bene sulle coste mediterranee, soprattutto nel sud. Quest’albero però è bello, ed originale, e si fa voler bene. Fiorisce a profusione fino a novembre inoltrato e i suoi fiori sono grandi, pesanti e riccamente colorati, dal bianco al giallo, al rosa fino al lilla più intenso. Originario del Sud America, è stato importato nel secolo XIX nell’orto botanico di Palermo da dove si è diffuso nelle zone vicine. Nell’orto botanico, ci sono ampi viali di Ceibe, alte sui loro curiosi tronchi bombati e ricoperti di spine legnose. La incontro di nuovo sul belvedere di Monreale, accanto allo storico chiostro, da dove si gode una vista spettacolare sul golfo di Palermo.
Ma già la conoscevo, come Chorisia speciosa, il suo nome precedente, e se non ne avevo visto i fiori, ne avevo incontrato le bacche, e le spine, nei pressi della villa Pallavicini di Pegli (Genova) e precisamente di fronte al Museo Archeologico ligure (vedi post del 9 gennaio 2010).
Come dicevo allora, ” il suo robusto tronco tende a gonfiarsi in modo curioso, assumendo un po’ la forma di otre. E’ proprio a causa di questa proprietà che può essere chiamato albero bottiglia, soprannome che condivide con altre piante, sempre tropicali, ma alquanto diverse, come Brachychiton discolor (vedi 16 settembre 2008). La corteccia del fusto e dei rami è cosparsa di spine, coniche, non saprei dire quanto pungenti, ma certo fastidiose per gli intrusi che volessero avventurarsi a scalarla. I frutti sono grosse capsule e costudiscono i semi racchiusi in una lanugine soffice, che può essere usata per imballaggio, tanto da meritarsi il nome di falso kapok.”
La Ceiba appartiene alla famiglia delle bombacaceae, nome che già fa pensare a una struttura bombata, insieme al mitico baobab, alla cugina Ceiba pentandra, da cui si ricava il vero kapok, e a vari altri ‘alberi del cotone’, come l’indiana Bombax ceiba (28 febbraio 2010). E’ grazie al fantastico clima delle nostre coste che possiamo vedere da vicino alcune di queste meraviglie della lussureggiante natura tropicale.
Aconito, l’erba veleno
L’aconito sfoggia dense spighe di grandi fiori blu dall’elegante forma di elmo o di cappuccio. Fra i suoi nomi inglesi c’è proprio monkshood, cappuccio di monaco. Ma anche devil’s helmet, elmo del diavolo, perché la fama di questa pianta, piuttosto comune in tutta l’Europa temperata, dai Balcani alla Francia all’Ucraina e pure apprezzata come ornamentale, non è certo legata alla sua bellezza. L’aconito, si legge un po’ ovunque, è la pianta più velenosa presente nella flora europea e la sua lunga storia è costellata di aneddoti funesti. C’è chi lo ha scambiato con il rafano e ha grattugiato la sua radice per accompagnare l’arrosto e chi l’ha sgranocchiata ingenuamente durante una gita sui monti. Pochi hanno riportato testimonianza di che cosa sappia.
Doveva essere noto anche in Grecia, perché greco è il suo nome. L’etimologia è controversa, ma qualsiasi ne sia l’origine è certissimo che il primo significato è “erba velenosa”. I nomignoli gli fanno il verso, veleno di lupo, veleno di leopardo, veleno di topo e persino veleno di donna.
Ho già parlato della sinistra fama dell’aconito giallo, suo fratello più rustico e forse meno avvenente, ma altrettanto perfido.
Di questa specie, forse A.variegatus, di una tonalità fra il celestiale e l’angelico, una fioritura sterminata ornava i bordi di una strada collinare della Val Brevenna verso la fine del mese di agosto.
La tossicità dell’aconito deriva dalla presenza di alcaloidi, principalmente aconitina e nepalina, che sono fra i veleni vegetali più potenti che esistono. Essi si legano a proteine essenziali per la conduzione nervosa e il funzionamento del cuore. Questa stessa pianta tuttavia è utilizzata come farmaco nelle medicine tradizionali, prima fra tutte quella cinese, che indica varie metodiche per ridurne la tossicità. Le specie usate dalla medicina cinese sono differenti da quelle europee e sono A.kusnezoffii e A.carmichaeli, ma il loro aspetto è veramente simile alle nostre specie. L’aconitina viene menzionata già nel più antico libro di fitoterapia cinese, Shennong Bencao Jing ( 神农本草经 ), un trattato la cui origine è leggendaria, ma la cui edizione è storicamente collocata fra 200 avanti Cristo e 200 dopo Cristo. Catalogato fra le medicine ad azione violenta, l’aconito è consigliato in casi critici, malattie croniche e di difficile eradicazione, ed anche in tempi decisamente più moderni ne è riconosciuta l’efficacia come anti-infiammatorio, analgesico e antitumorale. La strategia che permette di recuperare queste virtù salutari da un preparato così tossico è appassionante come una formula magica. Si parla di immergere in acqua e sale per giorni, bollire, cucinare a vapore, e soprattutto combinare con altre sostanze, liquirizia, soia, peonia, zenzero, rabarbaro, cannella, che hanno il potere di neutralizzarne il veleno. Quello che chimicamente avviene mediante questi trattamenti è una reazione di idrolisi, ovvero la decomposizione degli alcaloidi diterpenoidi diestere in alcaloidi monoestere, meno tossici, fino agli alcaloidi diterpenoidi non-esterificati che non presentano più tossicità. L’aconitina diventa aconina e si converte da strega in fata buona. Ma che ne è della sua efficacia? I cinesi sono convinti che ne mantenga abbastanza per fare dell’aconito un rimedio significativo per malattie cardiache, reumatiche e nella terapia del dolore. D’altronde che servirebbe una medicina che uccide il paziente? Si rammaricano tuttavia i cinesi di non essere ancora riusciti a convincere gli occidentali che i loro metodi di detossificazione siano sicuri ed efficaci e che ancora dalle nostre parti si preferisca guardare quest’enigmatica affascinante ranuncolacea da opportuna distanza.
Lupino ornamentale
Negli ultimi anni ho avuto diversi lupini da fiore in giardino, affini a quel Lupinus polyphyllus che avevo mostrato dopo la fioritura in un giardino botanico polacco (agosto 2010). Quello della foto a destra è nato da una bustina di semi comprata nel 2010 in California, seminato l’anno dopo, è fiorito nell’anno successivo, ma per sole due stagioni. Questo specie di lupino, originario proprio del Nord America, non è una specie pura, ma un ibrido ottenuto dal vivaista inglese George Russel e dovrebbe essere perenne. Ho però ricavato molti semi e l’anno scorso ho provato a seminarlo di nuovo. E’ stato allora che ho imparato a mie spese come il lupino sia, insieme ad altre fabaceae, in primo luogo i piselli, pianta molto gradita a lumache e chiocciole, che si sono moltiplicate in maniera impressionante negli ultimi anni nel mio giardino. Nonostante le attenzioni, e con mio grande dispiacere, nessuna piantina dell’anno scorso è sopravvissuta all’attacco.
Quest’anno ci ho riprovato e ho per ora ottenuto quattro piantine, figlie del californiano a fiori blu, che sono ancora in vasetto, mentre ho acquistato una pianta nuova, che è cresciuta felicemente per il primo mese, regandomi una splendida fioritura rosa acceso. Per poco tuttavia perchè di nuovo i voracissimi molluschi sono tornate alla carica e hanno divorato le basi dei fiori, spezzandoli entrambi in una notte. Tragedia!! Temevo di non salvare il lupino e ho dovuto, mio malgrado usare l’odiatissimo veleno per lumache a palline blu. Lotta impari per le povere chicciole, che tuttavia avevano meritato una lezione. Il lupino rosso, ferito e mutilato, è riuscito con grande coraggio a fiorire nuovamente, un’infiorescenza più piccola e pallida, che ha prodotto almeno due baccelli e forse, quindi, altri semi. Se la mia lotta contro le lumache sarà vittoriosa, potrei avere lupini ornamentali di due colori diversi in qualche anno a venire.
Reichardia grattalingua
Lattughino, insalatina di monte, grattalingua, caccialepre, caccialebbra, latticino, terracrepoli, latticrepolo, paparrastello, più un centinaio di nomi dialettali, è una delle erbette spontanee più ricercate per l’impiego alimentare. Regina del prebogiòn, la mescolanza di erbe selvatiche commestibili usata in Liguria per minestre e ripieni, ingrediente del mazzo delle erbe spontanee della zuppa lucchese di magro, consumata fresca, ma più frequentemente lessa, è apprezzata per il sapore particolare di ‘olive nere’. Ha inoltre proprietà officinali, depurative e lassative.
Eppure ne ho cercato inutilmente informazioni e notizie su testi commerciali per il riconoscimento delle piante che, forse perchè il suo aspetto è così ordinario, frequentemente la ignorano. I testi più competenti, invece, ricordano che di questo genere esistono in Italia due specie, la R.picroides, pianta perenne, comune e diffusa quasi ovunque nella penisola, e la R.tingitana, grattalingua marocchina, endemica delle isole pelagie di Linosa e Lampedusa, oltre a una varietà intermedia, annuale e apparentemente davvero simile a quella più comune. Come pianta alimentare, stranamente, persinoPrimo Boni nel suo “Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche” non la menziona. Credo che sia una svista, invece nei testi di etnobotanica locale ha inevitabilmente un posto di rilievo. E se lo merita. Qui a destra, alla mostra di erbe commestibili dell’Accademia della Zuppa Lucchese di magro, Mura infiore, Lucca marzo 2015