Castagno, albero esotico

Castagno

Castanea sativa
Bavari 26 novembre 2021

Davanti all’arco d’ingresso, retto da colonnette gemelle, del convento di Mariabronn, sul margine della strada c’era un castagno, un solitario figlio del Sud, che un pellegrino aveva riportato da Roma in tempi lontani, un nobile castagno dal tronco vigoroso; la cerchia dei suoi rami si chinava dolcemente sopra la strada, respirava libera ed ampia nel vento; in primavera, quando intorno tutto era già verde ed anche i noci del monastero mettevano già le loro foglioline rossicce, esso faceva attendere ancora a lungo le sue fronde, poi quando le notti erano più brevi, irradiava di tra il fogliame la sua fioritura esotica, d’un verde bianchiccio e languido, dal profumo aspro e intenso, pieno di richiami, quasi opprimente;

Castanea sativa

Castanea sativa

e in ottobre, quando l’altra frutta era già raccolta ed il vino nei tini, lasciava cadere al vento d’autunno i frutti spinosi dalla corona ingiallita: non tutti gli anni maturavano; per essi s’azzuffavano i ragazzi del convento, e il sottopriore Gregorio, oriundo del mezzodì, li arrostiva in camera sua sul fuoco del camino.

Castagno

Castanea sativa

Esotico e delicato, il bell′albero faceva stormir la sua chioma sopra l′ingresso del convento, ospite sensibile e facilmente infreddolito, originario d′altra zona, misteriosamente imparentato con le agili colonnette gemelle del portale e con la decorazione in pietra degli archi delle finestre, dei cornicioni e dei pilastri, amato da chi aveva sangue latino nelle vene e guardato con curiosità, come uno straniero, dalla gente del luogo.

Castanea sativa

Castanea sativa

Sotto l’albero esotico erano già passate parecchie generazioni di scolari (…). .. terminati gli anni di scuola, ritornavano qualche volta in visita al convento, fatti uomini portavano i loro figlioletti come scolari ai Padri, e sostavano un poco a guardar sorridenti e pensierosi il castagno, si perdevano di nuovo.
(Hermann Hesse – Narciso e Boccadoro – 1930)

Padre castagno
fiori  – 23 giugno 2008
padre castagno – 26 settembre 2008
i ricci quasi biondi – 9 ottobre 2008
le foglie prima che cadano – 5 dicembre 2008
sotto la neve – 29 gennaio 2011
frutti –  20 ottobre 2010
le stagioni del bosco – 26 marzo 2021

Vincetossico

Immersi nel sottobosco, i frutti del vincetossico (Vincetoxicum hirundinaria), sono follicoli fusiformi che brillano più lucidi più delle foglie.

Vincetossico

Vincetoxicum hirundinaria

Pianticella assai comune, alta fino a più di un metro, che cresce al limitare dei boschi e lungo le strade di campagna, già ne ho parlato nel vecchio blog (26 giugno 2009), mostrandone i fiori. In questa foto autunnale si intravedono sfioriti, biancastri, riuniti in gruppetti come piccole ombrelle.
Il nome dovrebbe suggerire che si tratti di una pianta velenosa, ma l’etimologia deriva invece da una credenza popolare che gli attribuiva proprietà di antidoto ai morsi di serpente. Primo Boni(1) descrive, con la solita ricchezza di particolari, coloriti e raccappriccianti, l’avvelenamento da vincetossico come ‘uno dei più gravi’ e anche actaplantarum conferma che la pianta contiene un alcaloide affine all’aconitina. Perchè allora avrebbe guadagnato la fama di antiveleno è difficile a dirsi, anche se spesso nella cosidetta cultura popolare si mescolano menzogne e verità, grandi invenzioni e pericolose sciocchezze. Per tutti valga l’esempio della scellerata diceria secondo cui masticare minuscoli pezzetti di Amanita phalloides sia una cura efficace contro le infezioni virali, come raffreddore e influenza. Peccato che anche a piccole dosi questo terribile fungo, forse il più tossico che esista, danneggi il fegato in in modo irreversibile e fatale.
Il vincetossico appartiene alla famiglia delle Apocynaceae, come l’oleandro e la pervinca. Il nome della specie hirundinaria ha indubbiamente a che fare con le rondini, a causa della forma biforcuta della radice (a coda di rondine).

(1) Nutrirsi al naturale con le erbe selvatiche – Ed. Paoline, 1977

A proposito di plumbago…

Plumbago capensis

Plumbago capensis

Il suo nome completo, Plumbago capensis, dice tutto di lei. Tradotto letteralmente sarebbe plumbaggine del Capo, perchè azzurro è il colore del piombo e la pianta è arrivata fin qui da quell’incredibile fucina di specie vegetali che è il Sud Africa. Ormai è una di casa e scoprirla non sorprende più quasi nessuno. Così oggi non mi soffermo sul suo aspetto, mazzetti di piccoli fiori celesti, tubolosi, con la corolla a cinque lobi, su steli sottili e fragili, bisognosi di un sostegno; oggi ne guardo la collocazione. Anni fa l’avevo fotografata accanto all’immancabile vite americana, mentre si abbarbica alle pareti della grande scala padronale di villa Grimaldi, nei parchi di Nervi, antica residenza nobiliare che vanta uno dei più bei giardini della Liguria (vedi anche 9 agosto 2009).

Plumbago capensis

Plumbago capensis

Ma si accomoda bene anche in giardini più modesti, e mi sorprende, quasi selvatica, sul bordo di cemento di una fascia, sulle colline di Bavari. Dietro l’angolo fa capolino un mazzetto di fiori blu che sembrano caduti lì per caso. La plumbago ama il sole e qui se lo gode tutto, su questo crinale aperto verso il mare lontano. Dall’altro la sorveglia una vite, europea in questo caso, già ingentilita dai colori dell’autunno.

Topinambur

Il topinambur (Helianthum tuberosus) è il fratello tuberoso del girasole (Helianthus annuus).

Topinambur

Helianthus tuberosus

Nonostante arrivi da terre lontane, e il nome abbia un suono davvero arcano, è una pianta sfacciatamente comune, che si è trovata molto bene dalle nostre parti ed è anche apprezzata in cucina. E’ slanciato ed esile, con lunghe foglie, e viene utilizzato anche per bordure decorative, o frangivento, più nei campi che nei giardini. I suoi tuberi sono commestibili e si preparano come le patate, di cui si dice possano rappresentare una degna alternativa; oppure un sostituto di fortuna, perchè se alla fine la patata ha avuto la meglio, qualche ragione ci sarà.
Proprio come le patate, viene dall’America, ma dal Nord, e precisamente dal Canada, e fu importato in Europa dai francesi nel 17° secolo. Poco tempo prima, erano arrivati alla corte di Francia alcuni esponenti di una tribù brasiliana dei Topinamba, che, si dice, avevano attirato molta attenzione. Così, sulla scia della popolarità dei brasiliani, queste piante del Nord furono battezzate dai commercianti con un nome con cui non avevano assolutamente niente a che fare. Quando diventarono famosi per le loro  qualità, i nomi volgari divennero molti, da rapa tedesca a girasole del Canada, oppure carciofo di Gerusalemme, ‘Jerusalem artichoke’ in inglese, perchè il loro sapore dolce e delicato ricorda vagamente quello del carciofo.

Topinambur

Helianthus tuberosus

Il topinambur si è trovato tanto bene dalle nostre parti che cresce dappertutto e in questa stagione i greti dei torrentacci sono sgargianti delle sue corolle gialle, un po’ più piccole di quelle del girasole, ritte in gruppi fitti sullo stelo sottile. Si è trovato tanto bene che a chi sceglie di coltivarlo si consiglia di fare attenzione a raccogliere tutti, ma proprio tutti i tuberi, per evitare di ritrovarsi un nuovo filare o campo di topinambur anche l’anno successivo.

Questo post riprende quello pubblicato sul vecchio blog il 4 ottobre 2008

Caprifoglio peloso

Caprifoglio peloso

Lonicera xylosteum

Stiamo allontanandoci a grandi passi dalla stagione dei fiori per entrare in quella dei frutti. Ho già mangiato i lamponi e il ribes nero e i pomodori cominciano a cambiare colore. Naturalmente mi dispiace, i fiori sono molto più affascinanti, sono la giovinezza della natura, il suo spavaldo coraggio. I frutti sono il dono di una madre che si sta disfacendo. Ma non è sempre così, in fondo fiori e frutti cantano la stessa canzone e a volte si incontrano nel controcanto.
Queste lucide bacche rosse non devono trarre in inganno. Nessun dono, nessuna dolcezza, sono tossiche come tante altri figli selvatici del bosco.
Si tratta di una specie abbastanza comune di caprifoglio, Lonicera nigra o meglio L.xylosteum, dal greco ξύλον xýlon legno e da ὀστἑον ostéon osso, cioè dal legno duro come un osso.

Acino alpino

Acino - Ziziphora granatensis

Ziziphora granatensis

L’acino di montagna è una piccola pianta che forma tappeti dal colore intenso su declivi e radure di mezza montagna, verso i mille metri d’altezza, dove l’ho incontrata io, nel parco dell’Aveto, ai margini della spettacolare faggeta del Monte Penna. Accanto a lui, sotto il sole morbido di fine giugno, il pendio era ricoperto di molti altri semplici e straordinarie fioriture, i morbidi cuscinetti rosa del suo parente timo serpillo (Thymus serpyllum28 giugno 2008) e le candide corolle della peverina dei campi  (Cerastium glomeratum).  E poi il giallo brillante dei loti (Lotus cornicolatus) e delle ginestre (Genista pilosa),  e le aggraziate piramidi delle orchidee selvatiche (Dactylorhiza maculata).

Ma qual è il vero nome di questa pianticella?

Essa venne inizialmente battezzata Thymus alpinus L. (basionimo), ma successivamente divenne Acinos alpinus (L.) Moench, nome che si ritrova ancora in molte autorevoli pubblicazioni botaniche. E neppure si sbaglia a chiamarla Calamintha alpina (L.) Lam., o Satureja alpina (L.) Scheele, oppure Clinopodium alpinum (L.) Kuntze.  Da dove sia venuto fuori poi l’astruso Ziziphora granatensis (Boiss. & Reut.) Melnikov (dal greco ζιζυφον zízyphon giuggiolo e da φορέω phoréo portare), e che cosa di lei ricordi il giuggiolo (Ziziphus Mill.), mi è difficile capire. L’attributo specifico suggerisce che la specie sia originaria o quantomeno tipica dell’Andalusia, il regno di Granada in Spagna, come una piccola gemma della Sierra Nevada.

Il nome preciso non è così importante e tutti possono riconoscerla, basta ricordandosi che è una Lamiacea e che i miei grandi mentori del testo ‘Fiori di Liguria’(1) la includono nel capitolo sulle Calaminte. Sono queste piante assai comuni, che sfuggono a una classificazione univoca, talvolta aromatiche, talvolta officinali utilizzate in medicina popolare. Questa specie in particolare, l’acino alpino appunto, non fa eccezione e ne è documentato l’utilizzo nella campagna marchigiana e abruzzese come sollievo alla gola infiammata, ma anche come aromatizzante delle carni, per migliorare il sapore di latte e formaggio e profumare le botti colpite da muffa.

(1)Nicolini G. e Moreschi A. Fiori di Liguria – SIAG Genova 1982 – Notare che eccezionalmente, contro le mie abitudini semplificatrici, questa volta ho aggiunto quasi dappertutto le iniziali dell’autore, che non dovrebbero mai mancare nell’attribuzione corretta di ogni specie, riuscendo così ad aumentare il numero delle parole del post, per la soddisfazione di tutte le app che ne controllano la qualità, nonchè dei botanici seri.

Barba di capra

Barba di capra Aruncus dioicus

Aruncus dioicus

Oggi riprendo un post del 10 giugno 2009, perchè sono felice di aver incontrato ancora nel cuore del bosco questa pianta, modesta e stupefacente.
La barba di capra è il vestito del bosco, delle sue radure meno ombrose, nel mese di giugno. Fiori bianchi, trine, come nuvole leggere e sparse, che si appesantiscono fino ad assomigliare a vapori giallastri mentre appassiscono. La barba di capra si chiama anche asparago di bosco, o asparago selvatico, perchè i suoi turioni, i giovani germogli di colore rossiccio, sono commestibili e prelibati. Ottimi come asparagi, bolliti e conditi con olio aceto sale e pepe … per oggi mi accontento di guardarli nella loro generosa fioritura. Come per altre prelibatezze, bisogna raccoglierli nella giusta stagione e ormai siamo già un po’ fuori tempo. Quando si tratta di foglioline e germogli, non si può pretendere di aspettare i fiori.

Pianta conosciuta fin dall’antichità, il nome Aruncus, dal greco ἠρύγγοσ erýngios, significa esattamente barba di capra per l’aspetto lanoso delle pannocchie; e dioica lo è veramente perchè porta fiori maschili e femminili diversi su piante diverse.

Trifoglio ovvero tre foglioline e …

Trifoglio T.pratense

Trifolium pratense

La parola trifoglio vuole dire solo questo ‘tre foglie’, come la parola shamrock, da gaelico irlandese  ‘piccolo trifoglio’. Nessuna indicazione più precisa, nessuna regola certa, tutte le pianticelle con tre foglioline possono essere trifogli o shamrock. Ne ho raccolto alcune, guardate, confrontate, valutate. A parte la forma delle foglie, queste piante possono essere molto diverse.

Trifoglio T.repens

Trifolium repens

Il trifoglio propriamente detto, Trifolium, è un genere della famiglia delle fabaceae che comprende moltissime specie di cui le più comuni sono il T.pratensis, a fiori rosa, e T. repens, a fiori bianchi. Ma di queste pianticelle ho già detto,come ho già scritto del trifoglio rosseggiante (Trifolium rubens), del trifoglio stellato (Trifolium stellatum) e del trifoglio persiano (Trifolium resupinatum. Un po’ trifoglio è anche il meliloto bianco e giallo (Trigonella) e tutte le erbe mediche della terra.

Medicago lupolina

Medicago lupolina

A cominciare da lei, il magico foraggio Medicago sativa, dai fiori viola, per finire con la più schietta e impudente, la lupolina, lo shamrock che mi hanno portato dall’Irlanda, con le sue microscopiche infiorescenze gialline. Il suo nome specifico non viene da lupo, ma da luppolo, perchè la forma del frutto lo ricorderebbe in miniatura.

Ma non finisce qui, perchè abbandonando le fabacee, si incontra almeno un’altra grande famiglia che il vulgo chiama ‘trifogli’, le ossalidi ovvero Oxalidaceae. Queste pianticelle hanno microscopiche radici bulbose e con grande impegno ed entusiasmo infestano qualsasi giardino si trovino a visitare.

Oxalis articulata

Oxalis articulata

La titolare del nome sarebbe Oxalis acetosella, spontanea dai fiori candidi o appena rosati, ma ormai le più comuni sono l’acetosella rosea, Oxalis articulata, e Oxalis corniculata, con piccoli fiorellini gialli, chiamata acetosella dei campi, anche se spesso i campi li ha da tempo lasciati per i vasi e le aiuole di città. All’inizio della primavera, è facile incontrare anche un’altra ossalide, con fiori più grandi giallo acceso, Oxalis pes-caprae. Le foglie, composte da tre foglioline cuoriformi, sono commestibili e un po’ acidule.

Oxalis deppei

Oxalis deppei

Ma non tutte le ossalidi sono esattamente dei trifogli. Oxalis deppei, o meglio Oxalis tetraphylla (ma quanti nomi hanno le piante?) è una specie coltivata da giardino, nota in Inghilterra come  croce di ferro, a causa della curiosa colorazione a croce delle sue foglie. Ha fiori rosso acceso e se qualcuno la confonde con il trifoglio, ha immediatamente l’impressione di essere baciato da una fortuna sfacciata perchè tutte, ma proprio tutte, le foglie sono a quattro lobi, ovvero hanno l’aspetto di un portentoso quadrifoglio. Forse è per questo che O. deppei è chiamata anche pianta della buona sorte. Ma questo quadrifoglio a buon mercato, così democratico da capitare in mano a tutti, porterà veramente fortuna?

Maggio

In maggio la natura è una ragazza di vent’anni.

maggio alla Cervara

Rosa e Phlomis
Abbazia della Cervara
(Santa Margherita Ligure>)

 

Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un’avventura più lontana
l’intento viso che assembra
l’arciera Diana.

Crataegus monogyna

Crataegus monogyna

Salgono i venti autunni,
t’avviluppano andate primavere
ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d’incrinata brocca
percossa!; io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.

La dubbia dimane non t’impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.

Lupinus polyphyllus

Lupinus polyphyllus

Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.

L’acqua è la forza che ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo
come un’equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito più pura.

Medicago arborea

Medicago arborea

Cisto femmina

Cistus salvifolius

Hai ben ragione tu!
Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizî
del tuo domani oscuro.

Rhododendron - parco Burcina (Biella)

Rhododendron – parco Burcina (Biella)

Maggio Rosa rugosa

Rosa rugosa

T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.

Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.

Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.

(Eugenio Montale)

Le foglie nuove del peccio

Peccio Picea abies

Peccio
Picea abies

In maggio anche l’abete si mette un vestito nuovo. E’ arrivato in questo giardino molto prima di me, forse un albero di Natale per cui si cercava una rinascita. Dopo svariati decenni è alto e vasto e si sbraccia gentile contro il cielo cangiante della primavera.  L’abete rosso, Picea abies, è meglio detto peccio (in inglese ‘spruce’), e peccete sono dette le foreste formate da queste piante, nome che deriva da quello della resina, o pece, di cui è ricco e da cui si ricava la trementina. Si riconosce dai coni, pigne rossicce a squame arrotondate e aderenti, che penzolano dai rami come grossi sigari e quando si svuotano dai semi cadono a terra intere. L’abete bianco (Abies alba, in inglese fir),  invece ha coni che perdono le squame a poco a poco e stanno eretti sui rami più alti.

 Peccio Picea abies

Picea abies

Nei nostri boschi gli abeti non si mescolano al resto degli alberi. In mezzo ai castagni, carpini, ornielli, noccioli,  roverelle, e poco più su faggi e maggiociondoli di montagna, queste stupende conifere si stagliano rigide, separate dalla foresta. Portate qui da interventi più o meno discutibili di rimboschimento sono sempre un po’ spaesate, diverse. Oggi il rimboschimento si fa in un altro modo, quando si fa. Ma abeti e pini venuti da altrove restano e, quasi loro malgrado, diventano protagonisti del paesaggio.
Non è proprio a casa sua in questo giardino il peccio. Di norma prospera dai 500, meglio 800, metri di altitudine sul livello del mare, sulle pendici di montagne più maestose di queste arricciate colline. Talvolta anche qui ha sorretto la neve, quasi felice di tollerarne il peso.  E ugualmente si ricopre di raffinati germogli verde tenero, che teneri sono davvero, una curiosità commestibile, quasi una leccornia, dal vago sapore di limone. L’abete è una specie officinale. In fitoterapia si raccolgono le gemme in marzo, e le  foglie da giugno ad agosto. Sono ricche di vitamina C e hanno proprietà antisettiche e balsamiche.