Le sorelle pervinca

pervinca

Vinca major
Pervinca maggiore

pervinca

Vinca minor
Pervinca minore

Le sorelle pervinca non sono gemelle, eppure si assomigliano davvero, come due gocce d’acqua. Ma incontrandole insieme, con la loro stupenda e inaspettata fioritura, così precoce da sembrare finta (vedi anche 13 marzo 2009 ) non si può fare a meno che cercare le differenze.  Che ci sono, timide e sfumate, e per i botanici sarebbero essenzialmente tre.

I fiori e le foglie della sorella maggiore (a sinistra) sono più grandi, e questo lo sospettavamo.  Inoltre Vinca major  ha  calice con lacinie lesiniformi, e qui bisogna tradurre. L’involucro che sta alla base della corolla florale ha piccole punte, che però non sono appuntite, ma arrotondate.  Invece la minor, Vinca minor (a destra),  ha il calice con lacinie triangolari, quindi più appuntite. Difficile vederlo in queste foto, forse osservando i boccioli.  Ma per il momento  facciamo atto di fede. Terza differenza: le foglie della maggiore hanno margine ciliato, cioè il bordo delle foglie è sormontato da una leggera peluria, proprio leggera, ma c’è.  La minore invece ha foglie con margini perfettamente lisci.

Ma c’è anche una quarta differenza, che forse non è un carattere diacritico per gli studiosi di botanica, ma che a noi comuni mortali sembra davvero importante. La pervinca maggior ha corolle azzurro violacee, quel meraviglioso blu pervinca per intendersi, sempre;  invece la sua sorellina minore ha corolle azzurro violette, color pervinca, in molti casi, ma talvolta anche bianche o rosa. Così eccoci di fronte a una distesa di fiori preprimaverili, perfetti e identici fra di loro, con le foglie più verdi del verde, a forma di ovale perfetto (ovato-cordate dicono i botanici), e tante corolle, bianche sfumate di azzurro le più minute, e  blu intenso le più grandi, e il colpo d’occhio è magnifico.

Le pervinche fanno parte della famiglia della Apocynaceae, piante dai fiori particolarmente attraenti, come oleandro (Nerium oleander), Hoya carnosa, e falso gelsomino (Trachelospermum jasminoides, 13 giugno 2009).

Oltre alla bellezza, queste piante ricoprono un ruolo importante nella farmacologia tradizionale, e in parte anche in quella moderna.  La loro natura intima è tossica, quindi non sono piante da insalata, ma rimedi. La medicina popolare le ha impiegate come antiemorragiche, diuretiche, ipotensive. Il decotto di 50 grammi di foglie in un litro d’acqua risolve problemi gastrici e, utilizzato per sciacqui, lenisce afte e ferite della bocca; l’infusione di 15 grammi di foglie in mezzo litro di acqua bollente frena la montata lattea. Tutte ricette rigorosomente tramandate e scientificamente incerte.  Finchè non è arrivata  la pervinca del Madagascar… Ma lei merita un post tutto suo.

 

Chaenomeles, cotogno da fiore

Cotogno da fiore - Chaenomeles speciosa

Chaenomeles speciosa

Il cotogno da fiore, straordinaria pianticella che allieta la fine del nostro inverno anche in città, ha davvero molte affinità con il cotogno, Cydonia oblonga, a cominciare dagli incantevoli fiori, e dai frutti, duri e secchi quando vengono raccolti, eppure ricchi di proprietà benefiche e ottimi per la preparazione di marmellate, sciroppi e altre conserve.  Il suo nome scentifico, Chaenomeles,  significa qualcosa come ‘mela che si spacca’, perchè i suoi pomi si spaccano a maturazione.  Più piccoli delle mele cotogne, gialli o rossi, appartengono a quel genere di frutti che devono essere lasciati maturare nelle paglia; o meglio ammezzire, termine che è quasi sinonimo di marcire, ma vuol dire che la polpa deve diventare scura perchè il frutto sia commestibile.

Cotogno da fiore -Chaenomeles speciosa

Chaenomeles speciosa

Tuttavia questa pianta è ricercata soprattutto per la sua fioritura, molto precoce, abbondante e appariscente. I fiori sono rosa acceso, o rosso carminio, o arancio.

E’ una pianta rustica e schietta, che non teme il gelo, nè i miasmi inquinati della città. Leggermente spinosa, ha rami scuri e bruni germogli.  Forse per la sua apparente modestia,  è raramente  menzionata dai giardinieri raffinati, che mi sembra la snobbino un po’.  Come per uomini e cose,  è difficile capire da dove derivi la fama e la gloria di un fiore.  Il caso, la storia, la moda, il mercato.

Per me, lunga vita ai cotogni fioriti.  Ogni anno la ritrovo, quando la stagione comincia a sbocciare, nei giardini di città oppure sulle mie colline, così vicine eppure così lontane dalla città, così inaspettata, così generosa.

La ritrovo anche nel vecchio post del 4 marzo 2009 e in questa pagina.

Cedro deodara o dell’Himalaya

Cedro deodara

Cedrus deodara
cedro dell’Himalaya

Cedro deodara

Cedrus deodara
cedro dell’Himalaya

Il cedro deodara è il più nobile dei cedri,  albero maestoso, longevo, il cui nome significa ‘dedicato a Dio’.  Infatti nella sua terra d’origine, l’Himalaya, è albero sacro, venerato religiosamente. Per questo mi pare sia degno di un post tutto suo, dopo un po’ di confusione del passato. Riassumendo, avevo attribuito a questa specie i cedri del parco della badia di Tiglieto (vedi 1 febbraio 2009), per poi ricredermi assegnandoli più correttamente alla specie atlantica.
Oggi incontro il cedro deodara, in un sabato di sole e vento selvaggio, lungo il bel sentiero botanico dell’eremo del deserto di Varazze.  Dell’attribuzione sono certa anche se non riesco inizialmente ad apprezzarne il portamento, in fila lungo il sentiero, con un giovane esemplare piegato, forse dal vento.  Bisogna alzare lo sguardo per aria per apprezzarne la maestosità e poi guardare le sottili foglie, aghiformi, ma non pungenti, riunite in ciuffetti da 10 a 20 aghi su corti rametti detti brachiplasti.
Simbolo di fertilità e durevolezza, si distingue dai suoi comuni, cioè non divini, parenti per i rami penduli, il fogliame più chiaro, gli aghi più lunghi e soffici.

Cinipedi, gli ospiti della roverella

 Andricus quercustozae - Cinipide della roverella

Andricus quercustozae
su Quercus pubescens

Andricus caput medusae - Cinipide della roverella

Andricus caput medusae

Sui rami spogli della roverella  (Quercus pubescens)  si stagliano, quasi fiori d’inverno, le galle,  escrescenze vegetali dovute a insetti, detti galligeni o cinipedi.  Si tratta di imenotteri, piccole vespe, dalla complessa vita riproduttiva. Le galle sono specie  di foruncoli o verruche vegetali, ovvero tumori come sono talvolta, forse più correttamente, definiti. La pianta li produce come reazione a sostanze emesse dalle larve durante  sviluppo, una reazione quasi esagerata,  gigantesca, in proporzione alle piccole dimensioni degli ospiti.  Per questo gli imenotteri  responsabili si sono guadagnati un nome che ha direttamente a che fare con l’albero che forma le galle, e con la forma di quest’ultime.   Se l’escrescenza è  sferica, con processi anulari in rilievo, a guisa di corona,  il cinipede è Andricus quercus-tozae, che potremmo tradurre ‘cinipede della quercia’. Invece quando la galla ha la curiosa forma  di testa scarmigliata, un ammasso di sottili e lunghi filamenti, il cinipede è Andricus caput medusae perchè l’escrescenza ricorda la testa della mitica medusa, i cui capelli erano trasformati in serpenti.

Quercus pubescens - Roverella

Quercus pubescens

Ho incontrato questa accogliente roverella sul margine del bosco, in una splendida radura assolata nei pressi di un ovile di collina.  I suoi rami sono ingioiellati di galle di entrambe i tipi, ma non sono del tutto spogli.  Come vuole la leggenda (vedi 2 gennaio 2009), la quercia, e soprattutto la roverella,  non perde mai tutte tutte le foglie prima di mettere quelle nuove. Siccome abbiamo avuto molti giorni di vento teso, quest’anno questa pianta ha fatto fatica a tenersene strette una manciata.  Invece le galle l’invadono, tenaci, resistenti anche alle tempeste.

Euryops, l’africana per tutte le stagioni

Cespuglio  di Euryops in fiore
dietro la chiesa di San Cosimo di Struppa

Si trova un po’  dappertutto, in città e fuori, quest’arbusto che viene dal sud Africa, e si fa notare parecchio, come una macchia di sole brillante nel grigio dell’inverno.  L’ho incontrata a Lorsica, in val Fontanabuona, sul margine della strada, una cascata abbondante coperta di fiori.  E poi in città, quasi ovunque, in vasi e spalliere.

Euryops

Euryops a Lorsica (Val Fontanabuona)

Euryops

Euryops pectinatus

La flora del Sud Africa, come quella dell’Australia, è entrata prepotentemente nell’arredo urbano e non manca di regalare nuove scoperte.  Queste margherite gialle un tempo le avrei chiamate  ‘settembrine’, e sono assai simili a certe margherite gialle autoctone o comunque naturalizzate, come Glebionis coronaria (in precedenza chiamata Chrysanthemum coronarium, vedi 10 aprile 2010) o Buphthalmum (29 novembre 2009), che tuttavia ha foglie lanceolate e non frastagliate. Ma altro che ‘settembrina’,  anche se quasi tutte le margherite gialle sono ben ben testarde,  nessuna ha l’impudenza di fiorire così a lungo e con tale tenacia.

Boronia, l’australiana

Boronia crenulat

Boronia crenulata

“Mi chiamo Boronia crenulata. Tienimi sempre bene esposta alla luce del sole. Non tollero bene il freddo, quindi in inverno dovrai mettermi al riparo. Non ho bisogno di troppe innaffiature. Durante gli inverni piovosi dovranno essere sospese del tutto. Il mio substrato ideale deve essere ben drenato. Fiorisco da Gennaio a Marzo.”
Ho comprato questa piantina la primavera scorsa e queste erano le indicazioni che l’accompagnavano. Sono un po’ perplessa, mi sembra proprio che ci sia qualche cosa che non torna.

La Boronia crenulata è una pianta che viene dall’Australia, è aggraziata e docile, cosparsa di minuscoli fiorellini rosa.  Ma che vuol dire quindi ‘fiorisco da Gennaio a Marzo’? Nell’emisfero boreale o in quello australe? E che significa che durante gli inverni piovosi non deve essere annaffiata? Ma non doveva stare al riparo d’inverno? Dalle informazioni mi aspettavo che la mia pianticella  avrebbe velocemente perduto gli scarsi fiorellini che aveva all’acquisto e che mi avrebbe fatto tribolare per passare l’inverno e poi, forse, rifiorire all’inizio della primavera. Niente di tutto ciò, anzi tutto il contrario. Va bene che i nostri inverni non sono mai troppo rigidi, e il peggio potrebbe ancora venire. Ma la piccola boronia si è difesa egregiamente sia dal caldo torrido che dalla neve e da quando l’ho messa a dimora, in una vasca ricavata da una vecchia fontana, non ha mai smesso di fiorire. E’ in posizione soleggiata, certo, e la sua terra è ben drenata.  Ma sole e drenaggio non si negano mai a nessuno. Non so se sono stata particolarmente fortunata, e quanto durerà, ma sono già molto affezionata a questo cespuglietto a cui auguro lunga vita.

Una pianta che patisce il gelo, ma fiorisce d’inverno mi ricorda il rosmarino. Quindi l’ho soprannominata ‘rosmarino australiano’. Anche se non ho nessuna intenzione di usarla per gli arrosti,  ho scoperto che una sua parente stretta la Boronia ledifolia è una pianta calmante, indicata per lenire lo stress e anche che l’olio di boronia è utilizato in erboristeria, profumeria e nell’industria alimentare. Quindi non è velenosa.

Il suo nome deriva da quello di Francesco Borone, un italiano, appassionato di botanica e morto a solo 25 anni nel 1794. Il suo maestro e protettore, il botanico inglese Edward James Smith ha voluto così onorarne la memoria, dedicandogli il nome di un genere di piante che, a dire il vero, il giovane Francesco molto probabilmente non aveva mai visto. La boronia è molto comune in Australia, con quasi 150 specie endemiche, e anche molto coltivata. Boronia si chiama anche un sobborgo di Melbourne, dove si trovavano numerosi vivai. E così lo sfortunato giovane si è trovato a prestare il suo nome anche a un quartiere della capitale australiana.

Jasminum nudiflorum, gelsomino invernale

Jasminum nudiflorum

Jasminum nudiflorum

Jasminum nudiflorum

Jasminum nudiflorum

 

Nudiflorum è aggettivo che si addice a molte specie fiorite in questa acerba stagione. Si dice infatti di piante che si coprono di fiori prima o molto prima di mettere le foglie. Come questo splendido gelsomino giallo, a cascata sulla roccia bruna in un piccolo parco cittadino, la gloriosa villetta Di Negro vicino a piazza Corvetto. Si tratta di un vero gelsomino, genere Jasminum, e non uno degli eleganti usurpatori del genere Rincospermum (vedi 13 giugno 2009).
E’ conosciuto anche come gelsomino invernale, perchè tollera le temperature rigide più di qualsiasi altra specie di gelsomino e d’inverno fiorisce; oppure gelsomino di San Giuseppe, e con qualche ragione, essendo il giorno di San Giuseppe effettivamente ancora nell’inverno. Persino come gelsomino giallo, ma in questo caso non bisogna farsi ingannare perchè esistono altri gelsomini di colore giallo che il freddo non lo sopportano neanche un po’.

Oltre a lui fra poco ammireremo l’effimera fioritura delle magnolie decidue (Magnolia precia, 2 marzo 2009 o altre simili a lei 4 aprile 2010, anch’esse tutte note come nudiflore) e poi quella degli alberi da frutto, prima fra tutti il mandorlo, che, anche se non sono detti nudiflori, si comportano esattamente nello stesso modo.

Ho già mostrato questa specie di gelsomino, fiorito in un giardino di corso Italia,  nel vecchio blog esattamente dieci anni fa (6 febbraio 2009),  non a caso a pochi giorni di distanza dalla stupenda fioritura del mandorlo (14 febbraio 2009).    Mi pare giusto riportare all’attenzione questi piccoli post dimenticati, anche perchè di difficile consultazione.  Dicevo, allora come oggi, che l’inverno, soprattutto quando sta per finire, è sì stagione senza foglie, ma non stagione senza fiori.

 

Robbia selvatica, l’attaccaveste vagabonda

Robbia selvatica

Rubia peregrina

La robbia selvatica (Rubia peregrina) è una pianta sempreverde della macchia mediterranea, rampicante e piuttosto invasiva, con fusto quadrangolare e foglie orlate di minuscoli aculei uncinati,  che la rendono adesiva e le hanno guadagnato il nome popolare di ‘attaccaveste’.  Persistenti non sono solo le sue foglie, ma anche le bacche, ancora attaccate alla pianta dopo l’intensa nevicata che ha imbiancato con prepotenza tetti e crinali. Per un lungo pomeriggio e nella sera seguente, anche le strade si sono ritrovate ingombre e il nostro paesaggio ha cambiato volto. Trascorso il disagio, due giorni di freddo intenso hanno mantenuto la neve sui pendii e nelle zone d’ombra.  Poche foglie a costudire il silenzio della signora bianca. Fra di loro la robbia, volubile e tenace.
Il nome scientifico di questa pianta,  Rubia, si addice di più a una sua sorella,  R.tinctorum, dalla quale si ricava un colorante rosso, la lacca di robbia, contenente alizarina, chinizarina e purpurina.  Rubia ha dato anche il nome a una famiglia di piante, le Rubiaceae.  Ma lei, la robbia selvatica, è solo un rampicante vagabondo, senza arte nè parte, peregrina come un viandante,  a primavera coperta di pallide corolle bianchicce e in estate appicicosa e carica di bacche nere.

Questa notte la temperatura era più alta e la neve è scomparsa, muta come era venuta.

Ho già parlato della robbia in due post del vecchio blog, il 2 ottobre 2008 e il 24 giugno 2009

Le araucariaceae, antichi giganti

Agathis robusta Araucariaceae

Agathis robusta
Araucariaceae

 

Di fronte alla palazzina degli uffici direzionali del’orto botanico di Roma, cresce un albero immenso. Si chiama Agathis robusta e viene dall’Oceania, dove è chiamato pino kauri, o semplicemente kauri.

Agathis robusta - foglie

Agathis robusta – foglie

Il più famoso dei kauri è Agathis australis, endemico della Nuova Zelanda, il cui legno è da sempre utilizzato dai maori per la costruzione delle loro imbarcazioni. Altro prodotto di questo genere di piante è la resina, detta gomma di kauri, un liquido lattignoso che solidifica all’aria e diventa dell’aspetto dell’ambra.
Alberi possenti e incredibilmente longevi, i kauri fanno parte di un’antica famiglia di conifere, le araucariaceae, che ebbe origine nel periodo Triassico, insomma 250 milioni di anni fa, anno più anno meno, anche prima dei dinosauri. Queste piante sono totalmente scomparse dall’emisfero boreale, allo stato spontaneo e fuori dai giardini botanici e parchi, ma ancora se ne incontrano nell’emisfero australe, in Oceania e Sud America.

Nel bellissimo giardino botanico di Prato Rondanino, ho fatto la conoscenza con alcune  meraviglie della famiglia. La più straordinaria è Wollemia nobilis (sotto a sinistra), la pianta più antica del pianeta. Fino al 1994, quest’albero era conosciuto soltanto attraverso alcuni reperti fossili di 90 milioni di anni e ritenuto estinto. Ma proprio in quell’anno, nel Wollemia National Park delle Blue Mountains in Australia, il guardia parco  David Noble rinvenne in un canyon profondo 200 metri 50 esemplari di Wollemia.  Il più grande esemplare oggi è alto 40 metri, con un tronco del diametro di 1,2 metri. Riprodotto per via meristematica (cioè mediante clonazione dalle cellule meristematiche o staminali), è stato distribuito negli orti botanici di tutto il mondo per assicurarne la salvaguardia. Quello di Prato Rondanino è un giardino botanico di montagna e le condizioni possono diventare proibitive per un albero di quel genere. Spero davvero che sia sopravvissuto e non vedo l’ora di andare ad assicurarmene.

Un’altra specie rappresentativa della famiglia è la Araucaria araucana, fra le araucarie più resistente al freddo, e quindi più adatta al clima del giardino, ed è anche la più simile alla Wollemia. L’Araucaria, o pino del Cile, divenne nota agli europei nel 17° secolo ai tempi della conquista spagnola del Sud America. Il nome deriva da quello degli Araucani, una popolazione indigena che abitava la zona dove fu rinvenuto. E’ un albero grande e bizzarro che forma immense foreste millenarie che abbracciano le pendici delle Ande.  Ha un aspetto  inconfondibile, un portamento geometrico e regolare e foglie, triangolari, parzialmente sovrapposte fra loro come le tegole di un tetto e disposte a spirale lungo i rami.  Le foglie dell’araucaria sono straordinariamente persistenti e posso rimanere attaccate ai rami per 10, addirittura 15 anni.

Wollemia nobilis, Araucariaceae

Wollemia nobilis

Araucaria araucana, Araucariaceae

Araucaria araucana

I semi di araucaria erano un nutrimento importante per gli indigeni che hanno dato il nome alla pianta. I frutti venivano raccolti lanciando una pietra legata a una corda, in modo che la fune si attorcigliasse tenacemente a un ramo e permettesse di arrampicarsi.

Purtroppo non l’ho mai incontrata nel suo ambiente originario, ma approfitto di una testimone oculare  molto attendibile.  Ecco che cosa racconta delle araucarie cilene Laura Bonetti nel suo blog di viaggio attraverso la Patagonia : “… La corteccia dell’araucaria è stranissima. Sembrano pezzetti di puzzle, un mosaico… Gli alberi di araucaria maschi fanno dei frutti simili alle pigne.  Mentre gli alberi femmina fanno delle “pigne” molto più grosse e rotonde, al cui interno ci sono i piñones. L’aspetto è quello di un pinolo gigantesco. Ma proprio gigantesco! Alla fine ne raccolgo mezzo chilo… La preparazione è lunga. Dopo avergli fatto un taglietto (come le castagne) li metto a bollire per circa 40 minuti.Poi vanno sbucciati… e finalmente possiamo assaggiarli!!! Il sapore ricorda un pochino quello delle castagne, ma molto più delicato, con retrogusto di pinolo. Buoni!”

Avevo conosciuto altre Araucarie nei parchi di Nervi (Genova) : Araucaria bidwillii  (27 dicembre 2009)  e Araucaria cookii  (29 dicembre 2009), il cui nome corretto è oggi  A. columnaris, e nei giardini di villa Hanbury presso Ventimiglia, Araucaria cunninghamii, tutte originarie dell’Oceania.

Chi prospera e chi resiste

Chi prospera e chi resiste - Calicanto d'inverno

Chimonanthus fragrans

Chi prospera e chi resiste - Alisso

Lobularia maritima

 

L’anno nuovo è cominciato con scorci di limpido sole e aria tiepida, solo a tratti disturbata da folate di vento selvaggio. Il giardino è nitido e spoglio, anche se a ben vedere sono molte le piante che resistono o addirittura mostrano il meglio di sè proprio in questo periodo.

Non soltanto la Camellia hiemalis che ho mostrato ieri, ma anche il calicanto d’inverno (Chimonanthus fragrans)  si è riempito di fiori.

Sull’aiuola più bassa, dove il Solanum non ha ancora smesso di fiorire,  scopro un minuscolo cuscinetto di alisso (Lobularia maritima), coperto di corolle violette, dal dolcissimo odore di miele.

La pianta capostipite di tutti i lamponi (Rubus idaeus, 1 agosto 2008) del giardino, come ogni anziana patriarca che si rispetti, fiorisce ormai assai poco. Ma proprio in questi giorni ha deciso di maturare una drupa, anzi l’agglomerato di drupe detto drupecetum. Così rosso e vulnerabile, probabilmente duro e insapore, certamente  nessuno oserà strapparglielo.

Chi prospera e chi resiste - Rubus idaeus

Rubus idaeus

Chi prospera e chi resiste- Grespino

Sonchus oleraceus

E che dire del grespino (Sonchus oleraceus, 19 febbraio 2009), che cresce nelle crepe del selciato, fra il cemento e le mattonelle, e si alza dritto e deciso, sotto lo sguardo sornione della gatta Patty?  Si adorna sempre, in qualsiasi stagione, di capolini giallo sole, densi, solidi, grassi.  Parafrasando Betty Smith e il suo albero del cielo (Ailanthus altissima), potremmo dire che  “li si direbbe bellissimi, se non fosse che ce ne sono troppi”(1).

Io, invece, osservo attenta e preoccupata quanto è rimasto della piantina di Filipendula ulmaria che spero tanto, ma proprio tanto resisterà all’inverno, e poi si troverà bene dove l’ho sistemata, e crescerà prospera e felice. Spero.

Chi prospera e chi resiste - Filipendula ulmaria

Filipendula ulmaria

(1)Betty Smith – Un albero cresce a Brooklin, New York 1947