Ginestra tubercolosa

Ginestra tubercolosa

Genista pilosa
Ginestra tubercolosa

Che pasticcio, le ginestre!  Ci sono decine di generi diversi, e non oso neppure immaginare quante specie, che sfoggiano le meravigliose farfalle gialle della primavera. Ginestra, sparzio, ginestrino, loto, anche i nomi comuni si sprecano. In questo caso siamo fortunati, si tratta di una Genista,  il nome latino da cui deriva il nostro ginestra. Ma quale? teniamoci forte, in italia esistono più di quaranta specie di Genista, anche se alcune sono molto più comuni di altre e alcune decisamente endemiche regionali.

Perchè questa si chiami G.pilosa può forse essere collegato con la pelosità di foglie e steli, caratteristica peraltro non troppo pronunciata.  Ma da che derivi il suo nome comune, ginestra tubercolosa, è davvero difficile capirlo, perchè tubercoli non ne riesco a vedere.  Belle le sue farfalle gialle, che si aprono con grazia particolare, come pendagli dorati.

Ecco le altre ‘ginestre’ che ho descritto in passato in questo blog:

Ginestra maggiore,  Spartium Junceum – 27 maggio 2008  e  Via delle Ginestre
Ginestra minore, Genista tinctoria 1 giugno 2008
Ginestra spinosa, Genista germanica –  25 maggio 2010
Ginestrino, Lotus corniculatus26 luglio 2011
Ginestrino delle scogliere,  Lotus cytisoides15 aprile 2010

ma anche …

Ginestrella, Osyris alba22 agosto 2018
Ginestrino purpureo,  Tetragonolobus purpureo7 aprile 2010

.. e chissà quante altre ancora

Staphylea pinnata

Staphylea pinnata

Staphylea pinnata

Una pianta abbastanza misteriosa, che credevo esotica e scopro indigena. Come le piante degli ultimi giorni l’avevo incontrata diversi anni fa, verso la fine di aprile, già un po’ sfiorita, lungo il sentiero che costeggia il lago di Albano, scrigno di naturale bellezza e natura rigogliosa, al limitare del bosco di latifoglie. Ha nomi comuni bizzarri, come falso pistacchio e lacrime di Giobbe, quest’arbusto, quasi alberello che si veste di groppi di fiori bianchi. Dal greco  σταφυλη, grappolo, deriva proprio il suo nome, pinnata a causa delle foglie.

Staphylea pinnata

Staphylea pinnata

Unica rappresentante europea del suo genere, famiglia delle Staphyleaceae, vanta parenti in Asia e America, rinomate come essenze officinali. Anche S.pinnata ha le stesse proprietà antiossidanti, e potenzialmente antitumorali, a causa dei polifenoli di cui è ricca.  Ma è pianta rara e più frequentemente impiegata come essenza forestale e ornamentale.

 

Cicerchia veneta

Cicerchia veneta

Lathyrus venetus
Cicerchia veneta

Fotografata ormai quasi sfiorita a fine aprile sul lago di Castel Gandolfo, meglio conosciuto come lago di Albano, la cicerchia veneta, Lathyrus venetus, deve essere stata così chiamata perchè presente soprattutto nella regione del Veneto. Tuttavia mentre è diffusa in tutte le regioni italiane, con la sola esclusione di val d’Aosta e Sardegna,  in Veneto è classificata come ‘non più ritrovata’, cioè si è estinta proprio nella regione di origine.  Singolare destino per una pianta di rustica bellezza, che cresce nei boschi ricchi di sostanza organica, e che seppure non ha usi noti, sfoggia un nome di antica origine che designava una pianta non identificata da cui si estraeva una sostanza definita genericamanete come ‘eccitante’.

La cicerchia o latiro (vedi anche 28 maggio 2008) designa effettivamente una sorta di pisello edibile che però contiene una sostanza neurotossica. Siccome molte specie di questo genere crescono nei campi di vari continenti anche in condizioni di relativa siccità, capitava, e potrebbe ancora capitare, che in carestia le cicerchie fossero consumate in abbondanza, come quasi esclusiva risorsa alimentare(1).  L’assunzione in grande quantità favorisce il manifestarsi in una piccola percentuale di consumatori di una grave patologia neurologica, che porta alla paralisi. La neurotossina responsabile è l’acido ossalildiamminopropionico (ODAP), che assomiglia al neurotrasmettitore eccitatorio glutammato, e per questo inganna i recettori specifici, paralizzando i motoneuroni. Questa patologia, il latirismo appunto, è, come tutte quelle che riguardano soprattuto i poveri, poco studiata. In fondo è facilmente evitabile, basta non avere fame quando non c’è niente da mangiare tranne che le cicerchie.

(1)Singh &  Rao  Lessons from neurolathyrism: a disease of the past & the future of Lathyrus sativus (Khesari dal) Indian J Med Res. 2013;138:32–37.

Crocettona

Crocettona

Cruciata glabra
Crocettona

La crocettona è una pianticella della famiglia delle Rubiacee e per questo simile al Galium verum, caglio vegetale, con cui si potrebbe addirittura confondere, e anche alla robbia selvatica (Rubia peregrina, 24 giugno 2009). Questa specie è certamente più famosa in Spagna che in Italia, tant’è vero che la descrizione su Wikipedia esiste in spagnolo, ma non in italiano.

Nell’Alto Aragona, il territorio più settentrionale o altopiano dell’Aragona, che fiancheggia i Pirenei, viene usata per preparare una tisana digestiva detta “té de Guara”, dalla Sierra de Guara, il luogo dove viene prevalentemente raccolta(1).  In questo, come in altri casi, gli spagnoli chiamano té una serie di bevande preparate con erbe locali che con il té propriamente detto, ovvero Camellia sinensis Kuntze, non hanno niente a che fare.  L’aria di montagna, e dei Pirenei in particolare, deve conferire alla crocettona proprietà e sapore caratteristici, perchè altrove,  ed è diffusa ovunque nell’Europa meridionale,  è un’erbetta di campo senz’arte nè parte e priva di particolari utilizzi, se non quello di occasionale foraggio per qualche erbivoro di passaggio.  Una sua stretta parente, Cruciata laevipes, è soltanto brevemente ricordata nell’etnobotanica di Umbria e Abruzzo per un suo utilizzo come vermifugo, specialmente per le pecore(2).
D’altra parte il luogo di crescita influenza in modo quasi magico  i tratti distintivi di una specie vegetale e la zona di origine è un attributo fondamentale per caratterizzarla.  Si tratta di osservazioni empiriche, ma non prive di fondamento scientifico, e anche la genetica, o forse meglio l’epigenetica,  dovrà a un certo punto trovarne la ragione.

Assai simile, ma decisamente pelosa, è la crocettona comune, Cruciata laevipes.

(1)Pardo de Santayana et al. 2005 Plants known as té in Spain: An ethno-pharmaco-botanical review Journal of Ethnopharmacology, 98:1-19 https://doi.org/10.1016/j.jep.2004.11.003
(2)Paolo Maria Guarrera – Usi e tradizioni della flora italiana – Aracne Ed. 2006

Cipollaccio: Muscari ovvero Leopoldia

Cipollaccio

Leopoldia comosa
Cipollaccio

Il Muscari comosum (vedi 17 aprile 2009) ha cambiato nome e, in onore del Granduca di Toscana Leopoldo II, oggi si chiama Leopoldia comosa.  Almeno dicono alcuni, mentre in altre fonti le due denominazioni vengono considerate sinonimi.  Nè il Granduca nè l’ottimo bulbo a fiori blu se ne avranno a male se dico che non so bene come chiamarlo e in confidenza preferisco  cipollaccio.
Su un punto però concordano tutti con APG III, e cioè sulla nuova collocazione nella famiglia delle Asparagaceae, e non più Liliaceae com’era tempo fa, insieme ad Agave, Hyacinthus e Hyacinthoides e naturalmente Asparagus.

Dei singolari fiori di questa pianta avevo già accennato nel link citato sopra.  Il ciuffo o fiocco  sommitale, di colore viola o blu,  che dà il nome alla specie, comosa cioè chiomata,  è costituito da piccoli fiori sterili, densi e dotati di un lungo peduncolo incurvato verso l’alto.  I fiori fertili, di colore più scuro, quasi bruni, sono invece più densamente spaziati fra di loro e quando maturano si ripiegano verso il basso.   I fiori sterili sono un ingegnoso espediente, hanno lo scopo di attrarre impollinatori, limitando la geitonogamia (autoimpollinazione)(1). Questa per la pianta costituisce  un’inutile e potenzialmente dannosa fatica perchè la costringe a tentare di  portare a  maturazione troppi  frutti.

Muscari

Muscari botryoides
strada di Lucca

Il cipollaccio, come dicevo, è pianta commestibile, anche prelibata.  I bulbi  si possono consumare crudi in insalata, anche se è consigliabile lessarli per attenuarne alcuni principi amari e probabilmente tossici; oppure fritti e messi sott’aceto, proprio come le cipolle.  Si tratta di una pianta archeofita, ovvero già presente nella regione mediterranea come specie spontanea prima della scoperta dell’America e utilizzata in Grecia e medio Oriente già nei tempi antichi, come testimonia il trattato di Pietro Andrea Mattioli del 1568 . In Italia l’uso tradizionale è documentato in Sardegna e nelle regioni del Sud; tuttavia in tempi recenti la specie non viene più raccolta nei campi, ma si preferisce acquistare al mercato quella di provenienza africana(2). E’ anche una specie officinale, diuretica ed emolliente, con proprietà ancora una volta affini a quelle della cipolla.

Incontrato nel bosco, in questa lucida mattinata che preannuncia pioggia, è un fiore singolare e grazioso. Ma il genere Muscari (che a Leopoldia assomiglia parecchio) comprende anche specie a vocazione ornamentale, aggraziate decorazioni da città e giardino. L’infiorescenza immatura, quando i fiori sono ancora chiusi, ha l’aspetto di pannocchia verde blu. Muscari di non saprei che specie ho incontrato per le strade nella città di Lucca (foto a destra) qualche primavera fa, in tutto e per tutto simile ad altre scovate poi in vendita alla fiera Verdemura dove ero diretta.

(1)Morales et al. (2013)  Sterile flowers increase pollinator attraction and promote female success in the Mediterranean herb Leopoldia comosa.  Ann Bot. 11:103-11 doi: 10.1093/aob/m s243

(2)Pieroni et al. (2002) Ethnopharmacology of liakra: traditional weedy vegetables of the Arbëreshë of the Vulture area in southern Italy Journal of Ethnopharmacology 81:165-185  doi: 10.1016/S0378-8741(02)00052-1

 

Arabetta irsuta

Arabetta irsuta

Arabis hirsuta
Arabetta irsuta

L’arabetta, ovvero elogio dell’inutilità.  Nelle sue varie specie, ecco una delle pianticelle più piccole e insignificanti che popolano i nostri prati. Non è pianta alimurgica, nè medicinale. Non ha steli o foglie atti alla confezione di qualsivoglia cose. E non è neppure una pianta tossica. Se consulto l’utile compendio del professor Paolo Maria Guarrera(1), nell’elenco alfabetico delle specie e loro utilizzi tradizionali,  la voce Arabis semplicemente non c’è.  E se scorro le schede botaniche di actaplantarum, solamente una delle specie,  A.alpina,  ha un bollino verde, che indica le piante commestibili, mentre tutte le altre Arabis hanno inesorabilmente un bollino vuoto.  L’arabetta però è pianta molto comune e generosa di microscopici fiorellini bianchi a croce quadrata, come si conviene a una brassicacea, non per niente dette anche crucifere, diffussissima nelle sue numerose forme nei prati di aprile e maggio. Questa nelle foto è  Arabis hirsuta, arabetta irsuta, ovvero pelosa, una delle più frequenti insieme all’arabetta maggiore  Arabis turrita  (vedi 26 marzo 2010),  oggi rinominata Pseudoturris turrita,  ma sempre straordinariamente inservibile.

Arabetta irsuta

Arabis hirsuta
Arabetta irsuta

Caratteristica di questa specie è la rosetta di foglie basali, ovali e lisce, punteggiate di peli.  Foglie che assomigliano  a quelle di Pseudoturris turrita, ma anche a quelle della loro famosa cugina, Arabidopsis thaliana. Quest’ultima è un’altra pianticella assolutamente inutile (così fu appunto definita da un botanico del ‘700), ma che è diventata una specie di stele di Rosetta della genetica vegetale. Tutto o quasi tutto quello che si sa delle biologia molecolare delle piante è stato scoperto grazie agli studi su Arabidopsis thaliana, e proprio in ragione della sua semplicità, che è anche modestia, che rendono la sua riproduzione e crescita veloce ed efficiente.  Mai sottovalutare una pianticella insignificante, chissà che fra qualche tempo anche la nostra arabetta pelosa non abbia storie interessanti da raccontarci.

Per ora la incontro, la fotografo, e un po’ la ammiro, su per le mie colline, in una mattinata di primavera limpida, ma nuvolosa, poco prima della pioggia.

(1)Paolo Maria Guarrera – Usi e tradizioni della flora italiana – Aracne 2006

Lattona

Lepidium draba - lattona

Lepidium draba
Lattona, Cardaria draba, Cocola

Una distesa di ombrelle bianche, fatte di piccoli fiorellini a croce. Penso a un’ombrellifera (apiacea), ma non lo è, si tratta di  una brassicacea.  Il nome del genere, Lepidium, allude alla forma del frutto, siliquette dalla forma di piccole scaglie, e draba per la specie  significa aspro, pungente.  E’ il sapore acre delle foglie, e quello piccante dei semi a cui deve questo nome?  Erba commestibile, ma non particolarmente prelibata, non ha neppure spiccate proprietà officinali.
Anche se uno dei suoi, molteplici, nomi volgari è lattona, non si distingue per proprietà galattogoghe, nè contiene  lattice bianco come la lattuga. Questo nome, credo, è invece dovuto al suo colore bianco, come quello inglese di ‘whitetop’.

Da millenni l’uomo attinge al regno vegetale come a uno scrigno pieno di tesori, una fabbrica di molecole attive, e praticamente tutte le piante hanno un utilizzo pratico. Neppure la lattona ‘whitetop’ è sfuggita a questa razzia, perchè comunque si tratta di una riserva di proteine naturali, come per esempio la perossidasi, con potenziali utilizzi in medicina e biotecnologia.

Ma che sarà mai, la primavera

Storia di una stagione misconosciuta

Dove si narra di due ragazzi che non conoscevano la primavera.

Primavera - Crocus vernus

Crocus vernus

Anemone hortensis

Anemone hortensis

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel paese dove Assim era nato non c’erano molti alberi. C’era tanta sabbia e un largo fiume sonnolento dove le vacche si andavano ad abbeverare, dopo aver mordicchiato l’erba e le foglie degli scarni cespugli lungo la riva. Il sole era molto caldo, di giorno, fermo e implacabile, anche se ad Assim sembrava semplicemente il sole. La notte era fresca, si sarebbe detto fredda, ma per Assim quella era la notte. Stelle scintillanti bucavano il cielo, d’agosto come di gennaio. Edson, invece, era nato in un paese dove gli alberi erano tanti, lussureggianti e grandiosi, un intrico umido e brulicante di vita grande e piccola, verde che più verde non si può, per dodici mesi all’anno.
Assim era arrivato su una barca in una piccola isola luccicante e brulla e poi aveva conosciuto altre isole, finchè il mare era finito ed erano molti mesi che non lo vedeva più. Edson era arrivato con l’aereoplano. All’aereoporto lo aspettava la mamma, tenendo un grande cartello con il suo nome, perché altrimenti non si sarebbero riconosciuti. Fuori l’aria della città era così fredda che tagliava la pelle come una lama.

Primula vulgaris

Primula vulgaris

Ora Edson e Assim abitavano in campagna e andavano al lavoro a piedi, lungo una carrozzabile fiancheggiata da campi e boschi. Durante l’inverno, la neve era stata una bella sorpresa. Ma lo stupore e il divertimento erano durati poco perché quella poltiglia bianca, compatta e gelata, si era sciolta velocemente in rivoli fangosi, scoprendo il grigio pallido della terra brulla. Giorno dopo giorno, né sabbia né verde, Edson ed Assim camminavano sul bordo della strada verso la fabbrica. Assim guardava i suoi piedi sul selciato. Edson dava calci ai sassi e ai legni. Gli alberi intorno alla strada erano nudi come scheletri, inghirlandati dalla galaverna. Fra il marciapiede e l’asfalto, erano imbrigliati ciuffi d’erba gialla, ma qua e là apparivano le minuscole stellarie, bianche, fragili e acquose, e gli occhi azzurri delle veroniche tappezzavano il bordo dei fossi.

Rosa rugosa

Rosa rugosa

Edson aveva dato un calcio a un sasso e quello era finito in un boschetto, sopra uno strato compatto di foglie secche, bucato dagli imbuti rosati dei crochi. “Oh Assim,” disse Edson, usando le parole di chi sa farsi capire anche da chi non parla la sua lingua “hai visto quei fiori?” “Sì, rispose Assim, chissà chi li avrà piantati.” Passarono oltre; ma dopo i crochi, fu la volta delle primule, mazzetti solari che squarciano la nebbia di febbraio, poi gli anemoni bianchi e le scille blu. Ai margini della carreggiata, si accalcavano groppi di violette e lungo i muri spuntavano i puntini giallo rosati della cimbalaria. Quei fiori erano piccole cose sperse nella campagna silenziosa, ma nel deserto del gelo, senza sforzi guadagnavano il primo piano. Poi arrivarono le aquilegie, le veccie e la lunaria viola, gli agli selvatici stellati, le clematidi e le ginestrine, e finalmente, semplici e regali quanto si conviene, le rose.

Prunus avium

Prunus avium

Intanto gli alberi avevano messo in scena qualche cosa di molto più spettacolare. Tutti quei ceppi che parevano morti si coprivano dapprima di piccoli bitorzoli e poi di morbidi fiori bianchi o rosa, di pendenti dorati, e di pennacchi verde pallido. Edson ora taceva, sorpreso, e Assim avrebbe voluto chiedere spiegazioni a qualcuno, ma non sapeva a chi perché nessuno sembrava essersi accorto di niente. Tutti andavano avanti per la loro strada come se nulla fosse, per lo più lamentandosi del freddo, o della pioggerellina insistente.
“Deve essere la primavera,” sentenziò infine Assim, mentre mangiava il panino della sua colazione “ne ho sentito parlare.”
La commessa del bar lo guardò divertita e poi starnutì vigorosamente. “Che stagione balorda,” disse “fa ancora un freddo cane, ma l’aria è già così piena di polline che mi lacrimano gli occhi tutto il giorno.”
“E’ proprio strana questa primavera”, pensava Edson, “fa splendere i fiori e gli alberi, ma fa piangere le ragazze.”
Primavera alla Cervara

Radichella

Crepis leontodontoides - Radichella italica

Crepis leontodontoides
Radichella dente di leone

Nell’universo delle margherite gialle, un’infinità di specie molto resistenti e prolifiche che ci circondano in ogni stagione, un posto di tutto rispetto lo occupano le Crepis, volgarmente dette radichelle. Questa piccola pianticella montana con le foglie seghettate viene detta radichella italica, ma il suo vero nome è Crepis leontodontoides, radichella dente di leone, proprio per la forma delle foglie.

Le piante del genere Crepis sono quasi tutte commestibili, crude come insalata o lessate, simili a tarassaco e cicoria. Siccome occorre raccoglierle prima della fioritura, bisogna riconoscere le rosette, un’abilità ormai alquanto rara. Però la maggior parte delle asteracee e brassicacee a cui la sua rosetta assomiglia sono commestibili o comunque non tossiche, quindi il rischio di scambiare la radichella per qualche specie tossica è molto bassa. Invece molto importante è raccogliere le foglie giovani e fresche, e in quantità, perchè la resa delle erbe selvatiche non è proprio la stessa di quelle che compriamo al supermercato.

Questo fiorellino cresceva su un sentiero di mezza montagna, sulle inerpicate colline genovesi, su un  crinale aperto e battuto dal vento, fra rade roverelle, come quella che le aveva abbandonato una foglia accanto. Non il luogo più adatto per andar per insalate,  ma piuttosto per ammirare le corolle dorate nel sole primaverile.

 

Rhaphiolepis

Rhaphiolepis indica

Rhaphiolepis indica

Rhaphiolepis indica

Rhaphiolepis indica

Conosco questo grazioso cespuglio della famiglia delle Rosaceae, Raphiolepis, solo da qualche settimana e già l’ho incontrato più volte, con fiori rosa o bianchi carnosetti,  le foglie spesse e graziosamente ovali.  Inconfondibile, eppure simile a tanti altri fiori primaverili da giardino, forma siepi compatte e attraenti, come il viburno e la fotinia. Questa è indubbiamente la sua stagione,  proprio in questi giorni dà il meglio di sè, come molti altri del suo genere, peraltro.

Ho fotografato questi esemplari alla Landriana, nobile giardino a sud di Roma nato dall’amore della nobildonna Lavinia Taverna e dall’arte del ‘gardener’  inglese Russel Page. Un ‘gardener’, apprendo durante la visita guidata, non è un giardiniere, nè un architetto del paesaggio, ma è entrambe le cose e molto di più.  Soprattutto un artista che armonizza colori e forme, come un pittore. Dovremmo forse interpellare qualche linguista per scoprire come e se è possibile trovare una parola italiana per ‘gardener’.  Contemplo estatica e ammirata questa meravigliosa opera vegetale.  Anche se devo confessare che la mia anima è più affine al giardino planetario di Gilles Clement, dove c’è posto un po’ per tutto e anche asilo per i vagabondi.

Tornando al Rhaphiolepis, si tratta di un arbusto originario delle zone temperate calde e subtropicali dell’estremo oriente. Quindi la sua coltivazione richiede un’esposizione soleggiata, e un clima caldo e mite, anche se alcune specie (ma non R.indica) tollerano temperature fino a -15° C. Il suo nome comune in inglese è ‘Indian hawthorn’, dovremmo tradurre come biancospino indiano, anche se non vedo grandi somiglianze con il biancospino (Crataegus monogyna), a parte la comune appartenenza alle rosacee. Fra l’altro non mi risulta che Rhaphiolepis sia spinoso, quindi certamente non lo chiamerò biancospino.