Chi sia il buon Enrico non è certo. Forse un re, tanti di loro hanno avuto questo nome, e in particolare il celebre Enrico IV di Francia, già Enrico di Navarra, considerato protettore dei botanici e dell’agricoltura. Oppure qualche Enrico sconosciuto e dimenticato che l’immaginazione popolare ha associato a questa benefica pianta. Quello che è certo è che si tratta di una pianta alimentare, da Linneo classificata come Chenopodium bonus-enricus, ma in tempi recenti ridenominata Blitum bonus-henricus. La famiglia è quella delle Chenopodiaceae ovviamente, la famiglia degli spinaci e delle bietole coltivate, ma anche di erbe selvatiche alimentari, genericamente conosciute come farinello (vedi per esempio 24 settembre 2009).
I farinelli, e il buon Enrico in particolare, sono piante alimurgiche di ottima qualità, benchè anche ricche di acido ossalico e quindi sconsigliate nelle diete di chi soffre di calcoli renali. Ma questa controindicazione, che si riferisce comunque al consumo eccessivo, vale anche per le verdure più pregiate come bietole e spinaci coltivati.
L’aspetto del buon Enrico è allettante, anche se tutt’altro che attraente, ha l’aria di un’erba buona, con foglie croccanti e fiori insignificanti, ma vistosi. Incontrarlo è un piacere, sul limitare di una stradina nella frazione di Villacella, comune di Rezzoaglio (Genova). Questo villaggio ha tradizioni interessanti, una chiesa parrocchiale imponente e i resti di un antico mulino; una lapide ricorda un maestro scalpellino e un’altra un disperso in Russia. Il semplice passato di un borgo di montagna che ancora cresce fra le sue pietre un orgoglioso spinacio selvatico dal nome regale.
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Okra, un ortaggio creolo
L’okra è una pianta della famiglia della Malvaceae. Come le malve e gli ibischi, e come gli Abutilon, cencio molle e acero da fiore, tutti parenti, la pianta dell’okra ha fiori vistosi e aggraziati, che però durano poche ore ed è difficile sorprendere aperti. I frutti sono bacelli verdi, di forma allungata, un incrocio fra un peperoncino e uno zucchino, non rotondeggiante, ma spigolosa. Cava all’interno e ricca di semi, la sua sezione trasversale ha forma di stella. Originaria dell’Africa, è utilizzata un po’ in tutte le zone tropicali del mondo, a cominciare dall’America, dove è protagonista di molti piatti tipici dalla Louisiana al Brasile.
Ho conosciuta questo curioso ortaggio in Texas, e poi appunto in Louisiana. Si chiama anche gombo; e gumbo, nome alquanto simile, è la ricca zuppa della cucina cajun, piccante e odorosa, a base di gamberi e salsicce, addensata proprio dalla consistenza dell’okra che ne è ingrediente essenziale. In Texas ho provato a cucinarla e ho imparato a mie spese che la sua preziosa mucillagine richiede un cottura rapida e intensa, se non si vuol rischiare di ritrovarsi una pappa viscida e stoppacciosa. Cucinata a dovere invece è ottima, appetitosa direi.
Pianta da climi caldi, d’estate può crescere anche da noi. In Brasile ho comprato una bustina di semi e ora ho quattro piante rigogliose, che fioriscono e fruttificano generosamente. Ho assaggiato le mie okra, dopo un ammollo di un quarto d’ora nell’aceto, soffritte leggermente con scalogno e pomodorini e tutti le abbiamo apprezzate.
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Il miracolo dell’Hoya carnosa, il fiore di cera
Hoya carnosa è entrata in casa mia in sordina, quasi per caso. Un’amica me ne ha regalato una piccola fronda, promettendomi fiori strabilianti. E’ successo sei anni fa, sei lunghi anni di attesa. La piccola fronda attecchisce subito, sviluppa nuove foglie, cresce, si allunga, i suoi fusti volubili cercano ovunque appigli verso il cielo. Le foglie, scure e coriacee, si colorano di verde, marrone, nero. Macchie bianche. Cresce, ma non sta bene. E soprattutto non fiorisce. Io sposto, rinvaso, bagno, spruzzo, concimo, divido. Ora sono tre piante, sempre più folte, sempre più protese. Ma niente fiori. Quasi quasi ho rinunciato a vederli, persino ad immaginarli, anche se ormai li conosco bene da tutte le illustrazioni scovate in giro, fra libri e web. Staranno meglio fuori o nella serra? Avranno abbastanza umidità? O troppa? Meglio sostenerli con decisione o lasciarli liberi di vagare alla ricerca dell’appiglio che più li aggrada? Una quarta pianta viene sacrificata a un esperimento di permanenza all’esterno in condizioni non proprio ottimali. Alla fine le altre tre se ne stanno tranquille tranquille, al riparo dei vetri, in luce costante, ma non diretta, annaffiature regolari, ma non eccessive, vasi medi. Rigogliose, ma sterili.
Finchè un giorno di questo giugno, così tiepido ed umido, quasi leggero, in cui il giardino e la serra esplodono di vitalità, sorprendo questi mazzetti rosa appoggiati con noncuranza alle lunghe fronde sinuose e ricadenti. Non uno, ma tanti, lungo le propaggini, alle ascelle, sotto le solide foglie. Piccoli mazzetti crescono e si aprono in stelle bianche, con nel centro un punto rosso, veramente come modellati con la cera o creati con la porcellana.
E’ proprio una pianta esotica, essendo originaria di una zona del mondo fra Asia meridionale e Oceania. In passato inserita nelle Asclepiadaceae, è oggi classificata nella famiglia delle Apocinaceae, insieme ad altri fiori affascinanti, come la plumeria, l’oleandro, la carissa e la più domestica pervinca (13 marzo 2009). Adesso che la fioritura è cominciata, dovrebbe continuare sicura e generosa per tutta l’estate.
Iperico dei miracoli
Sono passati più di 10 anni da quando esiste questo blog e da quando ho mostrato la prima foto di questo fiore straordinario, l’iperico comune, o Hypericum perforatum (21 giugno 2008).
Il nome tradizionale è erba di San Giovanni. Davvero tanti potrebbero essere i fiori che si fregiano di questo nome perchè la festa di San Giovanni Battista, 24 giugno, è uno dei momenti dell’anno in cui la fioritura dei prati e dei campi tocca l’apice. Anche se il giorno di San Giovanni è in realtà l’inizio del declino, quando il sole torna a muoversi, cioè il tramonto si riavvicina all’ovest e le giornate si accorciano, in questi giorni davvero nei prati impazza l’estate. In inglese l’iperico si chiama St John’s wort, ‘wort’ e non ‘herb’, un termine che è spesso affiancato a louse, pidocchio, parassita, lousewort è un’erba da poco, un’infestante selvaggia. In questa stagione, i fiori gialli dell’iperico brillano dappertutto, invadente sì, ma con dentro un tesoro.
La classificazione tradizionale (Cronquist) assegnava l’iperico alla famiglia delle Guttifere, oggi Clusiaceae, una famiglia di piante che contengono quasi ovunque minuscoli ricettacoli di lattice e resine. Anche se oggi la classificazione moderna APG ha creato la famiglia delle Hypericaceae, che contiene l’iperico appunto e un’altra decina di generi, i microricettali (cavità secretrici di origine schizogenica) sono sempre lì, come suggerisce proprio il nome specifico di questo iperico, H.perforatum, le cui foglie si presentano punteggiate (‘perforate’) per la presenza di zone trasparenti dove ci sono le ghiandole oleose. E’ il contenuto di queste goccioline che rende l’iperico una della piante da più tempo usata e fra le più studiate per le applicazioni medicinali e il suo estratto è una delle medicine erboristiche meglio caratterizzate e descritte.
Come farmaco i suoi impieghi sono molteplici e diversi, ma in primo luogo come antibatterico e antivirale, cicatrizzante e antidepressivo. Da erba curativa a erba magica, il passo è breve e la tradizione popolare si è sbizzarrita trovando molti usi particolari e curiosi di quest’erba, bruciata contro le streghe o usata per ‘sfasciare ‘ le fatture, o come semplice portafortuna se racconta nel giorno di san Giovani insieme ad altre erbe benefiche, seccata e confezionata in piccoli sacchetti a forma di cuore da tenere sempre con sè.
La scienza ha identificato i principali componenti attivi, fra cui spiccano ipericina, iperforina e vari flavonoidi fra cui rutina e quercitina. Tuttavia il meccanismo di azione delle singole sostanze non è ancora pienamente descritto e spiegato e nella maggior parte dei casi è l’estratto totale a fornire il massimo beneficio. La complessità dei preparati fitoterapici (un estratto vegetale contiene decine o centinaia di componenti) è insieme la potenza e il limite della medicina erborista. Infatti la presenza di componenti occulti, non descritti e non messi in conto, può causare effetti avversi imprevisti e complessi, ma nello stesso tempo la sinergia di componenti diversi può presentare un’efficacia inarrivabile con i singoli principi attivi. L’ipericina è un pigmento rosso che dona all’olio di iperico un colore sanguigno, come proprio il sangue del santo, decapitato da Salomè. E’ una sostanza fotosensibile, cioè le sue proprietà sono attivate dalla luce, specialmente la componente ultravioletta, rendendolo un efficace funghicida, battericida e antivirale. Questa proprietà inoltre la rende utile per la fotodiagnosi e fototerapia dei tumori. Tuttavia, come tutte le sostanze di questo tipo, può dare fotosensibilizzazione della pelle. Ma è nella cura di disturbi nervosi, come la depressione, che l’iperico sta conquistando notorietà. Le cime fiorite dell’erba di San Giovanni sono state da sempre usate tradizionalmente e negli ultimi decenni sono diventate un trattamento specifico per le sindromi depressive in alcuni paesi europei, tanto che questa pianta è stata soprannominata il ‘prozac vegetale’. La cura farmacologica della depressione si basa su principi attivi che aumentano la concentrazione di serotonina alle sinapsi, inibendone l’idrolisi (inibitori delle monoamine ossidasi iMAO) e la ricaptazione (inibitori del trasporto come la fluoxetina, cioè il prozac). I componenti dell’estratto di iperico, in azione specifica di ipoericina e iperforina, ma sinergica con i vari altri componenti, eserciterebbero appunto un’azione di questo tipo, ma in modo nonselettivo, agendo su diversi neurotrasmettitori, serotonina, noradrenalina, dopamina, ma anche acido aminogammabutirrico e glutammato. Benchè non si sia pieno accordo sull’efficacia dell’erba di San Giovanni nei casi di depressione grave, e spesso venga prescritta soltanto nei casi di depressione lieve o moderata, non c’è alcun dubbio che essa sia almeno 10 volte più sana degli antidepressivi sintetici.
Geranium “Rozanne”
Il geranio “Rozanne” è un ibrido da giardino relativamente giovane, ma già carico di storia e successi. Il suo nome viene da quello di un’appassionata floricultrice inglese, Rozanne Warerer, che insieme con il marito Donald (entrambe pensionati, beati loro) coltivava gerani pregiati nel suo giardino. Gerani, si badi bene, non Pelargoni, che sono quelle generosissime piante della famiglia della geraniaceae che abbiamo tutti, ma proprio tutti, su terrazzi, balconi e davanzali (vedi 25 febbraio 2009). Gerani e pelargoni si assomigliano, ma non sono lo stesso genere, e soltanto i gerani sono spontanei nelle nostre campagne. La fortuna dei pelargoni, originari dell’Africa australe, è la loro lunghissima stagione di fioritura, mentre quasi tutti i fiori fioriscono per un periodo molto limitato nell’anno.
Or dunque i due fortunati vecchietti avevano nel loro giardino nel Somerset due splendide specie di Geranium, Geranium himalayense e Geranium wallichianum, dalla fioritura abbondante, ma temporalmente limitata. A un certo punto, e precisamente nel 1989, le due specie si incrociarono spontaneamente dando origine a un figlio ibrido, la cui straordinaria fioritura, ampia e prolungata, conquistò in pochi decenni il mercato vivaistico di tutto il mondo.
Quindi, se qualcuno volesse un vero geranio, da far invidia ai pelargoni più altezzosi, questa varietà è certamente un’opportunità da considerare.
Visto, ammirato e acquistato alla mostra mercato Fiorissima, vialla Schella, Ovada (AL). Messo a dimora in un angoletto del giardino, fra le rose rugose, impazienza, cosmea e la sopravissuta peonia.
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Vesicaria maggiore
Scopro questa brassicacea (la famiglia dei cavoli) sulle pendici della ripida Val Graveglia, nell’alta entroterra di Sestri Levante (Genova), lungo una poderale sterrata verso la cosidetta roccia dell’aquila. Mi sorprendono le sue silique (anzi siliquette(1)) rotondeggianti come otricelli (da cui il nome specifico utriculata), che subito mi fanno capire che è un genere diverso dai soliti broccoletti, rapanelli e altre crucifere da campo. La mia fortuna è che il suo nome comincia per A ed è una delle prime brassicacee in cui mi imbatto nella ricerca. Anche il nome volgare, vesicaria, si riferisce alla forma curiosa dei suoi frutti.
I fiori, gialli e simmetrici come tutti gli altri, sono quasi sfioriti in questo fine aprile e fotografo quello che c’è. Molto abbondante su queste pendici scoscese, non è pianta rara in questi ambienti, ma neppure comunissima, e non ne è documentato nessun utilizzo officinale o alimentare. Come ornamentale, gli è forse preferito il più noto alisso, da cui ha copiato un po’ il nome.
Curiosa, ma davvero non serve a niente? E invece no, anche questa modesta vesicaria ha attirato l’interesse della scienza proprio per la sua capacità di crescere e prosperare tutto l’anno su suoli di serpentino, in ambiente arido e asciutto, come sono appunto le pendici rocciose delle coste mediterranee. La sua tolleranza per questi substrati ricchi di metalli anche tossici ne suggeriscono l’utilizzo come iperaccumulatrice di nickel, che tollera senza che il suo meccanismo fotosintetico si inceppi(2). Queste piante potrebbero quindi venire impiegate per la depurazione dei suoli contaminati da metalli mediante un procedimento che prende il nome di fitorisanamento (phytoremediation).
(1)Siliquetta è il nome che si dà al frutto delle brassicacee quando lunghezza e larghezza sono pressappoco uguali. Viceversa si chiama siliqua un frutto allungato, lungo circa tre volte la propria larghezza.
(2)Roccotiello et al. Nickel phytoremediation potential of the Mediterranean Alyssoides utriculata (L.) Medik. Chemosphere. 2015 119:1372-1378. doi: 10.1016/j.chemosphere.2014.02.031.
Geo, pianta dai molti nomi e molti usi
Il geo è una piccola rosacea, gialla come la potentilla (26 marzo e 23 aprile 2009) che infesta il mio giardino. Quando la scopro, erbaccia fra le erbacce, mi piace e mi commuove perchè sembra un ranuncolo, anche se non lo è. E’ più gentile di un ranuncolo, più dolce. E’ una pianta eretta, con foglie ampie, e fa uno strano frutto, una specie di palletta irsuta, fatta di barbe rossiccie che terminano ad uncino.
Ha molti nomi volgari, cariofillata, ambretta, garofanaia, benedetta o semplicemente geo, italianizzazione del nome scientifico Geum. I nomi volgari, quasi tutti, le affiancano l’aggettivo ‘comune’ per sottolineare che non è pianta nè particolare nè rara. Diffusa davvero ovunque, nei boschi e lungo le siepi, in Italia e in Europa, in lungo e in largo per la fascia temperata del vecchio mondo. Il nome specifico urbanum starebbe invece ad indicare la sua preferenza per i luoghi antropizzati.
Nonostante sia così comune e diffusa, se ne trova poca traccia nei libri per dilettanti. Così, prima di fare veramente la sua conoscenza, l’avevo incontrata addirittura all’orto botanico di Roma, un giardino meraviglioso che non disdegna di mostrare generi e specie delle piante più comuni e familiari e ne avevo riconosciuto le foglie nelle prime rosette della primavera.
Le sue proprietà officinali sono ampiamente descritte nella letteratura scientifica in fitoterapia. Fra gli usi tradizionali più documentati, vi è l’impiego della sue radici, dal gradevole e caratteristico profumo di chiodi di garofano, come febbrifugo e antinfiammatorio, ma anche astringente intestinale e antidolorifico. La medicina popolare europea utilizzava questa pianta anche contro i tremori della vecchiaia, legati forse a un incipiente malattia di Parkinson. E la medicina moderna allora interroga ancora Geum urbanum alla ricerca della chiave delle sue noscoste proprietà. Studi recenti suggeriscono che estratti alcoolici di tutta la pianta hanno la proprietà di sciogliere le fibrille di α-Synucleina, una proteina che forma aggregazioni maligne nei neuroni dei malati di Parkinson*. Dato che il ruolo nella malattia di queste fibrille, e dei loro derivati, i corpi e i neuriti di Lewy, non è ancora perfettamente compreso, forse non è ancora giunto il momento di coltivare praterie di geo per curare il morbo di Parkinson. Se lo faremo un domani non è dato saperlo, ma così procede la scienza, fra analogie e intuizioni, qualche volta, anche se più raramente di quanto desidereremmo, verso il successo.
*Lobbens et al. Mechanistic study of the inhibitory activity of Geum urbanum extract against α-Synuclein fibrillation. Biochim Biophys Acta. 2016 1864(9):1160-1169 doi: 10.1016/j.bbapap.2016.06.009.
I faggi di Praglia
Alto e imponente in mezzo alla radura, sul colle di Prou Renè di Praglia, dove comincia del Sentiero Naturalistico CAI del Laghi del Gorzente, il primo faggio che ci viene incontro è spoglio. Non c’è da stupirsi, la stagione è un po’ indietro, come piace dire, ovvero gli alberi aspettano i tempi della loro natura. Sono belli e maestosi questi alberi spogli, non vergognosi di mostrare i muscoli della loro energica struttura, nudi, interi, liberi, perchè nessuna mano regolatrice arriverà quassù a umiliarli con una potatura. Poi avanzando per il sentiero verso il territorio compreso nella ‘tavola di Polcevera‘, ecco apparire un grande faggio che in una radura assolata è già tutto verde di foglie e carico di fiori. Il suo verde tenero sembra un’apparizione fuori tempo, ma non c’è nessuna debolezza nei teneri germogli. Quest’albero ha fretta di esistere o forse è baciato dalla fortuna.
Così, forse per la prima volta forse in vita mia, accanto alle foglie di un verde trasparente, scopro i fiori del faggio, pendagli celurei appena accarezzati dal vento (cliccare sulla foto sulla destra per vederla più grande).
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Il falso canforo di Tribogna
Andavo per paesi, tutti i paesi della provincia di Genova. Mi piacerebbe dire che facevo della paesologia come Franco Arminio, ma non è vero. Cercavo cartoline di tutti i comuni, se ancora ne esistono. Ne ho trovate poche e non ne ho trovate a Tribogna (condizione necessaria, anche se non sufficiente, per trovare una cartolina è che ci sia un negozio, tabaccheria o alimentari tuttofare, ma a Tribogna non ho trovato neanche quello).
Ho incontrato però una chiesa magnifica, San Martino, e vicino alla chiesa un piccolo parco, per giochi e incontri, dominato da un grande albero, il cosidetto falso canforo. Il Cinnamomum glanduliferum è stato scelto come albero ornamentale in un po’ tutto il Nord Italia, dove a volte si è spontaneizzato (pare non in Liguria però). Viene dall’Asia ed è parente sia dell’albero della canfora (Cinnamomum canphora , vedi 15 settembre 2008) che di quello della cannella (Cinnamomum verum).
Distinguere i due canfori più diffusi nei nostri giardini (quello ‘vero’ e quello ‘falso’) non è molto semplice, anzi secondo gli ultimi aggiornamenti forse sono la stessa pianta.
Io sono andata a scuola di canfori nei parchi di Nervi, straordinari giardini che sono una fonte inesauribile di scoperte, e sopravvivono impavidi alla furia degli elementi e dell’incuria umana. Dal confronto delle due fotografie, mi pare di avere imparato che il falso canforo ha foglie più lucide con margini più netti, ma è una caratteristica sfuggente.
Però, oggi ne sono certa e spiegherò perchè, il canforo più famoso dei giardini genovesi è un falso. Si trova vicino al lago grande, nella stupenda villa Pallavicini di Pegli (Ge). Stretto com’è nella folta vegetazione, l’immagine non ne rende la prestanza. Ma lo celebra come spettacolare anche Tiziano Fratus(1) fra i grandi alberi di città. E ne descrive ‘la corteccia aranciata’, in contrasto con quella dei canfori veri, Cinnamomum canphora, che hanno tronchi grigiastri e cerulei, fugando così tutti i miei dubbi sull’identificazione. Questa caratteristica mi appare davvero interessante e già scorgo riflessi arancio anche sulla corteccia del falso canforo di Tribogna.
(1)Tiziano Fratus “Manuale del perfetto cercatore d’alberi” UEFeltrinelli 2017 pg. 187
Colombina magica
La primavera fa scoprire nuovi fiori, inaspettati. Ma sono così presuntuosa da pensare che la mia terra non abbia più segreti per me? Che follia! Ne conosco soltanto una briciola e ogni giorno, in primavera soprattutto, incontro fioriture che riescono a stupirmi perchè non le avevo mai notato prima. Come questa Corydalis, il cui nome volgare colombina o coridalide non mi è più familiare. La guardo e la riguardo, sulla sponda della strada provinciale 586 di Rezzoaglio, proprio in mezzo al paese, a pochi metri dal caseificio. Mi soprendono le sue forme, i fiori tubiformi, che si aprono in piccole labbra (la descrizione botanica è alquanto più complessa e precisa, ma piuttosto indigesta per i profani), e le foglie “cauline, alterne, doppiamente tripennatosette” (questo sì, diciamolo in botanico perchè non si può dire meglio), la compattezza delle spighe, e i colori, screziati e cangianti, dal rosa pallido al bordeaux. Dovrei intravedere la sua somiglianza con la fumaria (Fumaria capreolata, 9 maggio 2008 e Fumaria officinalis, 18 aprile 2010), ma chissà perchè non lo colgo. Penso all’aconito, alle foglie di aquilegia. No, no siamo fuori strada. Corydalis è una papaveracea (la famiglia delle fumariaceae non esiste più), è una pianta comune (e che volevi aspettarti da una spavalda che cresce sul ciglio della provinciale?), ma è anche una pianta famosa, dal nobile passato e interessante presente. Da secoli, probabilmente millenni, la medicina cinese utilizza una sua parente locale, Corydalis yanhusuo per alleviare il dolore; il principio attivo sarebbe un alcaloide, la deidrocoribulbina, che si è mostrata efficace contro il dolore causato da infiammazioni o traumi.
Che dire della Corydalis cava, la specie più comune dalle nostre parti? Certamente è una pianta velenosa, che può causare intossicazioni. Ma questa è caratteristica di molte pianti officinali, curative e un po’ magiche.