Dopo aver girovagato per il mondo, dal cipripedio russo all’acero americano, torno sulla strada di casa con quest’asteracea dalla forma singolare. Il fiore assomiglia all’incensaria (Pulicaria disenterica, vecchio blog 21 settembre 2009), ma è circondato da una corona di brattee appuntite, di cui le più lunghe hanno apici acuti e talvolta spinosi. Così, dietro al capolino del fiore, c’è una vera e proprio stella di foglie, da cui il nome comune. L’origine del nome scientifico, Pallenis, ma si può chiamare anche Asteriscus spinosum, è abbastanza arcana, greca evidentemente, forse dalla città di Pallene, forse dalla ninfa che aveva lo stesso nome.
Acero argentato
E’ il più famoso acero americano, importato come albero ornamentale in Inghilterra e nel continente europeo fin dal XVII secolo. Gli aceri sono tutti alberi molto attraenti che si distinguono per il portamento nobile e aggraziato, per il fogliame dai colori cangianti e per i frutti alati, che pendono a grappoli dai rami. Ho già mostrato numerosi aceri nel vecchio blog, troppe volte per ricordarle qui (vedi Acer nel nuovo indice dei nomi scientifici del blog). Ma questo acero argentato, con le sue foglie a cinque lobi distinti e finemente disegnati, è uno dei più belli. Nonostante possa raggiungere i 35 metri di altezza ed abbia un aspetto imponente, è un albero delicato; i suoi rami più giovani ed esili vengono facilmente stroncati dl vento. Si chiama Acer saccharinum, ma non è lui l’acero dello zucchero. Sembra che fu Linneo in persona, forse il più grande botanico dell’era moderna, a sbagliare, scambiandolo per un altro acero, sempre americano, dalla cui linfa si ricava il dolce sciroppo. Il vero acero da zucchero, acero saccarino o acero delle rocce, fu descritto correttamente un po’ più tardi da un altro botanico, Humprey Marshall, che lo chiamò Acer saccharum. La foglia è abbastanza simile, ma i lobi sono molto più arrotondati ed è la forma stilizzata della foglia dell’acero saccarino che compare sulla bandiera del Canadà.
Cipripedio, la scarpetta di Venere
Prima che la stagione delle orchidee sia proprio finita (e ormai manca poco, luglio si avvicina), mi è venuta voglia di qualcosa di speciale, una forma ricercata e bizzarra come quella del cipripedio. Il nome cypripedium viene dal greco, ovviamente, e significa proprio scarpetta di Venere, ma talvolta questo fiore straordinario viene chiamato ‘pianella della Madonna’ come se alla divinità profana della bellezza si dovesse per forza sostituire una regina del cielo più moderna. Di scarpa comunque si tratta, perchè il labello gonfio e cavo ricorderebbe una calzatura. L’unica specie presente, seppure a rischio di sparizione, nel territorio italiano è c. calceolus, dai sepali color bruno violaceo e il labello giallo oro. Anche il nome della specie fa riferimento alla pantofola, questa volta dal latino calceolus, piccola scarpa.
Per l’eccezionalità della forma, e la nobiltà della famiglia, purtroppo è oggetto di raccolta indiscriminata che ne sta compromettendo la sopravvivienza. Ho già detto di come le orchidee siano, tutte e ovunque, a protezione totale in Italia e come sia non solo proibito, ma sciocco e inutile strapparle dal luogo dove crescono. Il cipripedio ha un sistema di impollinazione, fecondazione e sviluppo molto complicato (vedi questa pagina) e impiega quindici anni per giungere a maturazione da seme.
La specie non è segnalata in Liguria ed io non ho avuto la fortuna o la capacità di incontrarla in qualche stazione spontanea, ma l’ho fotografata nel giardino botanico di Pratorondanino, dove era ancora fiorita all’inizio di giugno, insieme ad altre del suo genere. Come questa strordinaria cypripedium macranthos, che viene dalla Russia ed ha sepali e labello nelle sfumature del rosa e del lilla.
Biancospino
Non avevo ancora mostrato i fiori del biancospino (le bacche e le foglie si trovano nel vecchio blog, il 28 agosto 2008), il bianco manto dei boschi di primavera. Corro subito ai ripari, con questa pianta fotografata a Pratorondanino il 2 giugno scorso, contro un cielo di puro azzurro che in questi ultimi giorni si fa alquanto desiderare. Molto ci sarebbe da dire su questo splendido arbusto che cela fra le spine qualità magiche e una storia millenaria. Ma la maggior parte delle storie sul biancospino si trovano già su qualche altra pagina perchè la pianta è grandemente e giustamente famosa. E’ ancora più sorprendente per me scoprire quanta gente ne conosca in verità soltanto il nome.
I fiori del biancospino contengono principi attivi che tranquillizzano il cuore, quietano il nervosismo e l’ansia e aiutano a superare l’insonnia. Così nei manuali di fitoterapia, mentre nei testi di etnobotanica per questa pianta sono menzionati gli usi più svariati, da quelli medicinali contro i malanni più diversi, come ipertensione e raffreddore, a quelli piuttosto magici, come una cura della congiuntivite che consiste nel ‘segnare’ gli occhi del malato con le spine del biancospino in numero di dodici, come gli apostoli (da Camagni et al. Etnobotanica in Val di Vara, ed. Provincia della Spezia, 2009). Fra tutti, quello che garantisce una riuscita sicura è l’uso ornamentale di fiori e bacche, la cui sola vista è certo una piacevole medicina per lo spirito.
Erba viperina
Rincorro questa pianta da un po’ di settimane. In realtà l’avevo vista e fotografata anche l’anno scorso, nello stesso punto, sul ciglio della strada, ma le fotografie scattate allora non mi piacevano granchè. Così mentre passavo sul mio cavallo di lamiera, puzzolente e scoppiettante, sempre mi riproponevo di trovare un altro attimo per fermare un’altra immagine. Prima che finisse la fioritura. E finalmente qualche giorno fa quasi fuori tempo …
Quest’erba si trova un po’ dappertutto, ma in particolare la sua fioritura è abbondante in un punto della strada che forma una stretta gola a valle di una delle fortificazioni che sovrastano la città di Genova, il forte dei Ratti. Un tratto di strada, che si insinua in una stretta curva su un piccolo ponticello, particolarmente selvaggio, e romito, tanto che nel nostro immaginario si è guadagnato il soprannome di curva dei briganti. Nel fossato cresce il carpino nero (vedi nel vecchio blog, 11 giugno 2008), il biancospino e il caprifoglio, e fiori sempre diversi, in questa stagione cardogna (1 luglio 2009), campanule (8 luglio 2009), centauree (22 giugno 2009) e naturalmente erba viperina.
Ci sono varie specie di erba viperina, questa si chiama erba viperina comune, Echium vulgare, ed è, credo, di gran lunga la più diffusa. Tutte le viperine condividono la stessa leggenda, di essere cioè potenti a sconfiggere il veleno della vipera, da cui deriva il loro nome (da echis, greco per vipera). Si narra infatti che una poltiglia masticata delle loro foglie abbia miracolosamente salvato dalla ferita del serpente due eroi mitologici. Ma è soltanto leggenda. Creata dalla fervida fantasia popolare, di quando il popolo osservava le piante con attenzione e interesse, e vedeva nei fiori dell’erba in questione, lievi e sgargianti, la forma di una testa di vipera. Come altre boraginaceae, le foglie sono commestibili, e tutta la pianta ha proprietà officinali e medicamentose. I fiori ‘viperini’ sono rosa azzurro, in ciuffi alti e arcuati, e foglie e steli ruvidamente pelosi, quasi ispidi.
Spinacio selvatico Buon Enrico
Se ho avuto buoni maestri per imparare a conoscere la piante divertenti, non ho avuto una formazione molto approfondita per quanto riguarda le piante alimentari. Conosco soltanto le più comuni, ovvie, come il tarassaco e la borragine; tutte le altre le ho imparate dai libri e, tutt’al più negli orti botanici. Così sono stata ben contenta di aver finalmente potuto fare la conoscenza, ravvicinata, con il famoso farinello buon enrico, o farinello tutta buona, lo spinacio selvatico di cui tanto avevo letto. L’ho trovato nel giardino botanico di Pratorondanino con tanto di doverosa etichetta. Tutto ciò si conviene a una pianta importante. Primo Boni (“Nutrirsi al naturale con le piante selvatiche” – Ed. Paoline 1977) dice che è pianta non sempre facile da reperire, perché da ambiente di mezza montagna (non cresce al di sotto dei 300 m slm) e che si tratta di un vero spinacio, che va trattato in tutto e per tutto e cucinato come lo spinacio coltivato. Come quest’ultimo è ricco di ferro e quindi curativo per le carenze di questo metallo, come le anemie. Paolo M. Guarrera (“Usi e tradizioni della flora italiana” – Aracne ed. 2006) cita molte fonti che lo celebrano come molto apprezzato per l’alimentazione umana, lesso, nelle minestre o semplicemente sul pane. Le ragioni di un nome così singolare nessuno le spiega. L’ipotesi più probabile è Linneo chiamasse questa pianta Buon Enrico in onore di Enrico IV di Navarra, protettore dei botanici. Però esiste una tradizione le cui origini si perdono nella notte dei tempi di chiamare col nome di Enrico le piante che crescevano vicino alle abitazioni e quindi all’uomo. Chi fosse Enrico in questo caso non è pienamente accertato. Comunque il nome buon enrico si ritrova in tutte le lingue europee, in inglese il buon re Enrico. Il soprannome di farinello, comune alle altre piante del genere chenopodium (vedi 24 settembre 2009 nel vecchio blog), non si riferisce invece alle sue applicazioni alimentari. Ma è dovuto al fatto che le sue foglie, spesse e carnose, nella pagina inferiore, sono ricoperte da una patina di cera vegetale, simile a farina, che le rende viscide al tatto. La famiglia è quella delle Chenopodiaceae, ma secondo la nomenclatura più recente sarebbero le Amaranthaceae.
Consolida femmina
Da bambina, nelle mie interminabili scorribande nei boschi, non temevo il veleno dei fiori. I boschi era liberi e freschi come giardini, l’erba morbida, rado il tappeto di foglie. Nei campi l’erba era bassa perchè tagliata regolarmente per foraggio, nei boschi il suolo era pulito perchè in autunno le castagne venivano raccolte ad una ad una. Non avevo paura di erbe velenose, e le assaggiavo quasi tutte. Forse per istinto, ma più probabilemte perchè ho avuto saggi maestri, non ho mai corso pericoli. Ricordo così bene questo fiore che ancora mi sembra di sentirne il sapore sulla lingua. Ma non lo vedevo da tanto tempo, quasi pensavo di essermi sbagliata. Invece è vero. Da sempre, i bambini succhiano i fiori della consolida femmina, c’è una goccia di nettare dolcissimo proprio sotto il tubo della corolla.
Le consolide, famiglia boraginaceae, sono piante officinali, symphytum officinalis consolida maggiore ha fiori di regola violetti e nobili proprietà medicamentose. “Da oltre 4.000 anni porta il nome di “prodigiosa erba” atta a rinsaldare le ossa spezzate… Se hai bisogno di aiuto la consolida non ti deluderà, ma la devi usare con pazienza et molta costanza. Pierandrea Mattioli – naturalista e medico (1500-1577) ” – (da actaplantarum). Ma anche la consolida femmina, un po’ più piccola, con fiori gialli e radice a tubero, da cui il nome symphytum tuberosum, contiene utili principi attivi come cicattrizzante, emolliente e per accelerare la guarigione delle fratture ossee. Questi principi attivi stanno soprattutto nelle radici, la goccia dolce invece sta nei fiori.
Quasi sfiorita ormai a giugno, cresce all’ombra del bosco, di quercia, di castagno, di carpino.
Giaggiolo susinario
L’iris è fiore dal nome feminile, barbata, pallida o graminea che sia, e femminile è la sua grazia e leggerezza, ma anche, perchè no, la sua robustezza che sfida terreni a volte ingrati e stagioni sfavorevoli. Anche quest’anno le iris del mio giardino (vedi vecchio blog 28 aprile, 7 e 19 maggio 2008) sono uscite indenni e più forti da gelo e nevicate e sono fiorite copiose, disturbate appena dalle piogge ahimè torrenziali.
Non esistono soltanto le iris da giardino, ammirate e vezzaggiate dai giardinieri, e ibridate indefinitamente. Ci sono anche le iris selvatiche, che a ibridarsi, se proprio ne hanno voglia, ci penseranno da sole. Questo giaggiolo, spontaneo ed elegantissimo, non è facilissimo da incontrare e io l’ho fotografato all’interno del giardino botanico di Pratorondanino, anche se i curatori del giardino mi hanno indicato stazioni spontanee nei paraggi. Il nome comune deriva dall’aroma di susina che si riconosce nel suo profumo. I fiori a volte sono piccoli, non così vistosi come la ricercatezza della forma suggerirebbe. Le rende giustizia una foto dall’alto, dove appare come una girandola bianca e blu, con arcane sfumature gialle.
Geranio crestato
Il geranio crestato è un geranio di montagna. Cresce nei ghiaioni e ai margini dei boschi, oltre i 500 metri, su terreno preferibilmente calcareo. I suoi bei fiori rosati si aprono ampi in mezzo alle rocce e al centro della corolla si allunga il ciuffo violetto degli stami, sporgenti, persistenti anche dopo la caduta dei petali. Il frutto è un becco di gru, corto e tozzo. I gerani selvatici sono piante semplici e nobili, mi pare di averne già parlato tante volte, ma, anche per citare soltanto i più comuni, ce ne sono ancora tanti da ricordare.
Vedi vecchio blog : Geranium robertianum – 30 aprile 2008
Geranium nodosum – 16 maggio 2009
Geranium molle – 27 marzo 2010
Geranium rotundifolium e Geranium pusillum – 3 maggio 2010
e infine geranium sanguineum.
Cresta di gallo comune
La forma di questo fiore stimola certamente la fantasia. Il suo nome scientifico, Rhinanthus, significa ‘fiore a forma di naso’, la specie, oltre che R. major (vedi più sotto perchè), viene indicata come R. alectorolophus, parola che deriva da due termini greci che significano ‘cresta di gallo’, a causa di una certa somiglianza del fiore con la testa del gallo, in particolare le brattee seghettate ne ricorderebbero la cresta. E poi ci fu il botanico francese Joseph Pitton de Tournefort del XVII secolo che diede al genere il nome di Elephas, cioè elefante, sempre in ragione del vistoso naso.
Quella di questa fotografia dovrebbe essere la specie major, più grande, con il labbro superiore della corolla lungo circa 2 mm, mentre la specie ‘minor’ ha un nasino più corto. La cresta di gallo era assegnata alla famiglia delle Scrophulariaceae, e come diverse sue parenti (l’Euphrasia, 7 agosto 2008; e l’Odontites o perlina gialla, 20 settembre 2009) è una pianta emiparassita. Queste piante sono in grado di nutrirsi mediante la fotosintesi, ma assorbono anche acqua e sali minerali da piante vicine. La classificazione moderna la assegna invece alle Orobanchaceae, famiglia a cui appunto appartengono le orobanche, piante quelle sì totalmente parassite (vedi qui, 23 maggio 2009), inquietanti, ma talvolta bellissime.