Bacche di goji

Lycium barbarum

Lycium barbarum

Prepotentemente salite alla ribalta da un paio d’anni e pubblicizzate come toccasano universale per ogni sorta di malanni, le bacche di goji non sono certo una novità per la cucina e la medicina tradizionale cinese. L’improvvisa popolarità nei paesi ‘occidentali’ di questo piccolo frutto, che secco ha un leggero sapore di uvetta amarognola, non è immune da dubbi ed equivoci. A cominciare dal nome. Il nome moderno goji sarebbe una translitterazione di un cinese gǒuqǐ (vi risparmio i caratteri), che significa … bacca. Le proprietà medicinali, o quantomeno preventive, di queste “bacche bacche” sono legate alla presenza di flavonoidi con rilevanti proprietà antiossidanti e antimicrobiche. Qualche risultato in tal senso è stato certamente documentato, ma i flavonoidi sono contenuti in quasi tutte le piante. Che quelli del goji siano migliori e più efficaci, francamente non saprei. In più, il Lycium, nome scientifico che deriverebbe dall’origine persiana (Licia era l’antico nomea della Persia), appartiene alla famiglia delle Solanacee, una famiglia ambigua che comprende pomodori, patate, peperoni e melanzane, ma anche piante decisamente velenose come la belladonna e il giusquiamo nero, le dature e il tabacco. Secondo certi studi, anche le bacche di goji contengono atropina, l’alcaloide velenoso della belladonna, seppure in quantità probabilmente modeste.
Molti dubbi e poche certezze, ma anche tanta curiosità. E una pianticella di goji è arrivata nel mio giardino ed è cresciuta spavalda resistendo a una attacco di parassiti che ha coperto le sue foglie di piccole ciccatrici biancastre. E’ fiorita abbondantemente, coprendosi di stelline viola pallido, e ha prodotto moltissime bacche, rosse. Le abbiamo assaggiate, crude, decisamente amare, assai meno gradevoli di quelle passite che si trovano in commercio.
Sono contenta che cresca e spero possa guarire. Da lei non mi aspetto miracoli, guarigioni prodigiose o eterna giovinezza. Ma la compagnia discreta e divertente di un alberello esotico dalla storia millenaria.

Verbena del Brasile

Verbena litoralis

Verbena litoralis


Nel disordinato e asciutto greto del torrente Bisagno, non molto lontano dal ciglio della strada, incontro questa verbena che è diversa da quelle conosciute. Si chiama verbena del Brasile perchè è nativa dell’America centro meridionale, anche se si è velocemente e felicemente diffusa un po’ dappertutto, dall’Australia al Sud Afriaca, dalle Hawai al Mediterraneo occidentale. In inglese si chiama anche verbena delle spiagge (seashore vervain), nome che rieccheggia quello scientifico. Cresce sottile e robusta, come tutte le verbene selvatiche, sui lunghi steli i suoi fiorellini minuscoli si perdono nella polvere dell’estate.

Verbasco porporino

Verbascum phoenicium

Verbascum phoenicium


Dopo una settimana di caldo torrido, oggi sono previsti temporali. Li stiamo aspettando dal mattino e finalmente, sono ormai quasi le 4 del pomeriggio, il cielo si è fatto cupo e rumoreggiante e comincia a cadere la pioggia.

Ora piove davvero. Mentre mi auguro che duri almeno un po’, spero che non sia devastante.

Il precoce caldo estivo ha rinvigorito le piante. Questo verbasco è un nuovo arrivo, seminato alla fine di marzo in serra, ora numerose piante sono a dimora nell’aiuola. Pianta perenne, spero che mi accompagni e allieti con i suoi fiori, semplici e raffinati, negli anni a venire. Rosa lilla e bianche, disposte in densi racemi, le corolle si spalancano nel mattino, e si chiudono, un po’ scomposte, nel sole del pomeriggio.

Lupinella

Onobrychis viciifolia

Onobrychis viciifolia

 

Foraggera, mellifera, questa graziosa piantina rosata e screziata di rosso, è un nobile esempio della generosità vegetale. Il suo nome scientifico, di antiche origini, suggerisce che fosse cibo gradito degli asini che ne brucavano avidamente. Anche le api la bottinano, confezionando un miele delicato e chiarissimo.
Ho assegnato questo esemplare alla specie più diffusa, Onobrychis viciifolia o lupinella a foglie di veccia, che veniva coltivata abbondantemente come foraggio e, sfuggita alla coltivazione, ha colonizzato colline e pendii di mezza Italia. Ma potrebbe essere anche Onobrychis supina, lupinella sdraiata, molto simile in colori e forma, anch’essa comunque a quanto pare non disdegnata dall’ape.
Fotografata vicino alla velenosissima coriaria (vedi ieri), sulle montagne fra Imperia e Savona nei pressi del passo del Ginestro.

Sommacco provenzale

Coriaria myrtifolia

Coriaria myrtifolia

Sulla morbida montagna del ponente ligure, fra il rosa dei cisti e il giallo delle ginestre, nei pressi del passo del Ginestro (Imperia – Savona), cresce un suffruttice, cioè un arbusto, della macchia mediterranea occidentale, le cui foglie ricordano quelle del mirto (da cui il nome).
Ma non facciamoci ingannare,  si tratta di una delle piante più velenose di questo ambiente. Le sue bacche contengono una tossina, la coriamirtina, con violenti effetti neurotossici, che possono provocare crisi epilettiche, coma e apnea. Naturalmente, se l’avvelenamento viene individuato in tempo, esistono antidoti, come è spiegato nell’articolo che ho citato sopra. Non ne conosco l’aroma, ma la definirei non adatta alla preparazione dei liquori.

Miltonia

Miltonia

Miltonia


Queste orchidee, di difficile attribuzione fra il genere miltonia e miltoniopsis, sono anche dette orchidee viola del pensiero o orchidee pansè per via della forma dei fiori che ricorda appunto una viola del pensiero o pansè. Nel caso di questo esemplare, che codvrebbe essere miltonia, la somiglianza non è così evidente, ma i fiori sono senza dubbio molto attraenti e duraturi.
La difficoltà sarà assicursi una nuova fioritura quando inesorabilmente i fiori saranno terminati e incontrare i suoi gusti in fatto di luce, ananffiature e temperature. A leggere i manuali e i consigli dei siti di giardinaggio non è così semplice. Mi pare che questa pianta necessiti di irrigazioni abbastanza frequenti e luce non diretta. Per resto, se i fiori torneranno, lo considererò un regalo personale.

Veronica Occhi della Madonna

Veronica chamaedrys

Veronica chamaedrys

Le minute pianticelle che rispondono al nome di Veronica sono numerose, somiglianti e diverse fra loro, anche piuttosto comuni, modeste, tenere, eppure assolutamente magnifiche. Bisogna ingrandire l’immagine (cliccateci sopra) per cogliere quella pennellata di indescrivible azzurro che ha meritato a questo fiorellino il nome di “occhi della Madonna”. Un azzurro così intenso e perfetto, tutto racchiuso in pochi millimetri. Queste veroniche fioriscono in primavera, quando l’erba comincia a ritrovare il verde della stagione propizia, da aprile a giugno.

Molto simili le altre specie, che già avevo descritto nel vecchio blog, ma che riporto qui per confronto.

Veronica cymbalaria, dai fiori bianchi, deve il suo nome alla somiglianza con un’altra pianticella selvatica dai fiorellini deliziosi, la cymbalaria muralis (16 marzo 2009). Stessa la famiglia, in precedenza  Scrophulariaceae, poi Plantaginaceae, secondo la moderna classificazione APG. Simili le abitudini, di fiorire quando è ancora inverno, fra gennaio e marzo, e di abitare sui muretti, agli orli della strade, o in piccoli anfratti terrosi, anche in piena città, dentro un vaso di coccio abbandonato, ai piedi di una porta sprangata. Dappertutto.
Veronica serpyllifolia
Veronica persica è esotica e più sfacciata. Ama i colori forti, un blu viola elettrico e fiorisce tutto l’anno.
Più ricercata e particolare, pur nella sua disarmante semplicità, è la veronica a foglie di timo, estiva come l’altra pianticella da cui prende il nome, il timo serpillo (28 giugno 2008). Veronica serpyllifolia , slanciata ed eretta, ha infiorescenze (racemi) strette, formate da decine di fiori, situate verso la sommità del fusto. Il fiore ha il petalo in alto più grande degli altri (particolarità presente in altre specie di veronica) e tutti i petali hanno striature azzurro scuro sul celeste pallidissimo dello sfondo.

Termino in bellezza con la magnifica veronica acquatica, che trovate qui
Veronica cymbalaria
Veronica persica

Cardo saettone

Carduus pycnocephalus

Carduus pycnocephalus

Lungo tutte le  strade, locali,  provinciali,  statali e autostrade,  c’è una terra di nessuno, un ciglio, un bordo, una spalliera da nulla dove sbocciano in primavera moltissimi fiori.  Liberi e spavaldi,  incuranti del traffico e delle miriadi di automobili, che, affannate e distratte, sfrecciano loro accanto.  E a me piace l’idea di scendere dal mio cavallo di latta,  e percorrere un poco quella strada inesistente per guardare i fiori.

Ecco un cardo proprio comune, bello e inavvicinabile.  Lungo fino a 80 cm, esile, cresce dovunque in questa stagione, sui ciglii e negli incolti, punteggiandoli del rosa violaceo dei suoi densi capolini.   Il cardo saettone è un fiore che non teme nulla, armato come è di difese, lucide, acuminate, spine che lo attraversano, orlano i suoi steli sottili, sormontano le foglie lanuginose. Non credo che nessuno, a mani nude, potrebbe mai pensare di coglierlo. Eppure anche questa pianta è nell’elenco delle foglie commestibili, medicinali, da foraggio, nei tempi quando la spazzatura era l’ultimo dei problemi della famiglia, perchè davvero non si buttava via nulla.

Il termine cardo, dal latino carduus,  è probabilmente derivato dal greco κάρδος cárdos, essere duro o forseἄρδις árdis pungiglione, punta dello strale.  Quando l’involucro secco, così irto di adunchi pungenti, diventava un attrezzo  utile per districare la lana, nacque il verbo cardare.

Col nome comune di cardo si indicano moltissimi generi pungenti di disparate famiglie botaniche.  Alle asteracee appartiene  Carduus, ma anche Cirsus, Echinops,  Carlina, Galactites (30 aprile 2010),  Scolymus (1 luglio 2009) e molti altri ancora. Invece il più importante cardo dei lanaioli  (Dipsacus fullonum, vedi 30 luglio 2009),  è della famiglia delle Dipsacaceae (oggi peraltro confluita nelle Caprifoliaceae) e vi sono cardi perfino fra le ombrellifere (Apiaceae)  come la calcatreppola (Eryngium campestre – 12 settembre 2009). Come dire, di cattivi soggetti il mondo è veramente pieno.

 

Scilla autunnale

Prospero autumnale

Prospero autumnale

Chi l’ha detto che solo la primavera è fiorita? Straordinarie le fioriture e le rifioriture di settembre, nell’aria tiepida e tersa, nei prati arruffati, tornati disordinatamente verdi dopo le piogge di fine agosto, sotto gli alberi sfatti dalla fatica dei frutti.

Questo genere, e moltissimi altri, che avevo frettolosamente e un po’ distrattamente collocato fra le liliaceae, sono oggi inseriti nelle asparagaceae.
Il prospero autumnale assomiglia talmente alla scilla (vedi 16 aprile 2009) che non è un errore molto grave chiamarlo proprio così.